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Palabras


Regia:Salani Corso

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Monica Rametta, Corso Salani; fotografia: Riccardo Gambacciani; montaggio: Sebastiano Bazzini; musica: Francesca Ancarola; scenografia e costumi: Valentina Scalia; suono: Stefano Campus; interpreti: Paloma Calle (Adela), Corso Salani (Alberto), Maria Jesús Casanova (Natalia), Susana Tello (Susana), Monica Rametta (Flavia), Alessandro Mizzi (Mario); produzione: Gianluca Arcopinto per Balaton Film; distribuzione: Pablo; origine: Italia, 2004; durata: 92'.

Trama:Durante un fine settimana nei quartieri alti di Santiago del Cile, Adela racconta con nostalgia, alle sue amiche, la storia d'amore vissuta un anno prima con un ingegnere italiano, Alberto, incaricato di costruire una diga presso un paesino sulle Ande cilene e che lei, insieme a un gruppo di ambientalisti, stava cercando di boicottare...

Critica (1):Come sappiamo fin troppo bene il viaggio raccoglie in sé curiosità – ossia fascino per l’imprevisto, ricerca – e irrequietezza. Corso Salani è senz’altro un viaggiatore curioso, ma ancor più irrequieto. Mi fece tale impressione fin dagli inizi, quando nel mai abbastanza apprezzato Voci d’Europa, si dibatteva fra nebbie e fanghiglie ungheresi, sempre incerto se togliere o mettere la camicia, se salire sul suo pulmino macilento o scendere. (...)
Tornando all’irrequietezza – che il regista ha spesso tradotto in uno stile frantumato: sbalzi, arresti, “sporcature” – credo si debba considerare che il sentimento esprime un’insolita, originale forma di autoironia. Un sentimento tiepido, però, divertito. Una provocazione che si tiene lontana dai veleni del grottesco e punta invece a recuperare l’intenerimento dal lato di una complicità giocosa. In altre parole il kitsch, così deliberato nei film di Salani (...), sembra un ammiccamento attraverso il quale egli lancia un invito senza rinunciare allo spiazzamento. Così le melodie latine che usa spesso servono da un lato a prendere in giro il personaggio, ma dall’altro insinuano il sospetto che la filatura patetica, o l’effetto di “media saudade’, esprimano l’anima dell’autore con qualche autenticità. (...) L’irrequietezza di Salani si è manifestata spesso con la ricerca di paesaggi “anomali”, se non vergini. Consapevole come tutti che ormai resta poco da scoprire, il regista ha preferito oscillare fra l’effettiva pur se limitata epifania degli spazi e la loro reinvenzione. E tuttavia, in qualche momento, il senso primigenio vibra nei suoi scenari. Accade, con Palabras, quando il largo in altezza ci invita a contemplare le cime innevate: prossime, misteriose (il vulcano) e irraggiungibili. Sono, questi, i “campi lunghi”, i “totali” di un film che si affida prevalentemente al “primo” e “primissimo piano”: gli stessi che Corrispondenze private, se pensiamo ad Adela, aveva stabilito insistendo perlopiù – come già era stato ne Gli occhi stanchi – sul profilo e il tre-quarti. Salani, insomma, alterna l’abbandono al grande, l’insistenza sul piccolo e la ricostruzione “umorale” dello spazio, secondo un’irrequietezza (il termine può adesso ripresentarsi con chiarezza maggiore) che gli fa preferire, nel viaggio, la soggettiva sul buio agli scorrimenti laterali descrittivi. (...) La scena decisiva del ballo in Palabras sancisce la fine dell’amore ed è concepita per “primi-primissimi piani” d’interno e “campi medi”. Cosa accade? Accade quel che in amore – massima crudeltà della sorte – determina il risveglio: quando il sentimento è all’apice un sospetto, un improvviso senso di distanza o di nebbia, rovesciano improvvisamente la felicità in angoscia. Il “primo piano” di Adela diventa così l’emblema di una solitudine man mano certa, e il “campo medio” di Alberto segna il ritorno della differenza, il fatale divergere dei destini. Ma, altra cattiveria dell’umana esistenza, il clima si era già guastato, o meglio, aveva subìto poco alla volta i disturbi della volgarità. Basta l’iniziativa di un ragazzotto incitato dagli amici a fare il gallo, basta uno sguardo – di Adela verso Alberto – che smette di incrociarsi. La volgarità è dunque una deviazione dal semplice – l’amore finchè dura – o, per meglio dire, il semplice che in un solo istante si scopre banale.
La scena mi sembra bellissima, tanto più se la considero coerente, pur se in evolutivo contrasto, con lo stile sempre un po’ ruvido dell’autore. In altri termini Salani raggiunge con Palabras una pienezza stilistico-narrativa che ha lo stesso rigore sperimentato ne Gli occhi stanchi e vi aggiunge un equilibrio nuovo, una diversa – ma sempre sorvegliata – felicità affabulatoria. Anche da esperienze come questa, azzardo, può passare il cinema del futuro.
Un’ultima osservazione voglio però riservarla alla cornice della storia d’amore, o, se si preferisce, a un sottofondo che, dio perdoni, si potrebbe definire ideologico. Il giornale del Torino Film Festival, a proposito, così recitava: «Raccontato questo rapporto con semplicità quasi documentaristica, il film focalizza la forza dei sentimenti (e la loro fugacità) al di là di ogni ideologia o ragione della mente che non appartenga alla sfera del cuore». Tutto vero? Usando ancora il modo che potrebbe essere di Salani direi: non proprio.
Adela torna a Santiago, al lavoro ordinario, agli incontri (un po’ rohmeriani) con le amiche e all’hockey... occupazioni buone e giuste, alle quali tuttavia, oltre all’amore con Alberto, manca qualcosa. Nel frattempo anche la coppia con la quale operava sulle Ande si è separata: Flavia fa la ricercatrice in Italia e Mario continua – si presume stancamente – la vita di prima.
Nato fra i contrasti di un impegno ideale, e anche per questo pregno di eccezionalità, l’amore finisce. La diga sarà costruita, ciascuno è andato per la propria strada, Adela ha perso Alberto anche per “oggettivi impedimenti”: le priorità della multinazionale, e Mario ha perso Flavia. Il gruppo dei tecnici militanti, si è sciolto e, con l’ amore, è finito l’ideale.
Tullio Masoni, Cineforum n. 433, 4/2004

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Corso Salani
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