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Pickpocket - Pickpocket


Regia:Bresson Robert

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Robert Bresson; fotografia: Léonce Henry Burel; scenografia: Pierre Charbonier; musica: G.B. Lulli; montaggio: Raymond Lamy; interpreti: Martiri Lasalle (Michel), Marika Green (Jeanne), Pierre Leymarie (Jacques), Jean Pélégri (l'ispettore principale), Dolly Scal (madre di Michel), Kassagi (primo complice di Michel), Pierre Étaix (secondo complice Di Michel), Cesar Gattegno (un ispettore); produzione: Agnès Delahaie; origine: Francia, 1959; durata: 75'.

Trama:Michel, giovane di buona famiglia, si dedicava al furto fin dall’infanzia, quando sottraeva soldi alla madre. Catturato in seguito a un fallito borseggiamento, confessa di rubare solo perché vuole sfuggire all’oppressione della società. È appena uscito dal carcere, che gli muore la madre: sulla sua bara avrà un attimo di pentimento. Per un breve periodo prova ad ascoltare i consigli dei suoi amici Jacques e Jeanne. Ma un giorno incontra un borsaiolo professionista che gli chiede collaborazione. Michel ritrova la sua strada e presto diventa un ladro perfetto. A nulla servono le parole di Jeanne, innamorata di lui e gli avvertimenti del commissario che lo tiene d’occhio. Dopo alcuni colpi falliti Michel fugge in Inghilterra. Due anni dopo torna e trova Jeanne abbandonata da Jacques, che le ha lasciato anche un figlio. Allora decide di vivere con loro, e per mantenerli si rimette a rubare. Lo prendono e lo mandano in prigione. Quando Jeanne lo va a trovare, Michel si rende conto di aver ritrovato il suo equilibrio e la sua pace.

