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Edipo re


Regia:Pasolini Pier Paolo

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura:
Pier Paolo Pasolini (da Edipo re e Edipo a Colono di Sofocle); fotografia (colore): Giuseppe Ruzzolini; scenografia: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; montaggio: Nino Baragli; aiuto regia: Sergio Citti e Jean Claude Biette; interpreti: Silvana Mangano (Giocasta), Franco Citti (Edipo), Alida Valli (Merope), Carmelo Bene (Creonte), Julian Beck (Tiresia), Ninetto Davoli (Anghelos/Angelo), Luciano Bartoli (Laio), Ahmed Belhachmi (Polibo), Francesco Leonetti (servo di Laio), Giandomenico Davoli (Pastore di Polibo), Pier Paolo Pasolini (Gran sacerdote), Jean-Claude Biette (Sacerdote), Giovanni Ivan Scratuglia; produzione: Alfredo Bini per Arco film; distribuzione: Euro International film; origine: Italia, 1967; durata: 104’.

Trama:Laio e Giocasta si sentono minacciati dalla profezia secondo cui il loro figlio Edipo ucciderà il padre e sposerà la madre. Così ordinano a un servo di uccidere il neonato, ma questi viene raccolto da un pastore e allevato da re di Corinto. Edipo, ormai uomo, apprende il vaticinio e fugge, ma, il destino lo guida inesorabilmente al compimento dell'atroce profezia.

Critica (1):La tragedia di Edipo, a meno di andare a cercare i primitivi polinesiani tra i quali vige ancora oggi il tabù dell’endogamia e dell’incesto, non ha niente a che fare con il mondo moderno. Anche se poi gli stessi eventi potrebbero benissimo verificarsi negli stessi modi. La tragedia di Edipo appartiene al mondo arcaico greco; tanto è vero che in Grecia essa era un mito, cioè qualche cosa di così insopportabile per la società quale era allora da meritare di essere trasformato in mistero. Tuttavia il recupero della tragedia di Edipo oggi è pur sempre possibile, soprattutto in due modi: sia in senso conoscitivo e razionale, ossia scrivendo una storia moderna che (quasi sempre inconsapevolmente da parte dello scrittore) ne adombri i significati: oppure risuscitando con piena consapevolezza il mito a livello estetico-culturale. Nel primo caso abbiamo un’operazione realistica; nel secondo un’interpretazione estetizzante. I precedenti in ambedue i casi sono molti: per il primo, si potrebbe risalire addirittura ad Amleto; per il secondo, il nome di Wagner sembra il più legittimo. Realistico è l’inizio dell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini. Realismo che discende da Freud, cioè dalla dimensione tragica che Freud ha legato per sempre al nudo fatto di nascere. Ma Pasolini ha respinto con mano delicata e ferma ogni tentazione didascalica e ci ha dato una bellissima sequenza sull’innocenza dell’amore materno e sulla fatalità di quello filiale. Subito dopo Pasolini abbandona Freud per Jung, cioè abbandona l’ansia conoscitiva per la preoccupazione estetico-culturale e ci presenta l’Edipo di Sofocle sullo sfondo di una natura erosa e solenne, in Marocco, in villaggi turriti simili a rozze regge arcaiche. Abbiamo fatto un salto indietro di migliaia di anni, al tempo in cui il mito era attuale. Anche qui, secondo noi, la poesia è raggiunta, sia pure attraverso un vagheggiamento estetizzante e culturale. Pasolini, quei monti, quei villaggi, quei riti, li «sente» con elementi essenziali del mito e riesce a comunicarci il suo sentimento. L’uccisione di Laio è scandita con maestria; ma vi si nota un’esaltazione della ferocia che non è giustificata né prima né dopo da un contesto sociale analogo. Tuttavia, finché dura l’ignoranza di Edipo, cioè per tutto il tempo la rappresentazione è degna del migliore Pasolini. L’incrinatura si comincia ad avvertire nel secondo tempo, quando quella stessa brutalità che era servita a far uccidere Laio, impedisce di affrontare il vero dramma di Edipo, quello scritto da Sofocle, con un personaggio adeguato. È il dramma della conoscenza, della scoperta della verità. Come ha osservato il critico americano Ferguson, questo dramma è una specie di match tra Tiresia, il cieco che vede, e Edipo, il veggente che è cieco. In questo match verbale, Edipo non è un violento, un brutale, bensì un intellettuale come Amleto, strenuo, eroico, avido di verità. Se questo è vero, allora bisognava prolungare al massimo il duello tra Tiresia ed Edipo, lasciando in ombra il rapporto incestuoso con Giocasta (al quale dobbiamo pur tuttavia le parti più valide del secondo tempo). Ma per far questo ci voleva un attore della forza di Julian Beck, non Franco Citti. Pasolini è convinto che il sottoproletariato delle borgate sia omologo al mondo arcaico ma il suo film dimostra che non è vero. Edipo urla quando dovrebbe invece esprimersi quietamente e dialetticamente. Non bisogna infatti dimenticare che incesto e parricidio sono «tentazioni» eterne dell’uomo, cioè qualche cosa di profondo, di misterioso, di segreto. Poi la fine. Diciamo subito che avremmo preferito un ritorno al realismo dell’inizio, senza simboli, di nuovo freudiano, cioè conoscitivo. Una famiglia come quella della prima sequenza ma con una madre invecchiata e troppo affettuosa, un padre anziano non amato né rispettato e un figlio che inconsapevolmente, ciecamente, si comporta secondo i modi propri del complesso di Edipo. Pasolini invece ha preferito l’elegia al dramma. Ha sostituito Antigone con Angelo, ha fatto trapassare l’Edipo fisicamente cieco del mito nella realtà del mondo moderno. Edipo che era nato a Tebe, qui si identifica con il bambino nato in una piccola città italiana. Una fine «privata», simbolica, tristissima ma non catartica. L’interpretazione di Silvana Mangano è splendida. Accanto a lei, bisogna mettere Julian Beck, eccellente nella parte di Tiresia. Di Franco Citti abbiamo già detto; vogliamo soltanto aggiungere che il suo volto è sì fortemente espressivo ma di qualche cosa che non ha niente a che fare con Edipo.
Alberto Moravia, L’Espresso , 17/9/1967

