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Lawrence d'Arabia - Lawrence of Arabia


Regia:Lean David

Cast e credits:Soggetto: tratto dall' autobiografia "I sette pilastri della saggezza" di T. E. Lawrence; sceneggiatua: Robert Bolt; fotografia: Freddie A. Young; musiche: Maurice Jarre; montaggio: Anne V. Coates; scenografia: John Box, John Stoll; costumi: Phyllis Dalton; effetti: Cliff Richardson; interpreti: Peter O'Toole (T. E. Lawrence), Anthony Quayle (Col. Harry Brighton), Alec Guinness (Principe Feisal), Anthony Quinn (Auda Abu Tayi), Omar Sharif (Sceicco Ali), Claude Rains (Mr. Dryden), Jack Hawkins (Gen. Allenby), I.S. Johar (Gasim), Arthur Kennedy (Jackson Bentley), Hugh Miller (Colonnello), Zia Mohyeddin (Tafas),Gamil Ratib (Majid), Michel Ray (Ferraj), Donald Wolfit (Generale Murray); produzione: Sam Spiegel e David Lean per Horizon Pictures; origine: Gran Bretagna, 1962; durata: 200'.

Trama:È la storia dell'avventuriero e agente britannico T.E. Lawrence, mandato al Cairo nel 1916 per fomentare la rivolta antiturca degli arabi. Dopo una serie di vicissitudini viene fatto rientrare in Inghilterra dove muore in un banale incidente.

