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Primavera in Kurdistan


Regia:Savona Stefano

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Stefano Savona; montaggio: Marzia Mete; fotografia: Stefano Savona; suono: Jean Mallet; produttore: Rosita Bonanno-Arte Cinema-Minimum Fax Media-Jba Production-Jacques Bidou; origine: Italia/Francia, 2006; durata: 80'.

Trama:Il regista Stefano Savona raggiunge il nord dell’Iraq poco dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Se per i curdi dell’Iraq è iniziata una nuova era, la lotta per il riconoscimento dell’identità del popolo curdo in Turchia entra in una fase ancora più difficile. Il regista intraprende un viaggio lungo un mese insieme a un’unità di combattenti del PKK per raggiungere il confine con la Turchia. Durante il viaggio, fatto di lunghe marce tra panorami meravigliosi e incontaminati di montagna, il gruppo passerà qualche giorno in un campo femminile nel quale si preparano le combattenti alla lotta per la libertà e si educano gli uomini a una mascolinità rispettosa del ruolo femminile nella società. Raggiunto il confine, i guerriglieri vanno incontro alla loro guerra e, in molti casi, alla morte... L’intero viaggio è narrato dal punto di vista di Akif, curdo figlio di emigrati in Germania, che ha lasciato l’Europa per ricercare le proprie origini e lottare per il suo popolo.

Critica (1):Negli ultimi trent’anni la Turchia è stata insanguinata da una spaventosa guerra civile che è costata al paese più di trentamila morti. Il conflitto vedeva opposti l’esercito turco – uno dei più numerosi e meglio armati della NATO – al PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, una formazione politica armata che si batte per l’autodeterminazione e i diritti civili della minoranza curda. Dopo l’arresto del loro presidente Abdulla Ocalan “Apo” nel 1999 i leader politici del PKK hanno proclamato un cessate il fuoco unilaterale abbandonando le postazioni nel Kurdistan turco per concentrare le proprie truppe in una zona montagnosa ai confini tra Iraq e Iran.
Oggi circa 5.000 guerriglieri armati del PKK – uomini e donne – controllano ancora una vasta area di territorio iracheno ai confini con l’Iran estesa per circa 200 Km lungo la catena montuosa di Qandil, ultima propaggine verso la pianura mesopotamica dei monti Zagros.
Nei primi giorni di maggio del 2003, subito dopo la caduta del regime iracheno e l’insediamento del governo americano a Baghdad, per la prima volta negli ultimi dieci anni i guerriglieri curdi del PKK hanno permesso a un osservatore occidentale di muoversi liberamente nel territorio da loro controllato.
Stefano Savona, fotografo e documentarista italiano che negli ultimi anni sulla condizione dei curdi in Turchia ha già realizzato numerosi reportage, ha così potuto unirsi a un gruppo di guerriglieri e viaggiare con loro per un mese (sempre a piedi e per sentieri impervi di montagna) lungo tutto il territorio controllato dal PKK.
Ha potuto così documentare la vita quotidiana dei guerriglieri e delle guerrigliere dall’alba al tramonto, porre loro ogni tipo di domanda e intervistare i leader del movimento, tra cui anche il fratello di Apo, Osman Ocalan, attuale portavoce dell’organizzazione.
Le ragazze e i ragazzi intervistati (l’età media dei guerriglieri è inferiore ai 25 anni) raccontano liberamente delle difficoltà e delle gioie della loro attuale esistenza in bilico sulle le montagne, delle motivazioni ideali che li hanno spinti a fare questa scelta, del loro recente passato fatto di guerra e di morte, raccontano di cosa significhi per loro uccidere o temere di essere uccisi, di cosa abbia significato perdere i compagni più cari, raccontano della prigione, della paura di diventare anche loro oggetto degli attacchi americani nei giorni della guerra a Saddam (il PKK è infatti inserito dal Dipartimento di Stato USA nella lista delle 30 maggiori organizzazioni terroristiche mondiali). Raccontano infine delle loro aspettative politiche e personali per il futuro.
Queste testimonianze, spesso toccanti dal punto di vista umano, svelano inoltre un quadro culturale e ideologico molto diverso dagli stereotipi veteromarxisti generalmente associati dai media occidentali a questo movimento di liberazione. Gli ideologi di riferimento del movimento non comprendono certamente Mao Tze Tung, Ho Chi Min o Lenin ma piuttosto l’archeologo britannico Gordon Childe, teorico della “Rivoluzione Neolitica” o il filosofo della scienza Paul Feuerabend ma anche Eric Fromm e Simone De Beauvoir.

