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Disengagement - Disengagement


Regia:Gitai Amos

Cast e credits:
Soggetto: Amos Gitaï, Marie-José Sanselme; sceneggiatura: Amos Gitaï, Marie-José Sanselme; fotografia: Christian Berger; musiche: Simon Stockhausen; montaggio: Isabelle Ingold; scenografia: Tim Pannen, Eli Zion, Emmanuel de Chauvigny; costumi: Moïra Douguet; effetti: Phillipp Sauermann; interpreti: Juliette Binoche (Ana), Liron Levo (Uli), Hiam Abbass (Hiam), Jeanne Moreau, Dana Ivgy (Dana), Asia Argento, Israel Katorza, Uri Klauzner, Tomer Russo, Barbara Hendricks; produzione: Agat Films & Cie-Agav Films-Agav Hafakot-Canal+-Pandora Filmproduktion-R&C; origine: Francia-Germania-Israele-Italia, 2007; durata: 115'.

Trama:2005. Ana da venti anni ha lasciato Israele, la terra in cui è nata, per andare a vivere in Francia insieme a suo padre. Quando lui muore, Uli, il suo fratellastro israeliano che non vede da tanti anni, arriva per assistere alle esequie. Ana, dopo tanti anni, viene scossa da un'ondata di ricordi e di nostalgia e decide di ritornare in Israele per rivedere la figlia da cui si è separata alla nascita. Dopo un lungo viaggio in automobile, treno e nave, i due fratelli si ritrovano davanti al caos e all'emozione del ritiro forzato imposto dai militari ai coloni israeliani residenti a Gaza. Tutto è cambiato.

Critica (1):L'intreccio di storie e simboli, come sempre in Gitai, è fitto e complesso, oltre che intelligentemente dissimulato: due fratellastri, Uli e Ana, che si riabbracciano in occasione della morte del padre (il genitore in comune), in una casa parigina sfatta e provvisoria, tutta occupata dal cadavere e dal rito, e che ritrovano al tempo stesso la dissimmetria del loro rapporto (l'amore passionale di Ana contro l'affetto di circostanza di Uli); una figlia abbandonata vent'anni prima e che adesso, libera dell'ultimo legame che sembra motivarne la stabilità, Ana decide di voler incontrare, facendole visita nel kibbutz in cui è nata e cresciuta (scoprirà dall'avvocato di famiglia, Jeanne Moreau, che il padre ha mantenuto in segreto i contatti con la ragazza); Uli costretto a fronteggiare lo sgombero dei coloni della striscia di Gaza (siamo nell'agosto del 2005), a capo di una "sacra rappresentazione" (così la descrive Gitai) che per tutti, e er l'uomo in particolare, ha il sapore ella guerra fratricida: cacciare dalle proprie case, prima con le armi della persuasione, poi, scaduti i termini, con quelle cariche di pallottole, gli israeliani, il suo popolo.
I confini sono fragili e sovrapposti, e nella scena più bella del film - un classico e magistrale piano sequenza, la "misura" preferita di Gitai - i movimenti, di corpi e affetti, si confondono e sovrappongono, e mentre da una parte i cittadini invocano il Signore contro lo sgombero, dall'altra gli altoparlanti intonano l'ordine, meno sacro ma più decisivo, della politica territoriale; mentre da un lato Ana scappa assieme alla figlia, in fuga verso non si sa bene dove, dall'altro Uli muove verso di loro, rendendo la "cacciata" una questione di famiglia. Le storie e i destini si avvicinano fino all'inverosimile, simboleggiando il destino di tutti nel rapporto di due fratelli che gli eventi continuano a separare e avvicinare, e a collocare temporaneamente su fronti opposti; ma, appunto, e come già in passato, Gitai non vuole e non può rappresentare la guerra come una questione "pulita" di eserciti in guerra e di politiche divergenti, ma come un confuso groviglio di corpi, storie, facce e biografie intrecciate e indistinguibili, dove proprio la fratellanza appare il principio messo maggiormente in pericolo e infangato. Una fratellanza che la regia di Gitai, mai come questa volta plastica e statuaria, rappresenta proprio nell'urto dei piani allineati dalla prospettiva o dalla storia, nelle somiglianze di "genere" oltre la forma, nelle rime interne tra eventi piccoli e grandi, nelle facce che esprimono tutte lo stesso sentimento di terrore e sbigottimento.
A chi ha rimproverato a Gitai - e sono stati in molti - un eccesso di "messa in scena" a dispetto di una rappresentazione più documentaristica degli eventi, sfugge non soltanto il senso profondo del suo cinema (dove il piano sequenza non è mai stato "questione di realtà", come predicavano gli scritti di Bazin, ma luogo di massima espressione della verità della finzione) ma anche, nel caso di Désengagement, la volontà del regista di tenere insieme, un po' magicamente - tra l'apologo e la favola - le forze centripete e le spinte differenti e i destini lontani cui la realtà sottopone uomini e donne, fratelli e stranieri. Perché in quel groviglio di cose, magari anche conflittuali, sta da sempre, per Gitai (che si ritaglia questa volta anche un piccolo ma decisivo ruolo di protagonista), non un principio di morte e distruzione, ma un principio di ordine e di vita. Il film, non a caso, si apre sull'immagine di Uli (Liron Levo, attore feticcio del regista) che parla con una passeggera conosciuta poco prima, sballottati dal movimento di un treno in corsa (il controllore è italiano); parlano tante lingue diverse, i loro passaporti sono quadri cubisti di nazioni distanti che convivono in loro, e come fosse un destino inevitabile le loro vite sono fatte di viaggi e passaggi . E in viaggio - Uli accanto alla sorella (Juliette Binoche: per quelli a cui piace, brava, per chi non la sopporta, più insopportabile che mai) - si snoda il film, da Parigi a Gaza in treno traghetto macchina, pregando e gridando, perché far entrare Ana nei territori è ormai tardi. E poi Uli ha la sua missione da compiere, abbandona la sorella per ritrovarla solo più tardi dall'altra parte", disperata e in lacrime, perché gli ordini imposti dall'uomo - caricare forzatamente i coloni "resistenti" sulle corriere che li porteranno via - le hanno strappato, forse per sempre, la figlia appena ritrovata, rilanciando all'infinito il suo viaggio di "conquista". La casa fatiscente e labirintica vista all'inizio torna alla fine come il segno di un'oscura predestinazione: per Ana e Uli - e per molti altri come loro - non c'è ordine e stabilità, le città sono tutte uguali e le lingue intercambiabili, e la diaspora è questione genetica, più che culturale. Il cinema di Gitai fa un passo avanti ma torna sempre lì: al problema della terra come luogo e dell'identità come "casa", al conflitto tra ragioni di sangue, ragioni politiche, ragioni religiose. Désengagement aggiunge un capitolo prezioso alla via crucis che il regista si è incaricato di disegnare di film in film, con gli occhi aperti sulla realtà delle cose e sulla cronaca in tempo reale ma alla ricerca di un racconto capace di sollevare la storia della piattezza degli eventi. Perché il conflitto israelo-palestinese non deve restare una questione privata tra due popoli perennemente in lotta: il "disimpegno" morale fa più paura delle bombe.
Luca Malavasi, Cineforum n. 469, 11/ 2007

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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