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Hannah


Regia:Pallaoro Andrea

Cast e credits:
Sceneggiatura: Andrea Pallaoro, Orlando Tirado; fotografia: Chayse Irvin; musiche: Michelino Bisceglia; montaggio: Paola Freddi; scenografia: Marianna Sciveres; costumi: Jackye Fauconnier; suono: Guilhem Donzel; interpreti: Charlotte Rampling (Hannah), André Wilms (marito di Hannah), Stéphanie Van Vyve (Elaine), Simon Bisschop (Nicholas), Jean-Michel Balthazar (Chris), Luca Avallone (Albert), Fatou Traore (insegnante di recitazione); produzione: Andrea Stucovitz, John Engel, Clément Duboin per Partner Media Investment, Left Field Ventures, Good Fortune Films, con Rai Cinema, in coproduzione con To Be Continued; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Italia-Belgio-Francia, 2017; durata: 95’.

Trama:La routine a cui Hannah cerca disperatamente di aggrapparsi, tra lavoro, corsi di teatro e piscina, va in pezzi all'indomani dell'arresto del marito. Perché è stato incarcerato? Perché la donna si nasconde dai vicini? Perché suo figlio non vuole avere niente a che fare con lei e le impedisce di vedere il nipote? Gli indizi per rispondere a questi dilemmi sono lì, nascosti nei silenzi e disseminati tra le pieghe di un dolore inespresso, ma le risposte sono in realtà del tutto marginali. Al centro di ogni scena c'è Hannah: il suo mondo interiore esplorato senza giudizi morali, un crollo che traspare con inquietante compostezza dai gesti, dagli sguardi, dai brevi momenti di cedimento.

Critica (1):Tra i quattro titoli italiani selezionati in concorso a Venezia 74, è arrivato in questti giorni nelle sale Hannah di Andrea Pallaoro, protagonista assoluta Charlotte Rampling che al Lido ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Pallaoro, che è una «scoperta» della Mostra dove ha presentato, nella sezione Orizzonti, il suo sorprendente film d’esordio, Medeas, è italiano ma ha studiato in America, dove vive tra Los Angeles e New York, e fa parte di quei registi italiani – come Jonas Carpignano il regista di A Ciambra, – cresciuti lontano dai «diktat» che regolamentano l’immaginario in Italia. La differenza c’è, ed è molto evidente, lo avevamo già visto nel suo primo film, a cui questo è legato nel progetto ideale di una trilogia femminile – il terzo capitolo è in preparazione, col titolo di Monica. Non si tratta solo di paesaggi – periferie napoletane o romane a parte è soprattutto una questione di sensibilità rispetto alle immagini, al rapporto con la scrittura in una ricerca che mette al centro la messinscena in antitesi alla tendenza (nostrana ma non solo) di sottometterla alla sceneggiatura.
Hannah è la protagonista – Charlotte Rampling, recitazione silenziosa con ogni nervo e muscolo – una donna di cui sappiamo poco, dai gesti che ce la raccontano nelle prime sequenze cogliamo una vita fatta di piccole abitudini quotidiane: il lavoro di governante nella casa di una ricca signora il cui figlio piccolo è non vedente, i corsi di teatro terapeutico, una specie di autoanalisi di gruppo dove i partecipanti provano a liberare, attraverso i testi letti, le emozioni trattenute, la casa, la cena consumata senza troppe parole insieme al marito, anche lui anziano, il cane adorato, la buonanotte di una consuetudine insieme. Però subito dopo accade qualcosa, il marito finisce in prigione, non sappiamo perché, e Hannah all’improvviso si ritrova da sola. Che cosa ha fatto di così terribile l’uomo da rendere anche la vita della moglie una sorta di carcere di massima sicurezza della solitudine?
Messa al bando dalla collettività, osservata con astio da pochi vicini di quel condominio anonimo come può essere in qualsiasi periferia d’Europa, estranea nella sua stessa casa di cui non riconosce più gli spazi, rifiutata dal figlio, la donna sembra disperatamente attaccarsi alle sue abitudini, unico appiglio alla precarietà emotiva e esistenziale che rischia di sopraffarla. E questo segreto, il fuoricampo degli eventi, o della realtà, prende forma nella sua sofferenza. Capiamo quasi subito, anche se non viene mai specificato, che l’accusa nei confronti dell’uomo è di pedofilia,ha fatto qualcosa ai bambini degli altri, come una voce anonima di madre urla nella testa di Hannah, o ai propri figli. Non lo sappiamo, Pallaoro lascia a noi la decisione, quasi chiedendoci come al personaggio di assumere un punto di vista che non deve essere per forza empatico.
La sua sfida, che comincia dalla scelta di girare in 35 millimetri, è raccontare con la regia, e per questo si affida all’attrice, Rampling, che lo asseconda in piena complicità: è il suo corpo, messo a nudo, il terreno di una battaglia esistenziale, dello scontro tra la rimozione e l’evidenza,tra il rifiuto della responsabilità e il peso insopportabile della sua assunzione.
Ne seguiamo le incertezze, le fantasie, le paure, i brevi istanti di sollievo. Scrutiamo dentro a qualcosa che fa paura anche solo intravedere, perché le «vittime», o presunte tali, del marito non le vediamo mai, rimangono invisibili, presenze disegnate dall’esterno, dal rifiuto che circonda Hannah marchiata quasi come fosse un’appestata.
Il movimento narrativo sono i suoi passi che disegnano un mondo esterno impalpabile e lontano, un rimosso che la schiaccia pesante come la balena spiaggiata davanti ai suoi occhi. Non ci sono però «trucchi» emotivi, la tensione è nello scollamento tra la donna e ciò che la circonda, è geometria di spazi, tempo, senza giustificazioni in quello che appare, anche quando imperfetto, un vero progetto di cinema.
Cristina Piccino, il manifesto, 16/2/2018

