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Happy End


Regia:Haneke Michael

Cast e credits:
Sceneggiatura: Michael Haneke; fotografia: Christian Berger; montaggio: Monika Willi; scenografia: Olivier Radot; costumi: Catherine Leterrier; interpreti: Isabelle Huppert (Anne Laurent), Jean-Louis Trintignant (Georges Laurent), Mathieu Kassovitz (Thomas Laurent), Fantine Harduin (Eve Laurent), Franz Rogowski (Pierre Laurent), Laura Verlinden (Anaïs Laurent), Toby Jones (Lawrence Bradshaw), Hassam Ghancy (Rachid), Nabiha Akkari (Jamila), Joud Geistlich (Selin), Philippe du Janerand (Maître Barin), Dominique Besnehard (Marcel, il parrucchiere), Bruno Tuchszer (Ispettore); produzione: Les Films Du Losange-X-Filme Creative Pool-Wega Film, in coproduzione con Arte France Cinéma-France 3 Cinéma-Westdeutscher Rundfunk-Bayerischer Rundfunk-Arte; distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis; origine: Francia-Germania-Austria, 2017: durata: 107'.

Trama:Storia di una grande famiglia altoborghese che ha ormai perso i suoi valori. Specchio di una società votata alla falsità, all'egoismo e all'infelicità, sullo sfondo di Calais, spazio di transito per i rifugiati, presenza tanto latente quanto ingombrante.

Critica (1): Un cantiere nel centro di Calais, operai al lavoro, un muro di contenimento che crolla e fa franare un terrazzamento su cui sono posizionati dei bagni chimici. È questa una delle prime scene di Happy End, vista attraverso la camera di uno smartphone. Più tardi scopriamo che un operaio è morto e altri, che si trovavano nelle toilette, sono rimasti feriti. Il cantiere è di proprietà della famiglia Laurant, intorno alla quale ruota tutta la storia. Da un lato il patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant) che, anziano e stanco della vita, vuole farla finita e dall’altra i figli Anne (Isabelle Huppert) e Thomas (Mathieu Kassovitz), la prima che si affanna per salvare l’azienda prima che le cause legali la annientino e il secondo, medico, che tenta goffamente di riparare agli errori fatti con la figlia della prima moglie, la nuova compagna e l’amante insoddisfatta.
Come in Amour (2012), Haneke non trova altro modo per parlare della vita che attraverso la morte. Una morte raccontata come una costante, che sta dappertutto, dentro la vita di tutti i giorni e dentro i rapporti umani, quelli familiari e quelli economici e che più che una pulsione o una tensione tragica è una vera e propria condizione ontologica. Lo sguardo nichilista del regista austriaco non presuppone di dimostrare una tesi o di accumulare simboli; si estrinseca attraverso immagini che vanno analizzate, osservate e inseguite fino all’estremo. Come un oggetto non identificabile, perché capace di assumere tante, troppe forme, la morte non è mai rappresentata direttamente e anzi, diventa una presenza incorporea.
Proprio la scelta di non mostrarla, però, rende la morte ancora più potente. Haneke arresta il racconto sempre un attimo prima dell'evento, e (come avviene nel finale) non mette in scena nessun gesto drammatico, nessun momento tragico. Come Niente da nascondere (2005), Happy End non va alla ricerca di metafore, ma piuttosto cerca nell’atto filmico il limite stesso della visione e nella narrazione il punto oltre il quale non è più possibile dire o mostrare. Le riprese con lo smartphone, che aprono e chiudono il film, sono la testimonianza di tutto questo: dell’impossibilità di dare un senso alla morte (e alla vita), anche andando a filmarne l’essenza tragica. Proprio come nelle vhs di Niente da nascondere, l’immagine è senza significato, senza padrone e senza referente; un’immagine che non rappresenta la morte ma è essa stessa fatta di morte.
E allora il rappresentabile diventa un mondo dentro il quale non si comunica e dove gli individui non riescono a trovare punti di contatto. Calais è terra di confine dove il viaggio si arresta e dove l’esistenza non assomiglia più alla vita; esattamente come la famiglia – di cui Haneke celebra la dissoluzione completa – è ormai ridotta a costrutto sociale all’interno della quale i protagonisti non si capiscono, non si parlano e agiscono per secondi fini e interessi. Per questo il regista in diversi momenti riprende le situazioni a distanza, lasciando la macchina lontano dai personaggi e i dialoghi nell'indefinito. E sempre per questo, in uno dei momenti chiave del film, quando la piccola Eve va con il padre a fare visita alla madre morente all’ospedale, la macchina ci mostra i due da lontano che fugacemente entrano nella camera della donna e se ne vanno dopo pochi secondi. Il tutto accompagnato in un silenzio tombale. Come se oltre a non vederla, la morte, sia impossibile anche sentirla. E in un mondo che di quella morte è fatto non risuoni altro che un assoluto e angosciante silenzio.
Lorenzo Rossi, cineforum.it 27/5/2017

