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Cammino della speranza (Il)


Regia:Germi Pietro

Cast e credits:
Soggetto: Pietro Germi; scenografia: Pietro Germi, Federico Fellini, Tullio Pinelli; fotografia (b/n): Leonida Barboni; sceneggiatura: Luigi Ricci; montaggio: Carlo Rustichelli; interpreti: Raf Vallone (Saro), Elena Varzi (Barbara), Saro Urzì (Ciccio), Franco Navarra (Vanni), Liliana Lattanzi (Rosa), Mirella Ciotti (Lorenza), Saro Arcidiacono (il ragioniere), Renato Terra (Mommino), Francesco Tomolillo (Misciu), Paolo Reale (Brasi), Giuseppe Priolo (Luca); produzione: Luigi Rovere per la Lux Film; origine: Italia, 1950; durata: 101'.

Trama:
L'odissea di un gruppo di siciliani che, dopo la chiusura della zolfatara, partono verso il nord finché, dopo varie peripezie, passano clandestinamente il confine con la Francia.

Critica (1):Con Il cammino della speranza Pietro Germi racconta la storia di un gruppo di solfatari siciliani che lasciano Capodarso, convinti che ormai non ci sia più nulla da fare nella propria terra: la miniera è chiusa, né vale più oltre resistere o starsene oziosi ad aspettare, una lontana e chimerica giustizia sociale. Così Saro e Misciu, Antonio, Luca,Brasi, Mommino, Turi e Nanni con le donne e i bambini se ne vanno affidandosi con ingenua fiducia a don Ciccio che intasca la tangente e poi a Roma li abbandona sperduti e soli. Ma l'impegno è più forte di ogni ostacolo e il desiderio di lavoro più caparbio di ogni minaccia. E così le difficoltà (la scomparsa del contrabbandiere, gli interrogatori in questura, il foglio di via obbligatorio, il crumiraggio in una cascina della pianura padana, la defezione di una parte del gruppo, la ricomparsa di Vanni il bandito, la bufera sulle Alpi) vengono superate di getto, con imprudenza, senza preoccuparsi delle conseguenze, senza rendersi conto dei rischi ambientali. E il viaggio continua, anche se la morte falcidia il gruppo sino a che al di là delle Alpi, novella Gerusalemme, appare in una bianchissima distesa di neve la Francia bramata, cui i solfatari superstiti si dirigono come in un "facile e dolce declivio dove scivolano dolcemente speranze e illusioni".
Nell'impostazione narrativa come nel significato tematico, il film di Germi può sembrare un'evasione, quasi una rinuncia ai motivi di battaglia legalitaria e sociale su cui Germi aveva strutturato il film precedente In nome della legge. Sebbene lo sfondo iniziale sia ancora Capodarso, non interessa più il fenomeno della mafia locale. Sebbene al gruppo dei solfatari si unisca Vanni il bandito e non manchi la movimentata sparatoria tra lui e don Ciccio alla stazione di Roma, non esiste praticamente nel film il problema del banditismo siciliano o del contrabbando confinario. Sebbene ancora una volta entri in scena, deuteragonista, l'autorità statale con i carabinieri in Sicilia, i questurini a Roma, i poliziotti in Emilio, le guardie al confine, tuttavia la legge non impone drammaticamente il proprio ruolo, se non forse nell'ultima sequenza, quando le guardie confinarie italiane e francesi (ed è istintiva l'analogia con l'ultima sequenza di La grande illusione di Jean Renoir) lasciano violare il confine e con il loro comportamento alludono a una più stretta e ideale fraternità tra gli uomini, nella speranza che libertà possa significare anche giustizia. Ma queste impressioni immediate non devono far credere ad un'evoluzione del regista sulla via di interessi e problemi nuovi. Il cammino della speranza resta un film-racconto con un'azione che preesiste quasi ai personaggi e li investe della sua astratta necessità. II dramma non è creato dai personaggi che vivano la loro storia particolare e affrontino condizione umane determinate dalla loro stessa odissea. Anzi si adattano talmente alla struttura narrativa da vivere drammi di cui non sanno rendersi conto, nella disperata ricerca dell'unico punto di appoggio dato al loro fatale andare: l'espatrio. Ma la soluzione non si pone come la sintesi dialettica e tematica di una tesi (Sicilia, terra senza lavoro) e di una antitesi (volontà di lavorare e di vivere, almeno per i figli), ma come il termine di un modulo narrativo che si impone al regista nella sua sagoma indeformabile. La giustificazione psicologica, e con essa la sintesi estetica del dramma, restano ancora di là da venire. Non mancano, ovviamente, nel film di Germi le cose belle, pregi che insistono su aspetti figurativi con un sapiente uso della fotografia in bianco e nero o tantomeno moduli stilistici analoghi a quelli riscontrati in La terra trema. Ma la preferenza formale diventa facilmente preziosismo raffinato (la calligrafia statuaria all'esterno della solfara, le inquadrature sghembe alla fine dell'episodio romano, la simbolica stracciatura del foglio di via obbligatorio), mentre le figure, inizialmente bozzate d'un tocco, immediate e semplici, perdono progressivamente vitalità e respiro e non sfuggono a qualche indugio convenzionale che le frantuma e le disperde. Non per niente il personaggio più vivo resta proprio Vanni il bandito: compare solo due volte nel film e immediatamente sa sfruttare la suggestione di un ritratto ancora integro, vivido, come erano i solfatari all'inizio della vicenda, gente scorata e asciutta, dal passo lento, dallo sguardo dolente e svagato. Forse l'insufficienza psicologica e umana delle figure è dovuta anche alla scoria dell'intreccio amoroso che Germi lascia insinuare quasi dall'esterno in ogni film, l'idillio tra il questore e la figlia del professore in Gioventù perduta, la relazione tra il pretore e la baronessa in In nome della legge, il sentimento affettuoso tra Soro e Barbara in Il cammino della speranza. Germi non sa facilmente rinunciare alla letteratura romanzesco-popolare: parzialmente tenta di riscattarsene attraverso il gioco rigoroso e preciso di una sceneggiatura che è già montaggio. Infatti, se spunti, ambienti, episodi diversi, quali lo sciopero nel fondo della miniera, la pietraia di rocce e di sole presso la solfara, la miseria di una popolazione senza libertà né giustizia sociale, l'ingenuità di un sogno d'espatrio tenacemente perseguito, l'avvilita tristezza dell'episodio romano, la tormenta delle Alpi dove la morte è bianca e fatale, non sono soltanto motivi letterari, magari abbelliti con uno scaltro linguaggio di mestiere, è perché Germi ha un senso innato delle immagini di cui misura suggestione ed efficacia su un ritmo agile e sciolto, senza fronzoli, asciutto più che profondo, che ricorda parecchio la lezione del cinema americano di Vidor o di Ford. Ma come ama descrivere, rappresentare, narrare, credendo e sottomettendosi al proprio racconto, accontentandosi di questa fluidità narrativa, nel contempo Germi resta anche frenato da un ottimismo conformista e legalitario, di venatura vagamente socialista che è congeniale al suo spirito. E questa ambivalenza di influssi non sempre reversibili, di ispirazioni contrastanti non trovano sempre il piano medio cui concordare la visione: tendono invece da una parte ad esasperare la pregnanza del linguaggio realistico e dall'altra a sterilizzare il racconto verso il lieto fine, camuffandolo magari (se ne veda la spia già nel titolo) sotto una colorazione programmatica.

Pesce, Cineproposte, La Scuola, 1978

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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