Critica (2):Tutto sul corpo di Charlotte Rampling. Con la macchina da presa addosso ad Hannah, una donna che, dopo l’arresto del marito, sta perdendo la sua identità e non accetta la realtà che la circonda. Quasi una frattura tra lei e l’esterno. Che possono essere gli altri personaggi o anche gli ambienti che attraversa. Con lo sguardo spesso chiuso e assente, in una deambulazione continua dove il suo corpo appare come entità autonoma rispetto al resto. Dalla crisi della ragazza sulla metro per essere stata lasciata al ragazzo che balla sulla musica del violino, tutto attorno a lei appare impermeabile.
Charlotte Rampling, Coppa Volpi al 74° Festival di Venezia, riempie lo schermo. Lasciando pochi residui ai margini dell’inquadratura. Dove entrano soprattutto i rumori della strada, o quelli della voce. In un set che appare continuamente aperto. Non solo alle performances delle prove teatrali ma anche a quello delle riprese di un film. C’è un progressivo sgretolamento. In un cinema fin troppo consapevole. Nelle ripetizioni, nei silenzi. Di un’assenza che diventa sempre più drammatica. In un muro invisibile ma dove la protagonista sembra essere chiusa in uno spazio che diventa sempre più stretto. Dove i rifiuti diventano laceranti (il figlio che le impedisce ad andare alla festa del nipote, la tessera del nuoto scaduta).
Hannah potrebbe essere quasi una reincarnazione di Christina del film d’esordio di Pallaoro, Medeas. Entrambe intrappolate con i propri demoni. Senza via d’uscita. Le tracce dell’alienazione si rivelano in un brevissimo frammento con la nebbia che sembra arrivare da Antonioni. Dove il minimalismo diventa stile. E gli sfondi sono rappresentati da tv accese, lavandini aperti, buste con le foto. O da un punto di vista sonoro dai rumori della metro, dei vicini del piano di sopra. La ‘morte al lavoro’. In un’interpretazione della Rampling anche disturbante, di un cinema che è rigoroso, coerente, ma tutto chiuso nella sua struttura. Non sembrano esserci molti spiragli per possibili letture perché si fa fatica a trovare le aperture. Dove anche un pianto disperato resta lì, dietro una porta mezza aperta che è come se poi si chiudesse per sempre.
Simone Emiliani, sentieriselvaggi.it, 15/2/2018

Critica (3):II secondo lungometraggio di Pallaoro è un'intensa opera non "romanzesca" e non esa-speratamente trasparente nel rappresentare personaggi e situazioni (...). Con pudore scruta la sofferenza di vivere i propri sentimenti di una donna costretta ad affrontare le esasperanti contraddizioni che esplodono col deflagrare delle coesioni e degli equilibri nella sua famiglia. Un'esperienza diffusa, indubbiamente, che presenta infinite modulazioni. Ha spiegato l'autore che il suo intento era di esplorare «il tormento interiore di una donna che non vuole accettare la realtà, intrappolata nel suo senso di lealtà e devozione, paralizzata da insicurezza e dipendenze... Più di ogni d'altra cosa volevo che il mondo la vedesse, percepisse il suo dolore e assistesse allo sforzo di ridefinirsi, da sola.
Hannah è una donna vecchia e stanca. La sua famiglia – il luogo dei suoi affetti, di tanti sacrifici e atti d'amore che avevano dato senso a tutta la sua esistenza– si è dissolta. La narrazione è volutamente non esplicita, si sviluppa con indizi non appariscenti in base ai quali lo spettatore deve sforzarsi di capire: la protagonista e le motivazioni dei suoi silenzi, i sui sguardi attoniti, i suoi disorientamenti, la sua solitudine, il suo crescente spaesamento, il suo accettare senza rancori l'isolamento di una graduale emarginazione per una colpa che non è sua. La sua unica colpa è di continuare ad amare (anche con le menzogne generose di chi non sa fare a meno di continuare ad amare) il marito (il responsabile di tutto, in carcere probabilmente per pedofilia, ma orgogliosamente poco disposto ad ammettere qualche errore ed egoisticamente indifferente alla sofferenza di lei) e il figlio (che probabilmente ha denunciato il padre) che la respinge come non fosse più sua madre.
Non si possono affrontare gli ultimi anni della propria vita senza avere qualcuno con cui parlare e a cui parlare. Cresce in lei la coscienza di un progressivo inaridimento (si libera anche del cane, l'unica presenza viva della casa), incarcerata in un presente senza calore e significati, nell'infinita sofferenza di non sentirsi più amata, respinta, rifiutata. Hannah è anche la sua memorabile protagonista Charlotte Rampling, con i suoi silenzi, i suoi sorrisi appena accennati, con le sue rughe e il corpo avvizzito. Quel corpo che dagli anni Settanta è un'icona erotica della storia del cinema e non solo. Un film inquietante e inconsueto, che disorienta perché parla allo spettatore soprattutto attraverso le immagini, gli sguardi, i silenzi, I'anonimità di chi si incontra e il progressivo rinserrarsi in sè della protagonista.
Gianluigi Bozza, Cineforum n. 568, 10/2017

Critica (4):
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