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Sogni d'oro


Regia:Moretti Nanni

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti; fotografia: Franco Di Giacomo; musiche: Franco Piersanti; montaggio: Roberto Perpignani; scenografia: Gianni Sbarra; costumi: Lia Francesca Morandini; interpreti: Nanni Moretti (Michele Apicella), Piera Degli Esposti (la madre di Michele), Laura Morante (Silvia), Alessandro Haber (Gaetano), Gigio Morra (Gigio Cimino), Dario Cantarelli (il "Camaleonte" dei dibattiti), Nicola Di Pinto (Nicola), Claudio Spadaro (Claudio), Remo Remotti ("Freud"), Miranda Campa (madre di Freud), Sabina Vannucchi (figlia di Freud), Giampiero Mughini (presentatore tv), Chiara Moretti (presentatrice tv), Alberto Abruzzese (lettore di sceneggiature), Luigi Moretti (produttore), Tatti Sanguineti (aiuto regista), Mario Garibba (direttore della fotografia); produzione: Renzo Rossellini per Operafilm-Rai Radiotelevisione Italiana; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1981; durata: 109’.

Trama:Grazie al successo ottenuto con il suo secondo film, il giovane regista Michele Apicella è chiamato a partecipare a cineforum, dibattiti, tavole rotonde, interviste televisive, per sentirsi dire quasi dovunque che si ripete, che distorce la realtà giovanile, che i suoi film non saranno mai capiti "da una casalinga di Treviso, da un pastore abruzzese, da un bracciante lucano". Michele si difende gridando di essere l'unico, e il migliore, ma si sente bene soltanto a casa, dove può sfogarsi con la madre insegnante. Intanto prepara un altro film, "La mamma di Freud", in cui il fondatore della psicoanalisi appare come un adulto-bambino, che telefona a Jung, detta le proprie memorie alla figlia, ma fa le bizze con sua madre, pestando i piedi e strillando con voce infantile. Alla fatica di costruire un film che sia all'altezza della sua fama, Michele deve sommarne altre: difendersi dai suoi amici Nicola e Claudio, che vogliono diventare suoi assistenti per imparare il mestiere: subire gli sfoghi dell'amico sceneggiatore Gaetano, che non trova chi voglia produrre i suoi film; fronteggiare la concorrenza del regista Gigio Cimino, che bada al mercato e se ne infischia dei film impegnati…

