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Ora di religione (L’)


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
:Marco Bellocchio; fotografia: Pasquale Mari; montaggio: Francesca Calvelli; scenografia: Marco Dentici; costumi: Sergio Ballo; musica: Riccardo Giagni; interpreti: Sergio Castellitto (Ernesto), Jacqueline Lustig (Irene), Chiara Conti (Diana), Piera Degli Esposti (zia Maria), Alberto Mondini (Leonardo), Gigio Alberti (Ettore), Toni Bertorelli (Bulla), Maurizio Donadoni (Cardinale Piumini); produttore : Sergio Pelone, Marco Bellocchio per Filmalbatros; produzione: Filmalbatros, Raicinema con il sostegno del Dipartimento dello spettacolo; distribuzione: Istituto Luce; origine: Italia, 2002; durata: 108'.

Trama:Ernesto Picciafuoco, disegnatore e pittore, appena separato dalla moglie, legatissimo al figlio, che frequenta le elementari. All’improvviso, Ernesto scopre una sorta di congiura familiare: i suoi fratelli, le sue zie, persino sua moglie, che condivideva fino a ieri il suo ateismo, si sono coalizzati per sollecitare la beatificazione della madre. La madre, di cui Ernesto ha ereditato l’enigmatico sorriso, venne uccisa da uno dei figli, malato di mente e bestemmiatore, mentre tentava di impedirgli di maledire il nome di Dio. Ma era davvero una santa? Ernesto ne dubita ma le sue convinzioni vacillano mentre si susseguono incontri enigmatici: con un cardinale, con un miracolato, con una giovane che si dice insegnante di religione del figlio e che suscita il desiderio sopito di Ernesto. E il figlio, da quest’anno, non è più esonerato dall’ora di religione...

Critica (1):Ernesto Picciafuoco segue con lo sguardo suo figlio che sale correndo la scala esterna della scuola. Il primo piano lascia trasparire un accenno di sorriso. E una giornata qualunque e l’uomo ha compiuto un’azione qualunque. Tuttavia tale azione segna un’alterità, se non proprio una rivolta; realizza in pochi secondi una rottura rapida, definitiva. Ernesto e suo figlio Leonardo avrebbero dovuto essere, in quel momento, all’udienza dal Papa. Invece no: uno stacco li ha separati dal resto della famiglia, e questo stacco è quasi il medesimo col quale la storia si chiude. Davanti alla scuola la luce mattutina è molto feriale; nei saloni vaticani, invece, la semioscurità sembra eterna: con l’alto prelato che guida il gruppo dei parenti, le preghiere, il "sinistro" e immutabile echeggiare dei passi.
Bellocchio ama i finali repentini o – nel suo caso non fa differenza – sospesi. Ricordo quello della Balia, per fare un esempio prossimo, dove il luogo manicomiale trasfigurava per calore di luce, e la chiusa era sancita da un timido gesto di assenso; e ricordo quello dell’Enrico IV, freddo invece, ed enigmatico. Sortendo da un insieme complicato e, potrei dire, severamente allegorico, lo stacco dà l’idea di una provocazione minimalista: "E come se Ernesto", dice lo stesso regista "all’ultimo momento intuisse che quel discorso sulla coerenza, sempre combinata all’affettività, deve anche consistere nelle piccole azioni, di cui poi i bambini hanno una memoria formidabile. Non è che lui prima fosse cattivo, o vigliacco; ma evidentemente il giorno prima o due giorni prima non dava sufficiente importanza a una scelta, che è molto semplicemente quella di portare il bambino a scuola. Nel farlo, fa qualcosa di buono per il bambino e per sé. Sono cose piccolissime, ma molto importanti".
La coerenza. Bellocchio vi ha cercato, nel corso degli anni, una risorsa ideale e stilistica insieme. Il suo cinema si è fatto man mano luogo di comprensione; o, in altri termini, di affinato ritorno alla violenta, primigenia rottura. Non la risposta a un banale bisogno di pace; piuttosto la scoperta di un legame prezioso fra dialettica e gradualità.
