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Corpo celeste


Regia:Rohrwacher Alice

Cast e credits:
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher; fotografia: Hélène Louvart; musiche: Piero Crucitti; montaggio: Marco Spoletini; scenografia: Luca Servino; costumi: Loredana Buscemi; interpreti: Yle Vianello (Marta), Salvatore Cantalupo (Don Mario), Pasqualina Scuncia (Santa), Anita Caprioli (Rita), Renato Carpentieri (Don Lorenzo); produzione: Tempesta Film-Jba Production-Amka Films-Rai Cinema in coproduzione con Arte France Cinéma-Rsi Radiotelevisione Svizzera e Srg Ssr Idée Suisse; distribuzione: Cinecittà Luce; origine: Italia-Francia-Svizzera, 2011; durata: 100’.

Trama:Marta ha tredici anni e, dopo dieci anni passati con la famiglia in Svizzera, è tornata a vivere nel profondo sud italiano, a Reggio Calabria, la città dov’è nata. Subito si confronta con un mondo sconosciuto diviso tra ansia di consumismo moderno e resti arcaici. Inizia, così, a frequentare il corso di preparazione alla cresima, cercando nella parrocchia le risposte alla sua inquietudine. Marta è esile, attenta, con un’andatura un po’ sbilenca e una irrequietezza che la fa assomigliare ad una creatura selvatica. Ma ha una grazia speciale, e mentre passa tra gli altri come una piccola fata guarda e sente tutto: non ricorda molto della sua infanzia a Reggio, la città è cresciuta senza nessun ordine, è per lei rumore, resti antichi accanto a palazzi ancora in costruzione e vento, un mare che si intravede vicino e sembra impossibile da raggiungere. Al corso di preparazione alla cresima incontra don Mario, prete indaffarato e distante che amministra la chiesa come una piccola azienda, e la catechista Santa, una signora un po’ buffa che guiderà i ragazzi verso la confermazione. Ma capirà presto che deve cercare altrove la sua strada...

Critica (1):A Cannes non c’erano solo i film di Moretti e Sorrentino. All’interno di una Quinzaine des Réalisateurs quest’anno meno stimolante del solito, c’era anche il film d’esordio di Alice Rohrwacher, sorella minore dell’attrice Alba: si intitola Corpo celeste ed è, a memoria non solo mia, il più bell’esordio cinematografico di una regista italiana. Racconta il contrastato ritorno di una tredicenne a Reggio Calabria insieme alla madre, dopo dieci anni e più passati da emigrante in Svizzera. Un ritorno subito più che voluto (e già questa è una novità per il nostro cinema: il tema degli emigranti di ritorno, e delle emigranti donne, sempre più numerose per la crisi) che qui si trasforma in meccanismo narrativo. Lo sguardo “innocente” di una ragazza costringe lo spettatore a osservare con occhi diversi quello a cui forse non faremmo molto caso: le ritualità collettive, il corrompimento messo in atto dalla modernizzazione (televisiva e non solo), l’intreccio tra “sacro” e “profano”, tra “alto” e “basso”.
Alice Rohrwacher usa così gli occhi dell’adolescente Marta (Yle Vianello) come gli strumenti per una “spontanea” indagine antropologica, non ancora soffocata da certezze o teorie preconcette. Guarda con sorpresa ma anche con amore e soprattutto innocenza chi dovrebbe diventare la sua nuova “famiglia”, il suo nuovo “gruppo”, a cominciare da quello dei cresimandi a cui Marta viene iscritta “perché è il modo migliore per farsi nuove amiche”.
E proprio per conservare integra la forza di questo sguardo non ci viene detto niente di davvero concreto sulle ragioni del suo ritorno a Reggio, non ci spiegano i legami con la comunità, le necessità economiche (la madre lavora in un panificio), persino le coordinate geografiche restano vaghe (è Reggio ma potrebbe essere ovunque nel Sud). Dobbiamo limitarci a immaginare.
Quello che interessa alla regista e al film è il modo in cui le persone interagiscono tra di loro, si pongono rispetto ai fatti concreti della vita quotidiana: la parrocchia più che la Chiesa, il catechismo più che la religione, il voto più che la politica. È qui, sulle cose di tutti i giorni, che si posa lo sguardo di Marta e con lei quello dello spettatore, alla scoperta di una mutazione che dall’interno non saremmo probabilmente capaci di osservare ma che agli occhi di un “alieno” (come in effetti è Marta) appare chiara e incontrovertibile.
Nessuno altrimenti si scandalizzerebbe del fatto che la preparazione alla cresima avvenga per quiz multiple choice, che il “ballo delle vergini” (per accogliere il vescovo) scimmiotti quello di qualsiasi siparietto televisivo, che la fede dei catecumeni si possa esprimere cantando «Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta» oppure che don Mario sia più preoccupato di assicurare l’adesione dei parrocchiani al candidato della Curia (ci sono in vista delle elezioni regionali) che di verificare la religiosità dei ragazzi...
Corpo celeste (che nel titolo cita un libro di Anna Maria Ortese, ma per affinità di sentire non per qualche tipo di ispirazione narrativa) diventa così il ritratto di una piccola comunità umana e dei suoi mutamenti antropologici e culturali, raccontati più per contrasti che per accadimenti romanzeschi. La parrocchia e le lezioni di religione con la loro fasulla modernità si contrappongono al degrado delle periferie che Marta osserva dal terrazzo di casa; il calore e la concretezza materna (affidati a Anita Caprioli) risaltano ancora di più di fronte alla scoperta fragilità dell’insegnante/perpetua Santa (l’attrice dilettante Pasqualina Scuncia, un’autentica rivelazione); la religione come carriera e professione di don Mario (Salvatore Cantalupo) finiscono inevitabilmente per entrare in conflitto con la spiritualità ruvida ma sincera di don Lorenzo (Renato Carpentieri).
Così che alla fine il percorso di Marta non può essere che quello di un progressivo “allontanamento”, verso un mondo meno contaminato anche se più sporco e povero (la fiumara e i ragazzi che vi giocano è citazione diretta del precedente lavoro della regista, il corto che faceva parte di Checosamanca) ma anche di un avvicinamento istintivo e urgente verso una spiritualità vissuta e non imposta (l’attraversamento finale della pozza d’acqua sembra rimandare al battesimo nel Giordano degli apostoli). Un percorso che la Rohrwacher filma con un pudore pari alla maturità dello stile, con una macchina da presa molto mobile ma mai gratuitamente ondivaga e che scegliendo con istinto sicuro quello che è veramente importante da inquadrare obbliga lo spettatore a prendere una posizione di fronte alle cose. Come fanno gli occhi di Marta e come dovrebbe fare sempre il cinema.
(Paolo Mereghetti, corriere della sera.it, 26/5/2011)

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