Critica (1):Dopo tre cortometraggi in Super8 (La sconfitta, Pàté de bourgeois e Come parli, frate?) e due fortunatissimi lungometraggi diversamente «poveri» e «marginali», Nanni Moretti rischiava già di perdersi, appena nato, in una serie di ripetizioni nemmeno tanto variate, mostrando la corda di un cinema «di trovate» sostanzialmente carente di un vero professionismo, tutto giocato sulla battuta piuttosto che sulla gag, sulla presenza quasi ossessiva dell'istrione più che sulla solidità delle strutture narrative. I tre anni di distanza tra Ecce Bombo e Sogni d'oro si spiegano probabilmente anche con la necessità di superare l'impasse attraverso una più meditata riflessione. Come spesso succede in questi casi, però, la riflessione, con tutte le sue sfumature che vanno dall'angoscia alla disperazione, dalla perplessità all'euforia, è diventata oggetto stesso del film, suggerendo, ahimé, allo spettatore, imbarazzanti paralleli. Moretti, cosciente del pericolo che correva, ha tentato di esorcizzare l'archetipo rendendo ironicamente espliciti i richiami ad esso.
Ne è quindi uscito un curioso remake di Otto e mezzo, con un regista che mette in scena se stesso, le proprie ossessioni private, il proprio cinema, la propria immagine pubblica, le laceranti interrelazioni tra pubblico e privato, tra realtà e sogno, eccetera.
Così, sul piano del privato facciamo la conoscenza con le tribolazioni del protagonista, con la nevrotica incapacità ad adattarsi alle intrusioni a cui lo sottopone la sua immagine pubblica, con il suo difficile e comico rapporto con la madre e gli amici – da quelli del bar al povero Gaetano, regista fobico ed eternamente disoccupato – con le compensazioni, sterili, nel cibo (i dolci) e nel sogno (la felliniana Silvia, ennesima «donna mitica» senza speranza). Sotto questo punto di vista, Sogni d'oro, è, come Ecce Bombo, una dichiarazione di disagio ma anche di purezza, di di-
sarmato candore di fronte ad una realtà «sporca». (Se il secondo lungometraggio di Moretti finiva addirittura con la totale disponibilità del protagonista verso la giovane depressa, qui abbondano situazioni analoghe: si veda, ad esempio, l'atteggiamento che Michele ha nei confronti del sesso, di una candida onestà, mentre gli altri – il barman, i tecnici del set, Gigio – oscillano tra teorizzazioni furbastre e ammiccamenti volgari). Più in generale, il regista sembra mostrare insieme insofferenza e senso di superiorità nei confronti di una mediocrità diffusa a cui si sente irrimediabilmente estraneo (un po', ci sembra, alla Giovane Holden).
Sul piano delle relazioni pubbliche, Moretti individua una serie di bersagli che colpisce con un'ironia centrata, ancorché piuttosto facile. Innanzitutto, se la prende sia con la critica rozza e pressapochista (il rompicoglioni dei dibattiti) sia con quella pseudoraffinata del cinema – cinema, capace di stravolgere il più elementare buon senso dando significati opposti agli stessi concetti (i due interventi speculari su Don Siegel al bar). Ma soprattutto il regista ce l'ha con la tendenza diffusa a parlare di cinema da parte di tutti, con ignoranza impudente («Tutti parlate di cinema! Tutti parlate di cinema! Parlo mai di astrofisica? Parlo mai di biologia? lo non parlo di cose che non conosco. Parlo mai di cardiologia? Parlo mai di radiologia? lo non parlo di epigrafia greca, di algebra, di neuropsichiatria! lo non parlo di cose che non conosco»). Siamo, come si vede, sul piano, estremamente legittimo, della rivendicazione di specificità, che fa pendant necessario con l'altra, quella che traspare dal discorso del «film nel film», del regista che parla di se stesso in rapporto alla professione che si è scelto.
Giustamente, Moretti rivendica la necessità di un professionismo a tutta prova, confermata dalla angosciosa e kubrickiana «ossessione del controllo» che trasuda da tutta l'opera. In questo senso, Michele si dichiara lontano sia dagli abborracciamenti beceri della «nuova ondata» (Gigio), sia dall'artigianato umano e pasticcione dei padri (i ricordi di Remotti-Freud durante la pausa). Di più, si ha l'impressione che la sua sia un'affermazione di estraneità nei confronti del mondo del cinema (e in questo il film è lontano dalle sia pur contraddittorie dichiarazioni d'amore di Fellini, e, a maggior ragione, da quelle più dirette, meno tormentose, dell'analogo Truffaut di Effetto notte). Il guaio è che poi Sogni d'oro si costituisce come la parziale negazione di questa «dichiarazione d'intenti». Moretti, infatti, nonostante la buona volontà, un rigore non solo proclamato e l'indubbia efficacia istrionica della maschera, pur nella costruzione inusitatamente solida del plot, dimostra di essere ancora lontano da una sicura padronanza del linguaggio, dalla capacità di sviluppare idee e situazioni (e allora, umilmente, perché non affidarsi a qualche valido collaboratore, magari un «bravo artigiano» della sceneggiatura?). Spunti eccellenti come quello del bracciante lucano, del pastore abruzzese e della casalinga di Treviso, ad esempio, vengono banalmente sprecati in una stanca iterazione.
Certo, il film testimonia della volontà di affrancarsi da quella che stava rapidamente diventando maniera (la struttura «a strisce», la tematica, ormai abbondantemente usurata e irritante, degli ex sessantottini e delle loro sfighe). E non gli mancano momenti di divertimento (la prima parte del match in televisione, Freud che fa il piazzista dei suoi libri, la caricatura dei fratelli Taviani, il pranzo nel convento di suore, il musical sessantottardo, un po' alla Hair), ma sono, semmai, elementi che fanno rimpiangere l'approssimazione alla quale, nonostante tutto, il regista non è riuscito a sfuggire. Se quindi autentica e perciò rispettabile risulta l'angoscia che promana dal film, se indubbio deve essere stato il travaglio che ad esso ha presieduto, tuttavia l'angoscia, il travaglio, si traducono troppo spesso, ahimè, per lo spettatore, in noia sottile, disperdendosi in situazioni tutto sommato poco interessanti, nonostante lo sforzo dell'immodesto regista-attore di gabellarcele per esemplari. Mirando ad un sia pure personale Otto e mezzo, Sogni d'oro abortisce in una fin troppo facile parafrasi, tanto da far pensare, più che al capo d'opera di Fellini, a quello che ci sembra uno dei più mediocri Woody Allen di questi ultimi tempi, l'infelicemente felliniano Stardust Memories. Per di più, senza Gordon Willis, la Barrault e la Rampling. E, nonostante tutto, senza Woody Allen.
Paolo Vecchi, Cineforum n. 208, 10/1981

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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