"Col capo lievemente reclinato, tratteneva la veste assai ampia che scendeva dalle spalle alle caviglie, così che erano visibili i piedi nei sandali. Il piede sinistro era avanti, e il destro sul punto di seguirlo toccava appena con le punte delle dita il terreno, mentre la pianta e il calcagno si alzavano quasi verticalmente. Questo movimento dava una doppia impressione: sopra tutto quella di una lieve agilità nel passo, ma insieme anche quella di una stabilità. Questo librarsi quasi in volo, congiunto alla sicurezza dell’incedere, conferiva all’immagine la sua grazia specifica". In un articolo assai bello, Roberto Escobar si sofferma giustamente sulla "Gradiva" di Wilhelm Jensen, e, usando il "reperto" procede alla lettura del film: "...sta bene in vista su una parete dello studio di Ernesto. [...] E sta anche nelle inquadrature che aprono la seconda sequenza. [...] Seduto al suo computer Ernesto ne tormenta l’immagine, avvolgendola con linee incerte, ossessive e sofferenti, e quasi cercando di metterla in movimento rispetto allo sfondo che la minaccia...". Sul contrasto della figura con lo sfondo tornerò più avanti. Per ora vorrei trattenermi su Gradiva, l’"avanzante", cominciando con l’interrogare il mistero che viene dal suo essere di profilo. Il bassorilievo ci impedisce di guardare dall’altra parte e, nel contempo, ci invita a immaginarla. Il mistero è proprio questo: sappiamo di una metà "corrispondente" ma, non potendo vederla, restiamo bloccati da un impaccio "tormentoso". La figura, insomma, è intera e mezza; la parte nascosta corrisponde (forse) a quella visibile solo fantasticamente o, che è quasi lo stesso, lascia sospettare un fantasma simile al vero.
L’ora di religione sembra fatto di materia fluida, liquida. Il sentimento del materno, che nella Balia Bellocchio aveva voluto "scomporre in personaggi diversi per genere e in figure sociali fra loro estranee", sempre più - ma senza negarsi, al contrario – diventa un mezzo di stile. Assai raramente, come in questo film, l’onirico è stato meglio diluito nel "reale"; ai calibrati e classici controcampi – che danno luogo a dialoghi scritti con scultorea precisione – fanno contrasto scarti rapidi della mdp ed evanescenze. Prossimo a Buñuel, ma senza la sua programmatica simbologia, o a un Fellini privo di eccessi clowneschi, Bellocchio scorre da reale a immaginario, e viceversa, con rara naturalezza; l’andamento musicale assicura raccordi e rimandi, favorisce il confronto dei "doppi", semplifica – se così posso dire – la percezione dei mezzi toni e del segreto, senza rinunciare ad alcuna esigenza di profondità.
Nell’opera del nostro regista i padri sono assenti e vi sono molte madri. E quest’opera va rivelandosi, di prova in prova, come una elaborazione dell’assassinio compiuto nella prima. Una "elaborazione del lutto" che allarga i significati, coinvolge altre figure, impone ripensamenti dolorosi ma sinceri nel rischio. In altre parole l’autore-personaggio riesce a mettersi in causa acquisendo progressivamente lucidità e può filtrare, attraverso sé, una parte del mondo. Ecco allora che la madre cieca, uccisa da Ale nei Pugni in tasca, diventa l’archetipo di una incessante, auto-analitica avventura poetica; forse accade, con Bellocchio, un po’ quello che era accaduto nel mirabile Othello di Carmelo Bene, quando Desdemona veniva uccisa subito per aprire alla più difficile e affascinante scommessa drammaturgica.
Dicevo del profilo di Gradiva e di altre evanescenze; spesso queste ultime – ricordo il passare di Diana oltre i vetri dello studio, poi nell’interno, nei corridoi, nei vani delle porte ripropongono appunto quel profilo: "Ernesto incontra Diana/Gradiva" scrive ancora Escobar "una giovane donna che, come un fantasma leggero, lo chiama e gli indica la via. Proprio come il personaggio di Jensen, anche lui la vede e non la vede, la insegue e la perde, la cerca e ne è cercato"; ma il profilo potrebbe coprire, se pensiamo a Ernesto e all’ironia del suo sorriso, una affinità mai esplorata prima. Ernesto sta separandosi da una moglie "stupida", e il primo sorriso che incontriamo appartiene a lei. Una donna stupida come la madre; ma Ernesto si accorge che di questa madre non può parlare male.
