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Rashomon - Rashomon


Regia:Kurosawa Akira

Cast e credits:
Soggetto
: da due racconti di Ryunosuke Akutagawa; sceneggiatura: Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa; fotografia: Kazuo Miyagawa; musica: Fumio Hayasaka; montaggio: Akira Kurosawa; scenografia: So Matsuyama; interpreti: Toshiro Mifune (Tajomaru, il bandito), Machiko Kyo (Ma sago), Masayuki Mori (Takehiro, il samurai), Takashi Shimura (il boscaiolo), Minoru Chiaki (il bonzo), Fumiko Homma (la maga), Daisuke Kato (il servo), Kichijiro Ueda (il passante), Kigigiro Vedo (la guardia); produzione: Jingo Minoru per Diademi; distribuzione: Cineteca Nazionale - Cineteca Griffith; origine: Giappone, 1950; durata: 90’.

Trama:Per sottrarsi alla pioggia tre persone si rifugiano sotto il portale del tempio di Rasho-Mon: un prete buddista, un taglialegna e un servo. I primi due sono turbati per un fatto avvenuto pochi giorni avanti. Un samurai è stato ucciso nel bosco: i sospetti dell’autorità s’appuntano sul brigante Tagiomaru, che arrestato afferma d’aver violentato Mesago, moglie del samurai, e di essersi poi battuto a duello col marito. Ma viene smentito da Mesago, la quale afferma che, dopo la violenza, aveva essa stessa ucciso il marito per non sopportare il suo disprezzo. Per appurare la verità, i giudici fanno evocare lo spirito del samurai. Questi afferma che Mesago, dopo essere stata posseduta, ha invitato il brigante ad assassinare suo marito. Tagiomaru si è rifiutato; ma il samurai, non potendo sopportare l’obbrobrio s’è ucciso. Tutti mentono, si domanda, desolato, il prete buddista. S’ode dal tempio il pianto d’un bimbo, abbandonato: il taglialegna, che ha già sei figlioli, lo raccoglie per allevarlo coi suoi.

Critica (1):Intorno al 1100, in Giappone. Un tempio semidiroccato, nella foresta. Una pioggia scrosciante copre ogni rumore. Al riparo, due uomini (uno è un bonzo) discutono delle sventure che affliggono il paese, delle guerre e della fame, dei briganti. “Eppure un fatto così” dice il bonzo “è la prima volta che lo sento.” Giunge un terzo personaggio, un taglialegna. La macchina da presa segue gli spostamenti dei tre: è il fulcro della instabilità che pervade tutta l’azione del film. Il taglialegna comincia a raccontare il fatto inaudito. “Gli uomini sono un vero mistero”, commenta il bonzo. Sui volti dei narratori si legge lo stupore e l’angoscia. Isolati dal mondo (quasi fossero gli unici sopravvissuti a un naufragio), si abbandonano alla meditazione: costretti a farlo.
Cinque volte il fatto sarà raccontato. Prima e dopo i racconti, si torna alla discussione sotto le tettoie cadenti del tempio battuto dalla pioggia. Il fatto è accaduto tre giorni prima, nel bosco. Un samurai è stato trovato ucciso, un pugnale accanto a lui. Chi l’ha ucciso? Perché è stato ucciso? La prima versione è quella del taglialegna: un samurai passa nel bosco tenendo per le briglie un cavallo sul quale è seduta la moglie; a un tratto i due vengono assaliti dal brigante Tagiomaru, che salta addosso al samurai e lo ammazza. Ma quale funzione ha avuto la moglie?
La seconda versione è quella dello stesso Tagiomaru, davanti alla polizia: lui accosciato su una stuoia, sullo sfondo di un cortile chiuso da un lungo muro bianco. La terza è quella della donna, che vediamo nello stesso luogo e nella stessa posizione del bandito, dinanzi agli investigatori (che non appaiono mai). Prima il bandito e poi la donna parlano rivolti all’obiettivo, direttamente agli spettatori, investiti della funzione di giudici: il fatto, e il suo significato, riguardano tutti noi. “C’è forse un perché nelle azioni degli uomini?”, commenta il servo comparso all’inizio, accanto al bonzo. Anche il servo ha la sua versione da raccontare. L’ultima, infine, è la versione del samurai ucciso, che una maga fa “rivivere” contorcendosi e parlando con voce d’oltretomba: “Sia maledetto chi mi ha precipitato in questa voragine”. La maga-samurai afferma che fu la donna a indurre il brigante a uccidere, e costui impallidì (persino uno come lui) dinanzi a una proposta così crudele.
Le versioni si intrecciano. Il fatto (semplice nel suo svolgimento: l’incontro dei due con il bandito, la seduzione della donna, l’uccisione del samurai) acquista ogni volta aspetti nuovi. Si riconoscono, ogni volta, i personaggi, ma si ha l’impressione di assistere a fatti completamente differenti. Carrelli rapidi accompagnano le corse, le fughe e i contorcimenti dei tre (il samurai, la donna, il bandito): l’instabilità, il capovolgimento delle prospettive, le contraddizioni si traducono (l’intrico del bosco è l’intrico della vita) nella nevrotica mobilità della visione, cui si accoppia il crescendo di una musica che riproduce (per espressa volontà del regista) il tema e il ritmo del Bolero di Ravel. Tutte e cinque le versioni appaiono al tempo stesso vere e false. Ognuna è dominata dagli interessi di chi racconta. Il film termina con un gesto a sorpresa. La pioggia si attenua. Si ode il pianto di un neonato abbandonato in un angolo del tempio. Il taglialegna lo prende in braccio: “Io ho sei figli. Allevarne ancora uno non sarà una fatica molto maggiore per mia moglie”. Ora non piove piú. “Tu mi hai restituito” dice il bonzo “la fede e la speranza nella vita”. Rashomon – letteralmente: nel bosco – fu la rivelazione del cinema giapponese (fin’allora pressoché sconosciuto in Occidente) alla Mostra di Venezia del 1951, dove ottenne il Leone d’oro. E fu, soprattutto, la rivelazione di Akira Kurosawa (Tokyo, 23 marzo, 1910), regista assai noto in patria, dove il film aveva ottenuto uno straordinario successo di pubblico e critiche contrastanti. Le opere successive avrebbero confermato la qualità eccezionale del suo cinema, sia sul terreno della rievocazione storica (il genere gidai-geki) sia su quello dei temi contemporanei (il gendai-geki): da Haguchi (L’idiota, 1951), tratto da Dostoevskij, a Shichinin no samurai (I sette samurai, 1954), a Kumonosu-dio (Il castello della ragnatela, 1957), riduzione del Macbeth shakespeariano, a Dodes’kaden (1970), a Dersu Uzala (1975), girato in Siberia, in coproduzione con l’Unione Sovietica.
Quello di Kurosawa è un cinema di forte tensione ritmica. Rashomon rivela un gusto sicuro per lo scavo psicologico e una preoccupazione (sincera e sofferta, sembra di poter dire) per i grandi temi dell’esistenza umana. Quali siano le radici di questo umanesimo è, naturalmente, quasi impossibile spiegare, in presenza di una cultura così lontana e tanto poco studiata.
Fernaldo Di Giammatteo, 100 film da salvare, Mondadori, 1978

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Akira Kurosawa
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