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Appunti per un’Orestiade africana


Regia:Pasolini Pier Paolo

Cast e credits:
Fotografia: Giorgio Pelloni; commento: Pier Paolo Pasolini; musica: Gato Barbieri; montaggio: Cleofe Conversi, Pier Paolo Pisolini; produzione: Gian Vittorio Baldi per IDI Cinematografica; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Italia, 1970; durata: 55’.

Trama:Pier Paolo Pasolini, desiderando incarnare la tragedia di Eschilo – l'Orestiade – nei drammi sociali e politici del Terzo Mondo degli ultimi decenni, percorre tre stati africani (Kenya, Tanganika, Uganda) alla ricerca di volti e fenomeni che rappresentino con immagini reali e non artificiali Clitemnestra, Egisto, Agamennone, Elettra, Oreste e Pilade; che raffigurino la trasformazione delle Furie in Eumenidi; che ricordino il tempio di Apollo dove Oreste venne giudicato non più da un tribunale divino bensì da un tribunale umano. Il materiale raccolto viene poi presentato a studenti africani di Roma per verificare l'idea di fondo e per risolvere meglio il problema della datazione della moderna Orestiade, se negli anni '60 o in quelli successivi.

Critica (1):Nel corso di un viaggio attraverso i territori di Tanzania, Tanganika e Uganda, Pasolini adunò un mannello di immagini per un film sull’Africa. Era il 1969: ma già precedentemente egli aveva fatto impiego della tecnica del «reportage», da lui trasposto in annotazioni e chiose visive. Va da sé ricondurre alla memoria quei Sopralluoghi in Palestina che precedettero il Vangelo, poi ambientato nel sud d’Italia: e il più risolto Appunti per un film sull’India. Il progetto di un’Orestiade da girarsi in Africa si scioglieva però dalle suggestioni sensoriali del momento: non ingrovigliandosi nel contingente, era invece calato in specifiche ragioni umane e culturali. Mentre infatti gli Appunti sull’India, pur risolti in un abbozzo per un possibile film su quel paese, assestavano una loro consecuzione e temporalità con personaggi o episodi in un certo senso immanenti all’ideazione, Appunti per un’Orestiade africana rimandava apertamente alla grande trilogia di Eschilo a segno di descrivere l’Africa del dopo-colonialismo. Si sa il peso che essa teneva nella mitografia pasoliniana: «ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo». Stavolta in più c’è l’inseguimento della realtà sul trasporto poetico ed emozionale della cultura. Ma la cultura serve a Pasolini per contornare e più concretamente evidenziare la propria détresse. E infatti, subito dopo lo scivoloso inizio documentaristico, si assiste a un recupero degli archetipi del nostro universo occidentale. La cultura non è più citazione o vezzo, bensì destino intessuto di tempo. Il mito d’Oreste funziona insomma come aveva funzionato quello di Edipo. Non a caso il film progettato e questi Appunti che più concretamente lo anticiparono si connettono intimamente con la produzione coeva: da una parte il cinema, dall’altra il teatro. Nei due casi, si ha a che fare con la stessa infilata di «citazioni» (il plot di Othello rigiocato liberamente in Che cosa sono le nuvole, la reversibilità di La vida es sueño veicolata nel Calderón) e c’è soprattutto un uso privato e psicanalitico (anche se non forse deliberatamente) nei miti classici: Edipo, Pilade, Medea, rispetto ai quali corre in parallelo la confessione autobiografica quale immersione nel subconscio o il tema più scoperto dell’uccisione dei padri (si vedano Porcile e Affabulazione). Ma a quale realtà intendeva intenzionarsi Pasolini con l’Orestiade? Teniamoci intanto al positivo di un suo scritto: «L’Orestiade sintetizza la storia dell’Africa di questi ultimi cento anni: il passaggio cioè quasi brusco e divino, da uno stato «selvaggio» a uno stato civile e democratico: la serie dei Re, che, nell’atroce ristagnamento secolare di una cultura tribale e preistorica, hanno dominato – a loro volta sotto il dominio di nere Erinni – le terre africane si è come di colpo spezzata: la Ragione, ha istituito quasi motu proprio istituzioni democratiche. Bisogna aggiungere che il problema veramente scottante e attuale, ora, negli Anni Sessanta – gli Anni del Terzo Mondo e della Negritudine – è la «trasformazione delle Erinni in Menadi»: e qui il genio di Eschilo ha tutto prefigurato. Tutte le persone avanzate sono d’accordo... sul fatto che la civiltà