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Giorni d'amore


Regia:De Santis Giuseppe

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Libero De Libero, Giuseppe De Santis, Elio Petri, Gianni Puccini; fotografia (Ferraniacolor): Otello Martelli (operatore: Arturo Zavatti­ni); consulenza per il colore: Domenico Purificato; scenografia: Carlo Egidi; montaggio: Gabriele Varriale; musica: Mario Nascimbene; interpreti: Marcello Mastroianni (Pasquale), Marina Vlady (Angela), Angelina Longobardi (Concetta), Dora Scarpetta (Nunzia­ta), Giulio Calì (nonno Pietro), Fernando Jacovolta (Adolfo), Renato Chiantoni (Francesco), Pina Galliani (nonna Filomena), Angelina Chiusano (Loreta), Lucien Gallas (Oreste), Franco Aval­lone (Leopoldo), Cosimo Poerio (nonno Onorato), Santina Tucci (Teresa), Gildo Bocci (maresciallo), Piero Tordi (parroco), Gabriele Tinti (Gino), Vittorio Donato (Servotta), Sergio Crosia (leone), Licia Fratta (Elpidia), Maria Pia Giordani (Pupetta), Saverio Crajola (Saverio), Olga de Poliakoff, Pietro Gegnoni (Giovannino), Giovanna Saccarini (Carmelina), Carmelina Misuraca (Carmina), Paolo Russo, Ughetto Bertucci; produzione: Excelsa Film; origine: Italia, 1954; durata: 98'.

Trama:Due giovani contadini, Angela e Pasquale, si amano e vorrebbero sposarsi, ma non possono farlo per la mancanza dei soldi necessari alla cerimonia tradizionale. Con la complicità di entrambi i genitori decidono allora di inscenare un finto rapimento. Tutto sembra andare per il meglio, ma sul più bello i loro parenti litigano, rischiando così di compromettere il buon esito dell'impresa. Il primo film a colori di Giuseppe De Santis.

Critica (1):Chi vede una frattura tra questa leggiadra favola di campagna e il resto dell’opera desantisiana si sbaglia. In Giorni d’amore il regista comincia il recupero di quella tendenza all’accumulazione dei tratti narrativi che aveva messo in mostra soprattutto nei suoi esordi. Una vena favolistica era sempre stata presente nel mondo interiore di De Santis (basta andare a rovistare tra le sue prime prove letterarie per constatarlo). Era un po’ la controcoscienza del suo impegno sociale, di quel comunismo fiam­meggiante che sostanzia il suo epos. In qualche modo, del resto, Giorni d’amore sviluppa il discorso intrapreso con la storia della popolana Anna Zaccheo. Al centro di entrambi i film è il matrimonio, mito femminile fondante per la società italiana (lo spiega esplicitamente il soggetto di questo sesto lungometraggio del regista). E, non a caso, troveremo il mito del matrimonio al centro di tanti altri film di De Santis, finanche in La garçonnière e in Un apprezzato profes­sionista di sicuro avvenire. Il fatto è che per il regista di Caccia tragica (anche lì la possibilità del matrimonio divideva Giovanna da Lilì Marlene) la storia, il conflitto, l’evento sociale rilevante passa sempre attraverso il corpo femminile, o comunque attraverso un corpo d’amore, attraverso il suo sognare. Il matrimonio può essere tanto un dramma quanto una favola. La Fondi di Giorni d’amore è l’ultima Brigadoon del Neorealismo.
La donna è il centro dell’universo desantisiano: questo vuol dire che spesso la donna è una vittima consacrata. Sul suo corpo – ecco un’altra chiave per analizzare l’erotismo desantisiano – passano le ruote di un carro sovraccarico dei miti e delle menzo­gne della società italiana del dopoguerra. Per questo motivo, probabilmente, le bellezze desantisiane hanno tratti così ben determinati: sono vagamente giunoniche perché devono sopportare il peso di tanti affronti, sono malinconiche perché scontano il peccato della loro diversità, si sono fatte astute perché spesso sono state ingannate, si mostrano superbe perché sono stanche di tante umiliazioni. E il loro aspetto statuario (si pensi alla Mangano di Riso amaro o alla Pampanini di Anna Zaccheo) contrasta sempre con una timida sete di felicità, con la loro predisposi­zione al sogno. Giorni d’amore trasferisce in ambito contadino una problematica molto simile a quella che Un marito per Anna Zaccheo svolgeva in un ambito urbano: l’impossibilità di realizzare il matrimonio. E il matrimonio vuol dire felicità. È rilevante notare come l’am­bito urbano di Un marito per Anna Zaccheo sia legato alla forma del melodramma, mentre quello contadino di Giorni d’amore sia invece legato alla forma della comedy. La terra, cioè il legame con la natura, ha un suo ruolo positivo. Attraverso la terra si può accedere alla felicità. Ripensiamo all’happy end di Caccia tragica, laddove gli uomini della cooperativa tirano addosso al bandito redento manciate di terra in segno di buon augurio. In Giorni d’amore quel tema viene ripreso – ancora una volta nel finale – laddove Angela e Pasquale, presto imitati dal nonno e dagli altri familiari, gettano palate di terra in un fosso. Per anni questo fosso ha costituito il confine tra due piccole pro­prietà: adesso, riempito di terra, diverrà fonte di lavoro per i novelli sposi. E tutti si danno da fare per “riempire quel vuoto di terra”. L’Italia del dopoguerra aveva una gran fame di terra. Dal punto di vista stilistico, sia nel finale di Giorni d’amore che in quello di Caccia tragica, la terra introduce un certo tipo di costruzione della sequenza, basato sul crescendo. È un luogo stilistico che De Santis potrebbe aver derivato da King Vidor (in un’intervista rilasciata a Renata D’Agostino, Gino Frezza, Rosario Rinaldo e a chi scrive, il regista americano spiegava esplicitamente di aver usato questo genere di costruzione nei suoi film e di averlo a sua volta mutuato da David W. Griffith): lo ritroviamo pure nel finale di Riso amaro e in una famosa sequenza di Il sole sorge ancora di Vergano, che Carlo Lizzani analizza bene nel suo saggio su Risa amaro: “Il prete dice le litanie e i contadini rispondono, prima uno, poi tre, dieci, cento, mille ora pro nobis”. Rispetto ad Un marito per Anna Zaccheo, Giorni d’amore, presenta anche un altro importante elemento di novità: si tratta, infatti, del primo film a colori di De Santis. Per questo esordio (la pellicola era la vecchia ma valorosa Ferraniacolor), il regista si servì della collaborazione artistica di un suo illustre com­paesano, il pittore Domenico Purificato, il quale – come sappiamo – aveva un insospettabile passato di redattore di “Cinema” vec­chia serie, al principio degli anni Quaranta.
Purificato, naturalmente, si limitò a fornire una consulenza, dando indicazioni sulla base delle quali sia lo scenografo (Ottavio Scotti) che il direttore della fotografia (il grande Otello Martelli) impostarono il loro lavoro. Il risultato è uno stranissimo naif cinematografico, che si adatta bene al tono lieve del racconto di Giorni d’amore. Giustamente Farassino, nella sua monografia su De Santis, definisce il film un esempio di Neorealismo “non rosa ma caleidoscopico”.
Stefano Masi, De Santis Il Castoro cinema, 1981

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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