Critica (1):Th. E. Lawrence avrebbe oggi settantacinque anni, se un incidente motociclistico non l'avesse stroncato nel 1935. Dunque è un nostro contemporaneo, e in lui vediamo, sublimati, miti che la nostra età ha ereditato dal romanticismo: quelli della libertà, dell'evasione nell'Oriente favoloso, del superuomo. Ma insieme è il simbolo di una generazione che ha assistito al crollo degli ideali perché essi non erano sorretti da un'impalcatura razionale, erano uno slancio mistico e spesso mistificatore, con una forte componente divistica e bastava una crepa nello spirito, una improvvisa deviazione nell'umore, per trasformare un uomo d'azione, un amante del rischio, in un vinto frustrato. L'amicizia fra Lawrence e Italo Balbo può aiutare il pubblico italiano a capire questo inglese complesso, che credette, negli anni della prima guerra mondiale, di essere stato chiamato dal destino a combattere, con la volontà e il coraggio, per l'unità e l'indipendenza degli arabi, e si pensò demiurgo del Medio Oriente, fiamma di libertà per popoli da secoli oppressi dai turchi, e invulnerabile Taumaturgo del deserto. E cocentissima sentì l'umiliazione, quando crudamente avvertì le proprie dimensioni di uomo, oggetto d'immondo desiderio, e perduta la fede nella propria integrità capì di essere stato fatalistico strumento d'una frode politica. Ché gli alleati volevano, né più né meno, prendere il posto dei turchi, e gli arabi erano troppo divisi in tribù per sperare di cementarli in nazione.
A Lawrence il produttore Sam Spiegel, il regista David Lean, lo sceneggiatore Robert Bolt dedicano ora una biografia cinematografica, ma limitata al capitolo più popolare, appunto gli anni fra il 1916 e il 1918: da quando il tenente Lawrence, malvisto dai superiori per la sua indisciplina e la sua cultura (incauto, cita Temistocle) riceve al Cairo l'incarico di mettersi in contatto col principe Feisal, a quando, sposata la causa degli arabi, vestito dei loro abiti, trasformato il nome in El Orens, succhiatane l'astuzia e la crudeltà, conquistate Akaba e Damasco con infinite peripezie che lo eguagliano a Mosè, torna, colonnello ma affranto, in Inghilterra.
Ben s'intende che il film avrebbe potuto cominciare di qui, o almeno arrivare sino a Versailles, dove Lawrence si batté perché gli alleati tenessero fede agli impegni che egli, a nome dell'Inghilterra, aveva preso con gli arabi: e non essendovi riuscito sentì crescere tanto il rimorso e la vergogna da rinunciare al grado, e poi al nome e ai diritti d'autore su I sette pilastri della saggezza, il libro nel quale raccontò il suo grande sogno. Ma così facendo il film avrebbe preso tutti i caratteri della biografia psicologica (e l'opportunità politica sconsigliava di riaprire certe piaghe): meglio sfruttare le grandi risorse spettacolari offerte dalla guerriglia nel deserto, dare al film il timbro dell'avventura, vestire l'epopea di Lawrence con l'abito del western. Dopotutto David Lean, con Il ponte sul fiume Kwai, aveva ottenuto un immenso successo commerciale. Bene; ma se Sam Spiegel, un produttore che non lascia mano libera al regista, è un americano che crede fermamente nel cinema d'azione, David Lean è un inglese che nonostante la conversione allo schermo gigante ha alle spalle, per non dir altro, Breve incontro, un delizioso ricamo intimista, e Robert Bolt è il giovane drammaturgo che prima di debuttate come sceneggiatore cinematografico ha affrontato l'inquietante figura di Tommaso Moro, l'utopista del Cinquecento. Che i tre potessero andare molto d'accordo era improbabile: di qui l'ambiguità del film, ma di qui, anche, lo sforzo compiuto da David Lean, che si vede, e del quale si ammira la sincerità.
Detto in due parole, Lawrence d'Arabia ha molte eleganze formali, molta efficacia visiva, ma non sa raccontarci con sicurezza la figura del protagonista. Per un fenomeno non infrequente, è accaduto che l'ambiguità del personaggio si è riflessa sulla sceneggiatura, che le sue reticenze hanno intorbidito la limpidità del racconto. Era un alibi degli ermetici dire che per esprimere la notte dell'anima occorresse far ricorso all'oscurità. Per quanto complessa la personalità di Lawrence chiede, portata sullo schermo, di essere in qualche modo spiegata al popolo. È difficile discutere una interpretazione che, col pretesto della pluralità delle componenti psicologiche dei carattere di Lawrence, compie assaggi in varie direzioni, ma non ha il coraggio di proporre una scelta precisa. Sull'esempio di Ross, il dramma di Terence Rattigan, anche Bolt vuol far leva sulla psicanalisi per spiegare la tragedia di Lawrence e insinua che egli fu quello che fu perché, figlio d'un baronetto, cercò altrove il prestigio sociale negatogli dalla sua qualità di illegittimo; e lascia intendere che il trauma subìto da Lawrence quando cadde nelle mani del bey turco gli confermò le sue tendenze particolari, e lo sconvolse fino a cercare nel sanguinoso carnaio, in una guardia del corpo composta di assassini e ladroni, la voluttà del male. Ma Bolt imbocca questa strada con timidezza, e la interseca con altri cammini: la crisi della volontà, la delusione dell'inglese alfiere di libertà, il dramma del dubbio intellettuale, il terrore di essere stato una pedina, l'amarezza dell'uomo civile impotente di fronte alla barbarie. Risultato, un labirinto nel quale Lawrence appare un affannato nevrotico; lasciando Damasco gli si consiglia una buona clinica londinese.
Consapevole di questa debolezza strutturale, David Lean ha tentato di rimediarvi facendo di Lawrence un eroe fortemente condizionato dall'ambiente, prima esaltato dalle immense, carnali curve di sabbia, poi depresso dal sacrificio di vite umane che la sua impresa chiedeva e dalle miserie illuminate dal sole di fuoco, infine conquistato dall'esempio di ferocia propostogli dai predoni del deserto: alzando, cioè, il tono di tutto il film in una simbiosi grandiosa fra paesaggio e carattere. E l'asino ricasca, perché Spiegel e Lean scelgono un attore che non soltanto viene dal teatro, ma proprio da Shakespeare. Invitata a correre, la lepre O'Toole che fa? Confonde Lawrence con Amleto: ma un Amleto nevropatico, distruttore di se stesso. È un bel ragazzo, questo occhiceruleo Peter O'Toole, e ha quel tanto di mollezza femminile che si confà al personaggio, (nessuna donna, nel film: a maggior ragione egli svolge un ruolo che copre lo spazio lasciato vuoto dalla star), ma non ha maturità sufficiente a colmare con la recitazione i dislivelli della sceneggiatura: per timore di non farsi capire butta fuori tutto, e al rovello intimo di Lawrence sostituisce o un imbambolamento da fanciulla o un'esagitazione muscolare. Di gran lunga migliori le interpretazioni dì Alec Guinness, di Anthony Quinn, di Jack Hawkins, benché tutte un po' di maniera. La palma della recitazione va a Omar Sharif, e subito dopo all'ottimo Claude Rains.
E tuttavia Lawrence d'Arabia è un film da vedere. Bellissima è, spesso, la fotografia, morbida la tavolozza che accoglie tutte le variazioni cromatiche del deserto, suggestivi i rapporti di volume e colore fra i cammelli, i beduini, e i piani infiniti, l'ondosità delle dune, di sicuro effetto le marce, le stragi, gli assalti al treno, esaltante la musica. Tecnicamente il film è girato con molto gusto e intelligenza: Lean e il suo operatore cadono in ingenui trabocchetti (quel sole dipinto sul cartone!), ma nella maggior parte dei casi hanno grande sensibilità per I'inquadratura panoramica e il dettaglio.
Il film ha perciò pagine emotive, ed è figurativamente degnissimo, soprattutto nella prima parte, di disteso racconto. Traballa nel traliccio psicologico, tutto affollato nella seconda, elude il sottofondo storico e politico assumendo il protagonista in un mito del quale poi non ci dà chiare ragioni, ma le tre ore e mezzo che promette non sono sprecate. Benché per lealtà si debba aggiungere che Sam Spiegel aveva detto: «Vorrei che nessuno spettatore si distraesse per accendere una sigaretta», e noi quattro, forse cinque, ne abbiamo fumate. Che vizziaccio. (19 ottobre 1963)
Giovanni Grazzini, Gli anni Sessanta in cento film, Universale Laterza, 1977

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