arcaica – detta superficialmente folklore – non deve essere dimenticata, disprezzata e tradita. Ma deve essere assunta all’interno della civiltà nuova, integrando quest’ultima, e rendendola specifica, concreta, storica. Le terribili e fantastiche divinità della Preistoria africana devono subire lo stesso processo delle Erinni: devono diventare Eumenidi». Il trapasso auspicato dal vecchio al nuovo è reso possibile dall’accettazione dell’ordine delle cose. È un fatto inconsueto in Pasolini. In lui, l’opzione naturale aveva sempre guidato a una affermazione della vitalità, a tratti antecedente la storia e la stessa vita e vertebrante comunque una poetica del viscerale e dell’oscuro. La visione degli alberi ingrovigliati nel vento, simbolizzanti le Furie, torna a riprova di questo penchant. Certo, il rapporto primario res
ta quello tra il linguaggio e le pulsioni profonde. Stavolta però, a tanti anni di distanza dal decennio delle Ceneri, Pasolini accetta con gli Appunti il percorso non già ai margini o al di là della storia, ma dentro la storia stessa. E tutto questo senza assottigliare le dimensioni della frattura e senza mai ridurre il carattere di dramma e di trauma del passaggio epocale. Lo scontro-confronto è tra i valori primordiali che giungono dalla tradizione e la «ratio» progressiva della nuova città dell’uomo. Il conflitto ustionante tra Furie e mondo moderno non può che concludersi con il sopravvento di quest’ultimo, sul piano di una sintesi che incorpora le prime nella democrazia razionale del nuovo stato. È sconcertante come tale posizione di Pasolini, ovviamente poetica, diverga nettamente dalle altre espresse nello stesso giro d’anni. La possibilità di immettersi e sopravvivere nella storia borghese è infatti denegata tanto in Pilade che in Teorema e Porcile. E per avvicinarci al periodo in cui vennero realizzati gli Appunti sull’Orestiade, essa contrasta radicalmente con i quasi contemporanei Medea e Ostia (anche se per quest’ultimo deve aversi in conto l’anarchismo aurorale e pessimistico di Sergio Citti, che ne fu il regista). Ma in particolare in Medea l’antagonismo tra il furore primitivo e la regola della civiltà corinzia è così irriducibile da deflagrare in tragedia. A suo tempo, Pasolini motivò questi differenti punti di vista argomentando che nel caso degli Appunti veniva a prevalere l’oggettività, donde l’esigenza di guardare alla storia comune, mentre per Medea era essenziale il soggettivo, con ciò affermandosi il diritto a un proprio privato dolore. Tutto vero: ma per parte nostra terremmo presente la tendenza già tante volte esplicitata alla contraddizione come figura di pensiero e di linguaggio. Osserva del resto Pasolini: «Se uno calcolasse i suoi atti come forniti di «efficacia dialettica», certamente «dialettico» non lo sarebbe mai. Le contraddizioni alla realtà sono cieche, continue, amorfe, indecifrabili, stupide e carismatiche come la realtà». In quel processo appunto dialettico che esse producono, le diverse falde si distinguono e poi dopo si attirano sino a dare un intrico da vertigine: un capogiro che viene dal rifiuto di quanto in precedenza era stato anche violentemente e polemicamente affermato. Il contraddirsi è atto pasoliniano per eccellenza. Resta in ogni caso, in Appunti per un’Orestiade africana, un’attitudine fiduciosa e ottimistica che si afferma nella proiezione su Terzo Mondo e Africa dello stilismo classico. In effetti, la suggestione del testo eschileo, quando funzionante come in Pasolini sul versante dell’attualità, è così forte da rifrangersi nella struttura. La non sottaciuta qualificazione del coro è rintracciabile nelle danze e nei canti; l’antefatto, che nella tragedia greca non viene rappresentato ma bensì raccontato da un messaggero o da un corifeo, è esposto in spezzoni di repertorio che documentano le atrocità delle guerre tribali e neo-coloniali. In generale, però, tutto il materiale filmico, sottoposto al dilemma del come potesse girarsi un’Orestiade, si strina nell’incontro tra mito e storia, tra le regole del testo classico e la limpidità di una struttura aperta che, con il suo libero divenire, attesta a fondo l’inventiva e la felicità dello sperimentalismo pasoliniano. Ma sul problema del come costruire filmicamente l’Orestiade (che è poi il problema di come riscrivere, in senso progressivo, il mito d’Oreste e di Clitennestra nella mutata realtà africana), si perimetra alla fine la struttura del film montato sugli «appunti» pasoliniani. Ma com’è strutturata quest’opera? C’è per intanto la parte vera e propria del viaggio. Lo sguardo invaso dalle pianure e dalle grandi foreste si appanna e intristisce di fronte alla scoperta dell’eredità coloniale nelle città e nelle scuole (l’utopia de Il padre selvaggio sembra lontana per sempre). Le emozioni sotterranee e rabbrividenti e la delusione di ritrovare parti camuffate dell’Europa stanno però dentro l