Critica (2):Quando mesi fa è iniziata a circolare la notizia che il nuovo film di Michael Haneke sarebbe stata una storia ambientata tra i migranti di Calais e che si sarebbe chiamato Happy End non si poteva non pensare a un'astuta forma di presa in giro. Temi sociali e finali accomodanti sono forse due tra le cose più lontane che si possa immaginare appartengano all'universo filmico di Haneke. E infatti anche questo Happy End – sorta di sintesi filosofica del pensiero dello sguardo del registra austriaco – non fa eccezione. Il film inizia con delle immagini di pessima qualità riprese da uno smartphone (sul modello delle storie di Instagram): vediamo scene di vita quotidiana, una donna che si lava i denti e che va in bagno, un criceto in gabbia eccetera. Tuttavia già da questi primissimi secondi emerge subito un dettaglio sottilmente inquietante e cruciale per i film: i commenti che compaiono sotto le immagini arrivano sempre qualche secondo in anticipo rispetto a quello che vediamo. Se compare un commento dove si dice che la madre si sta lavando i denti, ecco che lei dopo qualche secondo si mette effettivamente a farlo. Lo sguardo insomma non vede mai il mondo passivamente, ma in un certo senso lo anticipa. Ne è responsabile.
Da sempre il cinema del disincanto – un cinema cioè che non crede nelle possibilità dell'immagine di esprimere una verità, ma che anzi ne vuole sempre sottolineare impossibilità e mancanze – si deve misurare con una delle domande più insidiose delle propria filosofia implicita: se davvero lo sguardo non può mai essere innocente, chi ne è dunque il colpevole? Chi ne è il responsabile? Molti critici si limitano a ridurre il cinema di Haneke a una sorta di generalizzazione della colpa e della responsabilità con il rischio di liquidare un pensiero rigorosissimo del cinema in una sorta di blanda sociologia del contemporaneo. Haneke è regista troppo colto e troppo raffinato per potere cadere in una trappola del genere, e niente come questo film all'interno della sua filmografia lo mostra in modo così chiaro. Quando in una delle prime sequenze del film noi vediamo un cantiere edile ripreso da uno smartphone dove improvvisamente avviene un crollo che uccide – poi sapremo – un operaio e ne ferisce diversi altri, il problema è proprio quello di stabilire la posizione soggettiva di questo campo visivo. Chi è che sta guardando la catastrofe che abbiamo di fronte agli occhi? La famiglia attorno a cui ruotano gli eventi è composta da una donna in carriera che sta per vendere l'azienda famigliare decaduta a delle banche inglesi (il cinismo della decadenza economica), un fratello medico che invece è preso da tre donne che non ama – una moglie da cui si è divorziata e da cui ha avuto una figlia, una compagna attuale che non ama, e un'amante che non è soddisfatta – e poi da un'adolescente e da un vecchio patriarca preso da una demenza senile. Non c'è bisogno di aspettare una rivelazione a metà del film per capire che quello che abbiamo di fronte agli occhi è un vero e proprio sequel di Amour, dato che i personaggi sono interpretati esattamente dagli stessi attori (Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert) e che è proprio la generazione di mezzo, cioè il fratello e la sorella, che è troppo dentro alla catastrofe per riuscire davvero a "vederla".
È una strana alleanza tra il nonno demente e l'adolescente anaffettiva ma nascostamente violenta che mostrano come l'unica possibile posizione soggettiva sia proprio quella della contemplazione e della consapevolezza. Il pessimismo di Haneke insomma non è un dispositivo morale ma semmai ontologico: il disincanto non appartiene a una scelta ma alla condizione stessa del nostro stare al mondo. E davvero la morte il vero problema della vita e dello sguardo e non certo una responsabilità morale (o tantomeno politica). Una morte che esattamente come in Amour non dobbiamo esorcizzare né negare, ma assumere fino in fondo. E al limite a imparare a guardare.
Pietro Bianchi, Cineforum n. 566, 7/2017

Critica (3):

Critica (4):
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