Allora, può essere il sorriso che altri leggono sulla faccia di Ernesto, e lui non vede, qualcosa che, a parte il già rilevato mistero della bellezza, riporta al lato oscuro di Gradiva? Nel rendere luce alla figura della madre, infatti, Ernesto sembra man mano interrogare il proprio volto: l’altra faccia. Così si allontana dal significato più rigido del termine, stupidità, col quale aveva fissato il ricordo, e lascia emergere il dubbio. "...quella che era un certo tipo di passività, di sacrificio, un subire la vita", si interroga lo stesso Bellocchio "poteva diventare virtù a un livello di eroismo". Un’ipotesi, poi trova conforto nelle parole della zia Maria, che dal suo cinismo può arrivare più facilmente alla sostanza; essa infatti rimprovera a Ernesto l’ironia: "Hai lo stesso sorriso di tua madre", dice all’incirca "quel guardare il mondo dall’alto in basso: lei ubbidendo, tu ribellandoti".
Il regista non dimentica infine che il suo personaggio è un pittore. Già nella Balia si era misurato con figurazioni storicamente codificate: il verismo ottocentesco, il liberty; qui confronta invece chiaroscuri antichi, cioè ‘Tuori dal tempo" con fugaci suggestioni espressioniste, con l’illustrazione, con la videoarte. Come spesso capita ai pittori, Ernesto ha dato al figlio il nome di un inarrivabile, ed è proprio dall’eco di tale nome che, a un certo punto, l’immagine della madre può apparirgli "intera", cioè di fronte. Nel portarsi oltre la paccottiglia devozionale – l’appartamento di zia Maria, con la messa in scena di un martirio concepito fra sceneggiata e fotoromanzo – egli può così scorgere sulla gigantografia ondulata da soffi d’aria, un segno quasi leonardesco, l’ironia di un sorriso (l’arma degli sconfitti) che anima il volto di una donna; una leggerezza d’aria, appunto, che richiama la sensualità materna dell’acqua.
Sul piano tematico il paradosso più stridente de L’ora di religione viene esposto, una volta di più, nei discorsi di zia Maria. Consapevole del fatto che la famiglia Picciafuoco ha bruciato il carisma paterno, la signora organizza un recupero da ottenere attraverso la beatificazione della madre. Paradosso per la disinvoltura, "anti-psicoanalitica", col quale i ruoli sono scambiati da una parte, e per una sorta di rispetto del sacro che, al di là di ogni irriverenza, sembra promanare dalla inquieta sensibilità di Ernesto dall’altra: "Cos’è il sacro", si chiede ancora Escobar "se non il luogo umano, profondamente umano, in cui il sì e il no si confondono, in cui il niente aspira a farsi qualcosa e il qualcosa sente la prossimità del niente?". Paradosso e normalità dunque, perché poi, a dispetto dei bisogni spirituali profondi che incidono nella crisi, il sacro resta quello "dei riti e delle abitudini", direbbe Bellocchio, cioè della Chiesa accettata nella sua "mortuaria" ed "eterna" tradizione.
L’udienza di Marco Ferreri è del 1971, e a quel tempo non mancarono voci di sufficienza circa una sua presunta inattualità; lo stesso rimprovero, negli stessi anni, penso a film come Il fascino discreto della borghesia o al Fantasma della libertà, fu rivolto a Buñuel. Oggi Bellocchio torna sull’istituzione Chiesa, rinnovando quella che in Ferreri era una suggestione più gidiana che kafkiana: il senso di una costante, invincibile e colossale presa in giro. Il sarcasmo che il regista piacentino usa in proposito potrebbe, a una prima occhiata, dare un’impressione di caducità o di forzato autobiografismo; Franco Montini, ad esempio, sembra piuttosto severo; L’ora di religione ha scritto "è un film conflittuale fra il pensiero laico e la fede. Ma in questa prospettiva la sceneggiatura, frutto del lavoro solitario dello stesso Bellocchio, appare poco convincente: se, infatti, il personaggio del protagonista, simbolo della laicità, è raccontato con molta profondità e partecipazione, i rappresentanti della controparte (non solo gli ecclesiastici, ma anche i familiari di Ernesto), troppo visibilmente negativi, rischiano lo stereotipo di maniera".