Critica (2):La bella cassa (prologo ed epilogo) dell'Edipo Re di Pasolini non basta a convalidare quest'altra impresa, di necessità discutibile, ma che è comunque più giustificata, se non altro biograficamente, rispetto alla tematica dell'autore. Il ripiombare nel mito, durante la lunga parte intermedia del film, avrebbe guadagnato a essere ridotto, per corrispondere alle esigenze stesse dell'assunto, a un mero riferimento, che durasse ad esempio poco più del prologo e dell'epilogo. La sua prevalenza sbilancia il film verso una noia costante, grazie anche alla povertà di realizzazione. Tutta questa parte è decisamente scarsa d'invenzione cinematografica, e nonostante le giapponeserie e il "preistorico-arbitrario" – impresa in cui si mostrano più efficienti taluni Maciste – ogni invenzione è anzi esaurita al livello delle scenografie e dei costumi. È ripetitiva e mediocre, non abbastanza solare né abbastanza cupa da risultare tragedia, come è infatti soltanto in alcuni passo degni dell'autore: il confronto tra i servi, gli amplessi consumati quando il dubbio già accende i protagonisti, i momenti finali. Non ci convince, infine, la pretesa a un tipo di narrazione elegiaca e soffusa che avrebbe allora richiesto una maggiore elaborazione formale, la ricerca di un ritmo interno all'opera, e non la sbrigatività di una regia e di un montaggio che non hanno controllato e padroneggiato un materiale già povero. Il film andrebbe visto nel suo insieme, ma i suoi squilibri sono così evidenti, che ci sembra più giusto vederlo nel suo meglio, soffermarci soltanto sul suo epilogo. Il cantore cieco, Edipo, guidato dal suo vivace Angelo (custode) sottoproletario – unico vero contatto con la vita – suona il flauto sulle porte del Duomo di Bologna per la borghesia che non lo ascolta; poi, per il proletariato, una nenia rivoluzionaria, e ancora inutilmente. Infine, egli torna ai luoghi dell'infanzia e ivi conclude che "la vita finisce dove comincia." L'intensità poetica delle rade immagini di questo brano è altissima e ci sembra un peccato, un'occasione mancata, che questa dichiarazione di sconfitta sia stata così poco approfondita e preparata dal comodo e rischioso ricorso al mito, così poco critico nonostante le opinioni a posteriori, inutilmente razionalizzatrici, del regista. La cupa concentrazione di questa fine è tuttavia lancinante, perfino commovente: proprio perché ci sembra che Pasolini non tanto dica che borghesia o proletariato si sono mostrati sordi alla sua canzone, quanto invece lasci intendere (non si sa quanto consapevolmente, e quanto per un'esigenza di sincerità che può aver influito sull'intuizione poetica) di aver sempre cantato per se stesso, e che gli altri, la storia, non fossero che occasioni, pretesto al suo interno rovello o, se vogliamo, al suo narcisismo, e non oggetto vero di preoccupazione reale. Un perenne soliloquio, non un tentativo di dialogo; tanto più se la voce dell'altra parte è assente, e la sua estraneità data come scontata. Pasolini ci dice dunque di più che non nelle dichiarazioni teoriche o nelle presunte battaglie, più forse di quanto egli stesso mai riconoscerebbe, e con immagini assai belle. Ma due dubbi permangono: il primo, che l'interesse oggettivo del regista e del poeta ne resti in fin dei conti limitato, riconducibile com'è a una sorta di incoerente decadentismo fin troppo sentimentale sotto l'apparente rozzezza dei suoi Cristi e garzoni; il secondo, che avanziamo con estrema cautela, che questa dichiarazione di sconfitta e di morte non rientri anch'essa in una forma alquanto tradizionale di vagheggiamento della propria morte, più morbido che tragico.
Goffredo Fofi, Capire col cinema, Milano, Feltrinelli, 1997.

Critica (3):

Critica (4):
Pier Paolo Pasolini
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