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Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure - Dersu Uzala


Regia:Kurosawa Akira

Cast e credits:
Soggetto
: Vladimir Arseniev; sceneggiatura: Akira Kurosawa, Yurik Naguibine; fotografia: Fedor Dobronravov, Youri Gantmann, Asakazu Nakai; musiche: Isac Schwartz; montaggio: Akira Kurosawa, Viera Stefanova; scenografia: Youri Rakcha; interpreti: Maksim Munzuk, Juri Solomin, Schmeikl Chokomorov, Svetlana Danielchenko; produzione: Mosfilm e Kurosawa Film Studio 42 (Tokio); distribuzione: Zari Film – Cineteca Griffith; origine: Giappone, Urss, 1975; durata: 141'.

Trama:All’inizio del secolo, il capitano Arseniev conduce una piccola spedizione di ricognizioni geografiche ai confini della Cina, nella vasta e inesplorata zona del fiume Ussuri. Una sera, mentre gli uomini riposano accanto al fuoco, si presenta un cacciatore anziano della tribù dei Gold. È un tipo bizzarro, ma saggio, esperto della regione e privo della famiglia, toltagli da una epidemia di peste. Invitato a fungere da guida, Dersu accetta e si dimostra molto utile: insegna a tutti i segreti della natura e salva la vita ad Arseniev una notte in cui vengono colti da una tempesta di vento mentre sono soli e sperduti in una palude. A sua volta il capitano salva Dersu dalle rapide di un torrente. Separatisi con dispiacere, i due amici si ritrovano nel corso di una seconda spedizione. Ma l’anziano cacciatore sta divenendo cieco. Arseniev lo conduce in città, e lo ospita in una casa alla quale il Gold non è abituato. Quando Dersu sente la nostalgia della tajga, Arseniev gli regala un fucile modernissimo che ingolosirà un ignoto brigante e costerà la vita al vecchio.