a particolare emulsione espressiva degli Appunti: che è quella concreta del punto di vista poetico del film, l’attesa di futuro, ragionato e sofferto nel contrasto tra presente e passato. Del resto, è dal respiro dell’Africa nera che arriva a Pasolini l’idea di ambientarvi un’Orestiade contemporanea. Per questo il regista può riprendervi i luoghi e i volti alla ricerca del suo Oreste e del suo Agamennone, di Cassandra e di Clitennestra. La città di Kampala, nelle sue immaginazioni e nel favoleggiare che il film concretamente fa, potrebbe essere Atene; l’università di Dar Es Salaam, in Tanganika, simboleggiare a sua volta il sacrario di Apollo. La gremitezza del taccuino d’appunti dell’intellettuale d’eccezione, quegli che ragiona su sfruttamento e alienazione, su omologazione e progresso, cede il posto agli slarghi abbaglianti d’intensità: l’orticello prefigurante la tomba; gli alberi; le nebbie in lontananza; l’indistinto del mito raccolto in un’uguale indistinzione, quella straordinaria dei paesaggi continentali. Non c’è soltanto la facilità nel registrare i volti e i dettagli. Esercitandosi liberamente sugli «elementari» del suo cinema e della sua poetica, senza sovrammesse preoccupazioni, Pasolini raggiunge per incanto un livello poetico, la cui eccezionalità è in tutto pari al carattere libero e sperimentale della sua scrittura. Come dire che la folgorazione poetica sopravviene naturalmente, senza predeterminazione. Quando invece l’ipotesi del film da fare è versata in uno schema pregresso, ancorchè aperto – si pensi alla parentesi con Gato Barbieri, Savage e la Murray, più interessante sul piano musicale e anche cinematografico – il tono d’insieme suona lievemente di un’ innecessaria prosaicità. Comunque più efficaci, rispetto a questa sequenza, i due momenti in cui Pasolini sospende la proiezione dei suoi spezzoni per discuterne con studenti africani residenti a Roma. Anche qui esplode il contrasto tra il furore messianico dello scrittore-regista e la medietà dei suoi interlocutori. L’idealizzazione dell’Africa, sentita nella sua unità del passato da mantenere e del futuro da costruire, viene travisata dagli studenti: percepita come qualcosa di cui adontarsi o vergognarsi, e comunque da respingere. Il dramma latente è che la tensione ideale e poetica di Pasolini non sfiora più di tanto quelli che nella realtà dovrebbero incarnarne salvificamente il progetto. È come se «il sogno di una cosa» si intingesse delle rughe della sua inattualità. Va da sé che il film ne acquisti in ricchezza: sul suo spettro stilistico cade il richiamo della storia vera, quel che in altri termini gli studenti dicono e ripetono a Pasolini. Il quale però non si dà la cura di assecondarli. In fondo, nel suo imposto poetico è sempre una diversità essenziale a consentire il recupero dell’utopia e della speranza. Analogicamente ai borgatari di Accattone e de La ricotta, alle plebi sottoproletarie de Il Vangelo, alle “coscienze infelici” di Edipo re, di Porcile, di Affabulazione, l’Oreste intravisto e immaginato nel film da fare è in tutto umanato di negritudine, e non soltanto nel senso che è di pelle scura. L’istanza di futuro arriva agli europei dall’Africa; e l’Africa è la diversità, l’alterità, la fiducia da riconquistare. «Una nuova nazione è nata, i suoi problemi non si risolvono, si vivono... Il futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro, e la sua ansia è una grande pazienza». È il commento che chiude il film, col canto struggente ed epico della Rivoluzione russa. Resta da dire che Appunti per un’Orestiade africana, prodotto da Rai-Tv dietro intervento e mallevadoria di Angelo Romanò, non è mai stato mandato in onda dagli illuminati dell’azienda perché non gradito.
Gualtiero De Santi, Cineforum n. 222, 3/1983

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