Note del regista
Il mio primo incontro con i curdi risale al 1992, quando facevo l’archeologo, ed è a partire da quel momento che si è sviluppato il mio interesse per la cultura e la causa curda.
Ho compreso poco a poco che la lotta per l’indipendenza è stato l’elemento centrale della cultura di questa comunità nazionale senza stato. In un poema curdo del quindicesimo secolo si può già leggere che il solo amico dei curdi è la montagna che li protegge quando il nemico avanza dalla pianura. I curdi che ho incontrato mi parlavano in continuazione della montagna e della lotta armata, che ha fatto nascere in me una grande curiosità. Mi domandavo perché i curdi avessero sempre questo sguardo così malinconico quando parlavano della montagna, luogo e simbolo della lotta. Sono quindi partito a fare questo film per vedere cosa c’era in queste montagne.
Anni fa domandai all’ufficio del PKK in Italia il permesso di andare nei luoghi di esercitazione dei combattenti. Ho provato anche a ottenere questa autorizzazione dall’entourage di Ocalan, quando era stato rifugiato in Italia, ma sempre senza successo. Difficoltà pratiche rendevano impossibile entrare nel Kurdistan irakeno dalla Turchia, irakeni e iraniani avevano chiuso le frontiere. Solo nel 2003 la situazione si è sbloccata con l’entrata a Bagdad delle truppe americane.
Il PKK preso dalla necessità di una maggiore visibilità nel contesto della guerra e il timore di essere attaccato dalle forze americane, come lo correvano gli altri gruppi di “terroristi” curdi, finì per accettare il mio progetto. Entrai quindi nel territorio del nord dell’Iraq controllato dal PKK (montagne di Qandil). Mi mandarono l’unico combattente che sapesse l’inglese in quella zona: era Akif.
Akif si è limitato durante tutta la durata del mio soggiorno, di un mese, al suo ruolo di traduttore, ma è nata una reale confidenza tra di noi, soprattutto quando non giravo e la videocamera era spenta. I suoi capi gli avevano ordinato di mostrarmi alcune cose e di nascondermene altre, di controllare i miei atteggiamenti nei rapporti con le persone che incontravamo. Siamo diventati complici in questo gioco perché lui per primo era molto curioso. Con questo status di traduttore, questo viaggio nei territori controllati dal PKK è divenuto per lui un’occasione di fare domande ai membri del PKK e di rispondere ai propri interrogativi sul suo impegno nella lotta armata. Interpretava le risposte con grande libertà, ma senza mai compromettere la sua posizione ufficiale verso di me.
Durante questi incontri e queste interviste che gli davano la possibilità di riflettere e di sospendere i suoi compiti quotidiani abituali, Akif ha cominciato a scrivere un diario giorno per giorno.
Il mio obiettivo è stato di portare il pubblico al di là di una comprensione superficiale. C’è anche l’ambizione di interessare sia i membri del PKK, sia un pubblico curdo e turco. I combattenti avevano una maniera di comunicare che mi dava la sensazione di comprenderli immediatamente, il che può trarre in inganno.
Si comprendono gli sguardi e le espressioni solo se si spiega il contesto storico e politico. È questo che ha dato senso a questo lavoro.
Ma forse l’aspetto più interessante che emerge non solo dalle interviste ma in ognuna delle fotografie scattate in questi venti giorni tra le montagne di Qandil è quello legato alla condizione femminile.
Più di un terzo dei guerriglieri sono di sesso femminile e il vero paradosso di queste donne guerriere è che forse soltanto in questa striscia di montagne schiacciata tra Iran e Iraq, solo in questa situazione di assoluta precarietà, si sperimenta in tutto il Medio Oriente una società in cui le donne abbiano assolutamente gli stessi diritti degli uomini. A pochi chilometri da qui, non solo in Iran ma anche in Kurdistan iracheno o in Siria o nella Turchia rurale, la maggior parte delle donne non solo è costretta ad andare in giro velata ma non conosce alcuna alternativa possibile al ruolo di moglie e di madre in seno alla famiglia (in tutto il Medio Oriente più del 90% dei matrimoni è combinato dalle famiglie).
Alcune delle donne intervistate vengono dal Kurdistan iracheno, alcune non sono nemmeno curde, il motivo per cui si sono unite al PKK è stato che questa per loro costituiva l’unica possibile alternativa di libertà, personale prima che politica. Ma anche le militanti curde provenienti dalle città della Turchia, che quindi hanno conosciuto la sistematica negazione della propria identità etnica e dei propri diritti civili, hanno portato con se nella propria adesione agli ideali del PKK un po’ della loro personale lotta di liberazione in seno alla famiglia e alla società da cui provengono.
Spero che questo film possa diventare un elemento di dibattito all’interno del movimento curdo.
(minimumfax.com)

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