Critica (1):(...) Un vecchio lupo della taiga e un giovane esploratore s’avventurano liberi come il vento in un paesaggio incontaminato («non c’è niente di più eccitante» direbbe Ford), imparano a conoscersi, si scambiano le loro esperienze, si salvano a turno la vita, diventano indispensabili l’uno all’altro: un meraviglioso soggetto per un western. Se Kurosawa lo avesse filmato negli anni Quaranta ci avrebbe dato un buon film d’avventura, ma dopo il fatidico 1971, al regista – obbligato a ridebuttare come un giovane – interessano solo più le avventure dello spirito e la sopravvivenza dell’umanità. La cronaca di due esplorazioni della taiga siberiana (1902 e 1907), la storia di un’amicizia, sono il pretesto per un nuovo viaggio iniziatico alla ricerca di una (compromessa) armonia biologica uomo-natura che appare ogni giorno più insostituibile. II rapporto maestro-allievo si arricchisce qui di sfumature inedite: Arseniev l’esploratore ariano, l’uomo di scienza prende lezioni di umiltà, solidarietà, rispetto dell’ordine naturale delle cose da un primitivo, un sempliciotto che avanza dondolandosi sulle sue gambe arquate, e non posa mai. (Kurosawa ha avuto fiuto a confidare il ruolo a un indigeno, Maxime Munzuk, attore di teatro e musicologo, dotato di una prodigiosa spontaneità; grazie a lui, Dersu diventa il più umano e simpatico dei maestri kurosawiani).
Fin dal loro primo casuale incontro, Arseniev rimane profondamente impressionato dalla personalità del cacciatore mongolo che, attratto dal fuoco del bivacco, è venuto a cercare compagnia. Quella notte i riflessi del fuoco sulle radici e gli alberi, il misterioso commento musicale, avevano creato un clima di magica attesa, come se quell’appuntamento fosse predestinato. Il comportamento inusuale del piccolo cacciatore (parla con il fuoco come se fosse un essere umano), le sue laconiche risposte (la sua casa è la taiga, da quando il vaiolo si è portato via la sua famiglia), la sua calma sovrumana impressionano vivamente il capitano: quell’uomo che vive nella foresta come nel suo elemento naturale ha qualcosa di soprannaturale, sarebbe dunque una guida ideale. Arseniev non si ingannava. La presenza della guida si fa ogni giorno più indispensabile: Dersu aiuta i militari ad orientarsi, identificando la minima traccia e odorando il vento, a superare ostacoli imprevedibili (la traversata delle rapide), a sopravvivere nelle condizioni peggiori (quando la notte li sorprende sul lago gelato, lottando freneticamente con l’oscurità e il vento Dersu riesce a costruire un igloo con le scarse erbe che emergono dalla superficie; il regista orchestra magistralmente questa epica lotta per la sopravvivenza). Li aiuta soprattutto a vivere con tutti i sensi tesi, a dilatare lo sguardo interiore, a scoprire i segreti e a rispettare le leggi della natura. Nella sua visione animista del cosmo, la nebbia è realmente «la terra che respira», il gelo «la riserva della vita», il sole «l’uomo più importante perché senza di lui tutto morirebbe»; anche il fuoco e l’acqua sono per lui «degli uomini potenti» (nel suo variopinto linguaggio, Dersu «umanizza» gli elementi naturali, chiama «uomo» persino il bastone che lo accompagna da una vita).
Cacciatore per sopravvivere, Dersu uccide una sola specie di animali: «Se si uccidono tutti gli animali, di cosa ci nutriremo?». Libera i caprioli caduti nelle trappole tese da certi cinesi senza scrupoli, e quando si accorge che una tigre segue testardamente il gruppo la prega cortesemente di allontanarsi: «Non c’è abbastanza spazio nella taiga? Proprio dietro di noi devi venire?». La tigre incarna ai suoi occhi di animista lo spirito della taiga, e Dersu ne ha un sacrosanto timore. Quando per legittima difesa sparerà sulla tigre che li assale si prostrerà in ginocchio come chi ha commesso un peccato imperdonabile. Da quel giorno infausto Dersu non sarà più lo stesso. Quando comincia a perdere la vista crede che questo fatto biologico sia una vendetta dello spirito della taiga. Vedendolo deperire ogni giorno di più, Arseniev propone alla guida di stabilirsi in città; Dersu vi resterà per poco, gli sembra di vivere in gabbia (non gli consentono nemmeno di piantare una tenda all’aperto e di tagliare un ramo). Prima di lasciarlo ripartire per il suo elemento naturale, Arseniev regala all’amico un fucile di precisione; con quello se la caverà anche se ha una vista debole. Di lì a poco Dersu verrà ucciso da uno sconosciuto a cui faceva gola quel fucile. Il buon selvaggio è stato assassinato dalla rapacità, dal consumismo. Chiamato a riconoscere il cadavere (nelle tasche hanno trovato un suo biglietto), il capitano pianterà sul tumulo dell’amico il bastone a «V» da cui non si era mai separato; quando tornerà in quel luogo anni dopo non troverà più né la tomba né i grandi cedri, scomparsi per far posto a un villaggio. Ma lo spirito di Dersu continua ad aleggiare sulla taiga, come l’aquila che «vola alta sulla montagna». Abbiamo citato la canzone cosacca che introduce i titoli di coda; i produttori l’hanno imposta all’autore ritenendo il finale troppo deprimente; nella prima edizione italiana, che per fortuna siamo riusciti a bloccare, quel coro romantico veniva ripetuto tre volte in tre punti diversi del film.
«La vera rivoluzione da fare oggi è quella ecologica» ci ha detto una volta Luis Buñuel. Con Dodès’ka-dèn (al negativo) e Dersu Uzala (al positivo) Kurosawa ha dato un suo brillante contributo alla rivoluzione vaticinata da Buñuel; non da ideologo o da moralista, ma da poeta. «È eccezionale vedere un gran film su dei buoni sentimenti» rilevava acutamente Bory distinguendo tra «buoni» e «bei sentimenti».
«Disteso, sereno, controcorrente, Dersu Uzala è un bagno di rigenerazione, un canto del mondo come direbbe Giono, l’ampio poema di una natura formidabile che Kurosawa ha voluto formidabilmente presente. Con estrema naturalezza questo canto del mondo diventa qui il canto della fraternità umana». Emulo di Flaherty e di Dovzenko, Kurosawa restituisce un’anima alla taiga, ce ne fa sentire il respiro, la magia, il canto e il grido (la traversata delle rapide, la tempesta notturna sul lago ghiacciato).
Splendido film d’avventura e di iniziazione, poema ecologico di un’originalità senza precedenti, Dersu Uzala ci racconta anche una delle più belle storie d’amicizia: la prima straziante separazione tra Dersu e Arseniev a metà film, il casuale trepidante incontro nella taiga cinque anni dopo sono un inno travolgente alla solidarietà umana. Dersu Uzala è davvero «il testamento struggente di un gran vecchio, di un poeta del cinema» come ci dicevano i fratelli Taviani. II viaggio tra le lande della Siberia ha fatto bene a Kurosawa: l’incontro con un personaggio congeniale e un paesaggio sconfinato ha stimolato la sua immaginazione, gli ha consentito di superare il punto morto in cui si trovava dopo l’insuccesso di Dodès’ka-dèn. Come i suoi personaggi, il regista samurai non si dà mai per vinto, e la fortuna lo ha premiato: il successo internazionale di Dersu Uzala consentirà all’autore di iniziare una nuova carriera a sessantacinque anni, unica eccezione in un Paese dove la crisi del cinema ha quasi ridotto al silenzio tutti i vecchi maestri, da Kinoshita a Ichikawa, a Kobayashi.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro Cinema-L’Unità, 5/1995

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Akira Kurosawa
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