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Marcia trionfale


Regia:Bellocchio Marco

Cast e credits:
Soggetto
: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Sergio Bazzini, Marco Bellocchio; fotografia: Franco Di Giacomo; musiche: Ennio Morricone, Nicola Piovani; montaggio: Sergio Montanari; le canzoni "Sabato Pomeriggio" di Baglioni-Coggio, cantata da Claudio Baglioni, e "Tornero’" di Polizzi-Natili-Cog; scenografia: Amedeo Fago; interpreti: Nino Bignamini (Guancia), Patrick Dewaere (Ten. Baio), Miou Miou (Rosanna), Franco Nero (Asciutto), Michele Placido (Passeri); produzione: Clesi Cinematografica (Roma)-Renn Production (Parigi)-Lisa Film Gmbh (Monaco); origine: Italia, 1976; durata: 125'.

Trama:Passeri, neolaureato borghese del Sud, benché abbia fatto di tutto per essere ammesso all'Accademia, deve adempiere i dodici mesi di leva nella caserma reggiana "Setvago", diretta dal capitano Asciutto che vuol farne un “buon soldato”, un “vero uomo”. Il giovane è timido e a disagio nell'ambiente, brutalizzato dal superiore che però – affetto da crisi depressive – ne fa il proprio confidente e, senza saperlo, l'amante della moglie.