Critica (1):«Pickpocket è il primo film di Robert Bresson. Quelli che ha fatto prima non erano che brutte copie. Come dire, se si sa il valore di questo cineasta, che l’uscita di Pickpocket è una delle quattro o cinque grandi date della storia del cinema»: così scriveva Louis Malle. Per altri invece il regista era andato troppo avanti nelle sue ricerche, si era «chiuso a doppia mandata nel suo genere» come aveva scritto sullo stesso settimanale, appena otto giorni prima, il critico R. Cortade. Nell’un caso e nell’altro risultava comunque sottolineato soprattutto l’aspetto formale; nel film infatti c’è una chiara ripresa di elementi tematici ormai quasi tipici, anche se problematizzati (e ciò va detto nei confronti delle molte interpretazioni unidirezionali), ma soprattutto la ricerca espressiva predomina, emerge anzi come l’interesse primario.
Proprio per tornare a specificare come va intesa tale problematizzazione si può cominciare dai significati. La tensione è ancora il polo propulsore: le sue diramazioni sono suggerite dalla didascalia iniziale, sorta di emblematico «segno» col quale simmetricamente si chiude il film: «So che abitualmente quelli che hanno fatto queste cose tacciono o che quelli che ne parlano non le hanno fatte. Tuttavia io le ho fatte. O Jeanne, per venire fino a te quale strano cammino ho dovuto compiere»; l’attuazione della volontà è sottolineata dalla prima inquadratura (le mani che aprono la borsetta); il desiderio di «affermazione» è espresso dalla prima voce fuori campo: «Non avevo più i piedi per terra, dominavo il mondo». L’insopportabilità dello scacco è nelle parole che Michel pronuncia durante la visita finale di Jeanne: «Questi muri, queste sbarre, tutto mi è uguale. È l’idea che non posso sopportare. – Quale idea? – Mi sono lasciato prendere. Non avrei dovuto fidarmi».
L’itinerario di Michel si conclude su se stesso, lungo le tappe della volontà di affermazione, scoprendo le «strane vie» per arrivare all’altro. Volontà che diventa necessità, che si qualifica come bisogno di «uscita» («Come ha potuto? gli chiede Jeanne, non c’è nulla di più sporco – Si può saperlo e tuttavia farlo – Ma perché? – Per uscire – Ma c’erano mille altri modi...»), come ristabilimento di valori («raddrizzare il mondo»). Il rischio, allora, come privilegio. L’intento di affermazione è anche teorizzazione dei rapporti tra individuo e apparato sociale, tra codici e giudizio. Il dialogo col commissario è quasi didascalicamente chiaro: «Non si può ammettere che delle persone capaci, intelligenti, degli uomini di talento, e anche dei geni, invece di restare delle persone insignificanti tutta la vita in certi casi si sottraggano alle leggi? Per la società sarebbe un beneficio. – E chi giudicherebbe questi uomini superiori? – Loro stessi. – Il mondo, allora, a rovescio. – È già rovescio, lo si raddrizzerebbe».
Il percorso del protagonista conosce l’imitazione, si intravede il grande tema dell’attrazione del male, la sua dimensione ambigua: «mi trovai di fronte a un uomo dal comportamento strano» afferma Michel, e nella sequenza seguente lo si osserva mentre ne ripete i gesti; poco dopo si siede al bar vicino al ladro, «un quarto d’ora più tardi eravamo amici». Anche la qualità del percorso è ambivalente; l’aridità di Michel si afferma nel primo dialogo con Jeanne che gli dà notizie della madre: «Come sta? – Non bene, si tormenta. Manca di tutto, è di lei che ha bisogno. – Le dia questo denaro. – Non entra? – Arrivederci». Ma più tardi lo stesso Michel dirà a Jacques di amare la madre più di se stesso.
Del finale si è già discusso [...]: è la riacquistata libertà interiore? È la rivelazione della Grazia? È l’interpretazione più lineare, quasi facile; perché – ripeto – è forse la rivelazione a sé dell’altro, nel momento in cui l’impossibilità la chiude. Tra progetto e scacco; dietro, ambivalente, il senso di attesa. Il punto di arrivo può essere allora il rapporto che si crea tra l’affermazione (la libertà) che cerchi e le costrizioni (cioè la negazione) che crei, tra l’affermazione e la solitudine, o la fuga (e su quest’ultimo aspetto taluno ha giustamente insistito); l’estraneità è anche l’effetto della volontà di uscire, del «sogno»: «Lei sogna – dice Jeanne (sequenza del Luna-park), – non è nella vita reale. Non si interessa a niente di quello che interessa gli altri».
Di fronte a questo grumo di difficili contraddizioni, l’atteggiamento di Bresson sta tra il distacco e la partecipazione; lo si coglie persino nei particolari, nella sentenziosità del parlato alternata all’anonimato e alle tonalità grigie, in quel lasciare andare il personaggio (per esempio, le inquadrature di spalle) e nel riprenderlo in rilievo (il primo piano), nella fissità della macchina da presa che fa da contraltare ad arditi movimenti (i carrelli indietro che stupirono Malle).
Ma l’andamento preminente è verso l’asetticità, meglio verso un appiattimento sdrammatizzante: incontri, successi o fallimenti, nulla li differenzia. L’intreccio delle due parabole complementari, i destini di Michel e Jeanne, è solo un segno; ed è proprio il segno il termine di mediazione, di rapporto: i gesti, le mani come rivelazione di «abilità» (la famosa sequenza-balletto alla Gare de Lyon), l’attimo di ogni rivelazione, come la morte: per tre minuti ho creduto in Dio, afferma Michel.
Il caso provoca la Grazia, o il riconoscimento di possibilità: lo «strano cammino» o «il vento soffia dove vuole». Le intersezioni dei cammini testimoniano il segreto dei fatti, la non decifrabilità: il ricambio tra bene e male, il legame tra morte (la madre) e apertura (Jeanne) il quotidiano e le sue rivelazioni; «tutto – dice Jeanne – ha forse una ragione». [...]
[...] Come si diceva all’inizio, la messa in forma è dunque l’aspetto più rilevante e l’interesse primario di Bresson. La situazione-schema di base spingeva in questo senso, bisognava registrare il muoversi in un universo ostile che provocava tensione, che misurava e caricava i gesti dilatandoli. La suspence è creata e poi allentata (il poliziotto che si vede al commissariato e poi in stazione ecc.), i contrasti attenuati, i rumori inducono ad acuire le situazioni e poi smorzano; il tipo di inquadratura distende (la lunga inquadratura all’inizio, a Longchamp – circa 680 fotogrammi – è intervallata a gesti, mentre la voce dell’altoparlante rende l’esterno, il di fuori).
Un film anche di gesti, dunque; la macchina da presa li indaga (tutto il furto che attrae Michel all’inizio, circa 1.230 fotogrammi), insiste (le prove, in camera; il primo furto di Michel, circa 3370 fotogrammi, il cliente in banca), segue creando iterazioni ossessive (i «trucchi» rivelati dall’amico, sottolineati dalla musica, la prima che si sente), coglie il prolungamento, il peso, le conseguenze ulteriori; altre volte spezza, cerca ritmi. Conseguentemente è anche un film di cose, di oggetti. E di ambienti: la stanza (la «prigione»?) è l’interno opprimente, mai visto in totale; sono brani di muro, colori; sono sfondi, strade, rumori, personaggi anonimi. Il procedimento di prolungare l’inquadratura del personaggio rimanendo sullo sfondo prima o dopo il suo ingresso in campo trova in Pickpocket uno dei casi di applicazione più evidenti; la dilatazione produce appiattimento, cose fatti persone sullo stesso piano, l’azione si stempera. Ma vi è anche un effetto sul personaggio, per l’oppressione che si viene a creare, quasi isolandolo in un ambiente «insignificante» per cogliere i riflessi dei gesti e dei comportamenti. Alle volte l’ambiente è il «trait d’union» di due sequenze, e il procedimento citato serve allora di collegamento, provocando un effetto di iterazione e accumulazione.
Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio, 1976

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Robert Bresson
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