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Pecora nera (La)


Regia:Celestini Ascanio

Cast e credits:
Soggetto: Ascanio Celestini, dal suo spettacolo teatrale e dal libro omonimo; sceneggiatura: Ascanio Celestini, Ugo Chiti, Wilma Labate; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Giogiò Franchini; scenografia: Tommaso Bordone; costumi: Grazia Colombini; interpreti: Ascanio Celestini (Nicola), Giorgio Tirabassi (Ascanio), Maya Sansa (Marinella), Luisa De Santis, Nicola Rignanese, Barbara Valmorin, Luigi Fedele; produzione: Madeleine e Raicinema in collaborazione con Bim; distribuzione: Bim; origine: Italia, 2010; durata: 93’.

Trama:«Il manicomio è un condominio di santi. So' santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex-voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo». Così ci racconta Nicola i suoi 35 anni di «manicomio elettrico», e nella sua testa scompaginata realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. Nicola è nato negli anni Sessanta, «i favolosi anni Sessanta», e il mondo che lui vede dentro l'istituto non è poi così diverso da quello che sta correndo là fuori – un mondo sempre più vorace, dove l'unica cosa che sembra non potersi consumare è la paura.

Critica (1):Lo stile da cantastorie di Ascanio Celestini è sempre lo stesso. All'inizio c'è un'inchiesta, una raccolta di dati e testimonianze. Così per i suoi lavori Radio clandestina o Scemo di guerra, seguendo il criterio dell'innesto della storia piccola su quella grande. Dopo la documentazione, però, la trasfigurazione. Secondo un linguaggio colto e popolaresco al tempo stesso. La pecora nera, che ora è anche un film, accolto ieri dal pubblico della Mostra con una ovazione di dieci minuti, ha una storia durata anni. Parte dei quali passati a raccogliere interviste per tutta Italia, dove c'erano manicomi, tra ex infermieri ma anche tra ex pazienti. Poi c'è stato uno spettacolo teatrale che lo stesso Ascanio ha interpretato, accompagnato da un libro più dvd, pubblicato da Einaudi. E adesso questo film, con lo stesso titolo, che - sebbene di prove cinematografiche Celestini ne avesse già fatte: il documentario Parole sante sui call center - segna il suo debutto nel film narrativo di lungometraggio. Accolto con sorpresa nel concorso maggiore di questa Mostra. Sorpresa di chi, senza aver visto il film, l'ha considerato un eccesso di promozione per un artista considerato inesperto come cineasta, e sorpresa favorevole di chi l'ha visto e ne è rimasto incantato. Superata la disputa un po' futile se questo sia o non sia cinema, il film conserva intatto proprio quell'incantamento che sempre la parola e il gesto di Celestini producono e che gli ha procurato il consenso di una folta tifoseria. Il tema è quello della malattia mentale. Ma anche il film mette da parte il bagaglio acquisito di notizie e teorie per tradurli in evocazione, in associazione di piccole storie, in voce fiabesca, in sguardo poetico-infantile. Ben consapevole di che cosa si sta parlando, e nutrito di solide convinzioni e solidi giudizi. La storia che Celestini compone trae spunto dall'incontro con due persone, un ex infermiere e un ex paziente, ciascuno con sulle spalle quasi mezzo secolo di vita manicomiale. Ma prende una strada surreale nel dividere il racconto in due: il passato di un ragazzino che frequenta il manicomio con la nonna per portare le uova fresche del pollaio ("puzzano ancora del culo della gallina" è uno dei tormentoni preferiti) e per visitare la, rispettivamente, mamma e figlia ricoverata (il ragazzino diventerà paziente a sua volta). E il presente dell'ex ragazzino che diventato infermiere fa piccoli servizi, accompagnato da un coetaneo paziente semi-sano (ma capiremo che i due personaggi, Celestini e Giorgio Tirabassi, non sono che lo sdoppiamento della medesima personalità). Celestini vuole prendere le distanze tanto dall'indagine, e dalle implicazioni politiche, storiche e legislative, quanto dalla "poesia" dell'eccezionale intensità emotiva di una condizione che è stata cantata anche in modo altissimo da artisti che hanno vissuto quel dolore. Gli interessa, dice, raccontare dal basso un'istituzione «che è criminale in sé, come tutte le istituzioni totali. Quelle che riducono a uno stato infantile, di deresponsabilizzazione». Aggiunge che ha evitato di accanirsi sugli aspetti più violentemente mostruosi per soffermarsi sull'«orrore della normalità». Quella di un luogo dove «venivi privato di tutto, dove restavano soltanto le chiavi». Il gusto della filastrocca connota lo stile di Ascanio. Che ne fa una parte per il tutto molto espressiva. Come, qui, il ripetuto richiamo agli "anni 60, i favolosi anni 60", oppure - mescolando gioco di parole puerile e densità di allusioni dolorose - le "pasticche marziane" o il "manicomio elettrico".
Paolo D’Agostini, La Repubblica