Severo, ho detto, e aggiungo attendibile, ma forse solo alla prima occhiata. Come dimenticare, infatti, che nel nostro paese il clericalismo, sia pure in forme aggiornate, domina la scena quale unico potere assoluto rimasto – direbbe il conte Bulla – che ogni controversia etica, dopo la gloriosa stagione degli anni settanta, è ormai delegata all’ultimo pronunciamento papale o al prete di turno, che il Giubileo è stato un gigantesco esperimento di kitsch mediatico, che l’attuale pontefice ha elevato agli altari più santi di qualunque altro ponendosi, riguardo a ciò, fra i "campioni" della Controriforma, che la fiction confessionale ottiene un’audience televisiva altissima, che matrimoni e funerali civili tendono a diminuire, mentre l’intreccio fra consumismo laico e ritualità sacramentale raggiunge le più vistose aberrazioni?
Se riguardo al valore umano e allo sforzo individuale Bellocchio si esprime con tenace e misurata fiducia, sul piano politico non fa sconti: sta sopra le righe, cioè insiste sulla maniera grottesca, perché in tale stile si presentano il "cattolicesimo di successo", l’ossessione politica del centro e la nuova demagogia populista. Se tutto questo è vero, la difficile, quasi sottaciuta opposizione di Ernesto Picciafuoco, conserva la traccia di sconfitte antiche e propone, nel medesimo tempo, la resistenza del singolo contro una generale egemonia restaurativa: la famiglia convenzionale risorta, a dispetto dei furori anticipati dai Pugni in tasca e vissuti nel concreto delle vicende sociali fino all’ondata femminista, il primato dell’impresa, la celebrazione del monopolio, il "pensiero unico".
In un tempo non troppo lontano, almeno storicamente, i conflitti crescevano un poco in autonomia prima di essere stigmatizzati dai media; oggi il margine si è ristretto se non addirittura annullato. Non sorprende, allora, che l’istituzione Chiesa ostenti la propria immutabilità, offrendosi di nuovo e con più forza, al di là dell’esclusiva in campo morale, come soggetto politico. Dopo aver trovato, attraverso l’incontro con Diana la bellezza e il suo movimento (una radicale e nuova "espressione di ateismo"), Ernesto realizza il desiderio dell’architetto folle, cioè di colui che avrebbe voluto distruggere il Vittoriale ritenendolo lesivo del bello universale. Sia pure virtualmente, il nostro artista provoca il crollo delle candide colonne fintoclassiche e delle statue, abbatte il monumento patriottico (e laico) per vagheggiare un nuovo, purificato ambiente urbano. Ma, appunto, si tratta di una simulazione e, in ogni caso, gli altri monumenti, quelli edificati dal secolare dominio ecclesiastico, restano al loro posto sul fondo di illuminate prospettive: Santa Maria Maggiore, San Pietro da via della Conciliazione, la grande cupola nella scena onirica del duello, quando l’angolazione sembra alludere – ed è proprio una bestemmia – all’immagine con cui si chiudeva Roma città aperta.
Diversi hanno ravvisato in quest’ultimo lavoro di Bellocchio una trasparenza del film di esordio; la conferma in tal senso viene dallo stesso regista: "mi pare un film", ha dichiarato "che si ricollega alla mia produzione passata, non fosse altro perché affronta un tema, quello della famiglia, che ho dibattuto spesso, a cominciare dall’esordio de I pugni in tasca, quasi quarant’anni fa"; il protagonista non è più Ale, ma il fratello pazzo di Ernesto ne ricorda i disperati deliri in un empito melodrammatico di rara pulizia. Insomma, e lo affermavo poco sopra riguardo alla gradualità, il passato torna trasformandosi ed evoca figure. Fra esse quella di Mastroianni, interprete di Enrico IV, che Sergio Castellitto onora in un memorabile omaggio-confronto a distanza. Il personaggio di Ernesto Picciafuoco non ha niente in comune con l’eroe pirandelliano; tuttavia fra Castellitto e Mastroianni mi pare si crei, sul piano dell’arte, una fascinosa affinità: stessa naturalezza "antinaturalista" – il carattere che più distingue, a mio avviso, l’attore di cinema – stesso dominio dei tempi in presa diretta, stessa sincerità nel dare testimonianza. Castellitto, infine, evoca del grande attore scomparso la fragilità e la risentita malinconia: Mastroianni "è vivo" e ci parla ancora, ma, piuttosto che un erede, oggi ha trovato un fratello.
Tullio Masoni, Cineforum n. 415, giugno 2002

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Marco Bellocchio
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