Critica (2):(...) Prima di diventare un film, La pecora nera è stato uno spettacolo teatrale in forma di monologo ed un romanzo (...). Apparentemente è la storia di un caso clinico. Un ragazzino nato «nei favolosi anni 60» (la frase è un tormentone che in teatro ricorreva spesso, nel film meno) cresce in una condizione di disagio, con una nonna affettuosa e ingombrante, un padre e dei fratelli violenti, una madre rinchiusa in manicomio. Dopo aver assistito all’omicidio di una prostituta, uccisa dai fratelli, il piccolo Nicola viene anch’egli ricoverato e sottoposto a elettroshock. Come suol dirsi, chi entra in manicomio sano diventa matto per forza. Anni dopo – nel 2005, nei giorni della morte di Papa Wojtyla – Nicola ha sviluppato una forma di schizofrenia che lo spinge a sdoppiare il sé «normale» con un alter ego folle. La trama non prevede scioglimenti: il manicomio è diventato un habitat, uno stile di vita. Non a caso il film si apre con la famosa barzelletta, che la voce di Celestini racconta fuori campo, dei due matti che tentano di fuggire dal manicomio dai 100 cancelli, i due matti ne scavalcano 99 e, all’ultimo, si stufano e tornano indietro.
Abbiamo «sciolto» in una trama temi e situazioni che Celestini a teatro snoda in un monologo avvincente e inquietante, e che al cinema – con l’aiuto degli sceneggiatori Ugo Chiti e Wilma Labate – si evolve in una serie di tableaux vivants, di bozzetti autosufficienti. C’è molto Brecht nello stile volutamente non naturalistico, e c’è molto Pasolini nell’occhio cinematografico che Celestini si inventa per questo suo primo film (non casuale, anzi, decisivo l’apporto del direttore della fotografia Daniele Ciprì, già partner di Franco Maresco in Cinico Tv). Ma l’apparente limpidezza del film nasconde una complessità che darà vita a polemiche e fraintendimenti. È facilissimo leggerlo come un film sulla pazzia, sulla 180, su Basaglia, e trovarlo poco realistico, poco «di denuncia».
La verità è che Celestini usa il manicomio per parlare d’altro, e nessuno è in grado di spiegarlo meglio di lui: «Non volevo fare un film, né uno spettacolo, di denuncia. Per questo non è ambientato nel ’78, all’epoca della legge 180, e non parla di Basaglia anche se parte da Basaglia. Anni prima della legge, egli scrisse del manicomio paragonandolo ad altre istituzioni come la scuola, il carcere, la famiglia, la caserma. Ecco, io non credo che il manicomio o il carcere siano istituzioni criminali perché vi avvengono abusi o violenze: credo che sia criminale l’idea stessa di istituire simili istituzioni, perché è criminale che qualcuno decida della libertà di un altro. Se ci si limita al manicomio, allora ogni dibattito viene chiuso dalla risposta che diede una paziente di Perugia intervistata sulla legge 180. Disse: ma perché ci avete chiuso i manicomi, stavamo così bene, mangiavamo cacavamo e pisciavamo come matti. Il manicomio riduce un adulto alla dimensione di un bambino col pannolino. Ed è ovvio che qualcuno ci stia bene, e non voglia crescere». La pecora nera è la storia di un’Italia non cresciuta, rinchiusa nel mito dei «favolosi anni Sessanta». È un film su di noi, anche se crediamo di non essere matti.
Alberto Crespi, L’Unità, 3/9/ 2010

Critica (3):

Critica (4):
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