Critica (1):Il soldato Paolo Passeri, laureato in lettere, nonostante le diverse domande inoltrate per entrare nell’Accademia Ufficiali, è costretto ad adempiere i dodici mesi di leva nella caserma reggiana a "Stevago", diretta dal cap. Asciutto. Il giovanotto, timido e naturalmente distinto, si trova a cattivo agio nelle solite difficoltà degli istruttori caporali e sergenti dalla voce tonante, nonché con il branco di anziani che in breve lo gratificano di tutte le villanie possibili. L’Asciutto, a sua volta, si trova alle prese con una galoppante nevrosi dovuta, oltre che alla concezione della vita militare (nella quale dovrebbe trasformare delle bambole in "uomini"), ai capricci e vizi della giovane moglie Rossana. Scelto il Passeri come pupillo e cavia, il capitano lo brutalizza e, in tal modo, ne conquista l’amicizia. Paolo diviene il confidente del superiore, la spia prima e l’amante poi della moglie. Ma il capitano, disperato per l’abbandono da parte di Rossana, si fa uccidere da una sentinella notturna. A un primo esame Marcia trionfale può far pensare che ci si trovi davanti al giustapporsi, non realizzato, di due diversi film. Un "documento" quasi militante, d’impressionante verità ed esattezza sulla vita di caserma e l’istituzione militare, preponderante soprattutto nella prima metà dello svolgimento; e la vicenda "privata" dei tre protagonisti (il capitano Asciutto, sua moglie Rosanna e la recluta Passeri) che balza al centro dell’opera nella sua seconda fase, segnandone abbastanza oggettivamente la crisi. Tale distinzione, pur contenendo un’innegabile porzione di verità, non può pretendere d’assurgere a unico momento analitico del film. A favore del suo netto prevalere ha giocato un duplice, radicato sottinteso pregiudiziale: l’attendersi che Marcia trionfale dovesse in ogni caso rappresentare l’ulteriore anello dell’"itinerario attraverso le istituzioni" di Bellocchio nel senso preconizzato dalla lettera di Pasolini; e che dovesse comunque, dato l’argomento (neppure "il soggetto" che è già tutt’altro) e il recente passato di militanza diretta dell’autore, rappresentare una sorta di "film politico" in chiave, sia pure con qualche anno di ritardo, "proletari in divisa", che incentrasse il proprio discorso sulle "lotte dei soldati". Di Marcia trionfale, insomma, come già di altri, diversi film importanti del passato, da Senso al Gattopardo, si sapeva per certo e in anticipo cosa sarebbe stato o, almeno, avrebbe dovuto essere.
Aspettative deluse. Certo, il film concede largamente in tale direzione, e con puntiglio: quando ci viene presentato per la prima volta a distanza ravvicinata, dopo l’impeccabile esibizione podistica, il capitano Asciutto è intento a ritagliare – con quanta plausibilità? – dal "Corriera, della Sera" il notissimo articolo di Canestrini su I poteri del capitano secondo la "bozza Forlani" del nuovo regolamento di disciplina, comparso non troppe settimane prima dell’uscita del film. Poche sequenze dopo, rimproverando una sentinella, gli rammenterà con durezza che "questa caserma è situata al centro di una zona altamente sovversiva": ma che la vicenda sia immaginata a Reggio Emilia, a dire il vero, lo apprendiamo solo dalle cartoline in vendita presso lo "spaccio-truppa" della caserma "Stevago". Infatti la valenza dei raccordi fra microcosmo-caserma e cosmo esterno viene di fatto, ad onta degli opposti intenti, abbastanza trascurata, nonostante rapide incursioni per lo più dedicate ad appendici occasionali – ma "inevitabili": e questo vale a potenziare una sensazione di "chiusura" e di oppressione anche fisica – dell’ambiente militare: viali di puttane e invertiti, pizzerie e bar, oltre all’appartamento di Asciutto, la garçonnière di Baio e il supermercato dove si sfoga la cleptomania di Rosanna.
Allo stesso modo, la pur suggestiva sequenza del refettorio che rinvia, in quanto occasione per qualificare ideologicamente i personaggi, ad analoghi passaggi di Nel nome del padre può considerarsi ambivalente. Si pensi alla lunga e volutamente assurda attesa in fila sotto la pioggia, con la gazzarra-ammutinamento dopo l’annuncio della fine delle bistecche, al prolungarsi della sadica faida perpetrata dai "nonni" e infine al culmine rappresentato dallo sciopero del rancio inconsapevolmente propiziato dal gesto individuale e opportunistico di Passeri con il supergrottesco allontanamento coatto dell’ufficiale di picchetto, che sceglie un incedere contegnoso, mentre è a sua volta, ciclicamente, esposto alla pioggia. Il brano costituisce indubbiamente il momento del film più assimilabile alla domanda della "poetica PID", ma per vari risvolti (da non trascurare il rapido "comizio" che un giovane soldato "estremista" tiene, polemizzando con l’ufficiale e "fomentando" l’occasionale presa di posizione dei commilitoni) resta abbastanza isolato in un contesto che privilegia la "documentazione" rispetto alla polemica esplicita.
In conclusione, il film, pur risultando certo impensabile a monte della saggistica specifica rapidamente proliferata negli ultimi anni dei diaristi della vita di caserma e della pubblicistica dei gruppi e delle aggregazioni politiche, non ambisce a costituirne, nei propri limiti peculiari, né un approfondimento né uno sviluppo, indipendentemente dall’impressione contraria originata dalla sua prima metà. Sarebbe del resto, inutile aggiungerlo, del tutto scorretto sminuirlo aprioristicamente per questo, pretendendo di predeterminare con rigidità normativa ambito e aspirazioni. Tuttavia a questa prospettiva Marcia trionfale concede più di quanto non appaia. La fedeltà della ricostruzione, minuziosa e assolutamente priva dì approssimazione e omissioni, della "vita di caserma" (e poco importa che Bellocchio si rifaccia magari più alla situazione di qualche anno fa, che all’odierna) è forse il massimo pregio-limite del film. Denota infatti nettamente il rigore cui la ricerca di Bellocchio – e dello scenografo Amedeo Fago, il cui apporto già era determinante in Nel nome del padre – s’è attenuata. Ma è sintomo inquietante, sotto il profilo stilistico, poiché documenta una forte accondiscendenza del regista verso quelle contraddittorie propensioni naturalistiche, ora vittoriosamente esorcizzate pur con qualche incontrollato sprazzo (I pugni in tasca), ora represse in maniera programmatica e non senza note fuori misura (La Cina è vicina), ora congelate nella stilizzazione (appunto Nel nome del padre), ma altrove lasciate disastrosamente erompere e prevalere (Discutiamo, discutiamo, appunto, ovvero Sbatti il mostro in prima pagina). Fin dalla sequenza che precede i titoli di testa, la messa a fuoco del mondo della caserma risulta di un’aderenza sbalorditiva, assolutamente senza precedenti (il cinema italiano, del resto, non a caso, ha sempre ignorato tale ambiente, escludendo sporadici filoni di sconfinamento della commedia popolare negli anni Cinquanta, ovvero più recenti sottoprodotti alla Buttiglione e ulteriori contraffazioni). L’impatto emotivo, pur raffrenato entro certi limiti dalla regia, è agghiacciante e carico di tensione. I caporali "istruttori" delle estenuanti ore di "addestramento formale", i sottufficiali arroganti e totalmente disumanizzati preposti alle "adunate" liberi uscenti, gli ufficiali subalterni, sprofondati nella melma di un microcosmo di alienazione e di frustrazione, costituiscono i supporti angosciosi del nuovo mondo in cui le reclute sono costrette a subire un processo di spossessamento mentale e reificazione materiale, in alcuni casi non del tutto reversibile. In questo ambito, dall’apertura stessa, la presentazione del soldato protagonista, Paolo Passeri (cui Michele Placido devolve un’interpretazione in chiave apertamente naturalistica – Bellocchio ha sempre rivendicato, del resto, la deliberata "tradizionalità" del proprio far cinema – ma d’inedita e rimarchevole efficacia mimetica) punta manifestamente al conseguimento d’una dimensione di tipicità esemplare. L’aver fatto dei personaggio un piccolo borghese del Sud, laureato ma bollato dall’emarginazione culturale oltre che dalla disoccupazione inevitabile, restituisce tutt’intera una programmaticità significante: le telefonate furenti alla madre alla ricerca della "spinta" e del "posto", quale che sia; la consultazione sistematica dei giornalini parassitari proliferati sul terreno di coltura della disoccupazione giovanile prorompente; le conversazioni in merito, ad assoggettamento avvenuto da parte del superiore, con la moglie di Asciutto, considerando addirittura l’eventualità d’intraprendere la carriera militare, dopo le disperate ripulse iniziali.
Nuccio Lodato, Marco Bellocchio, Mozzi, 1977

Critica (2):Attraverso i ritratti di tre oblique moralità, Bellocchio ci dà (…) un film in cui l'ambiente, pur radice e riverbero di sdegni, è soltanto la cornice d'una denuncia. In primo piano c'è un confronto di caratteri che è insieme metafora della storia e analisi della realtà. Più esattamente il conflitto fra l'uomo forte e violento, che fa consistere la virilità nel dominio e del coraggio fisico, e l'intellettuale riflessivo, sensibile e di buone maniere, che nasconde la pavidità dietro la ragione e i costumi civili.
Sono di fronte, in una caserma italiana, la recluta Paolo Passeri e il capitano Asciutto: un timido laureato in lettere costretto controvoglia al servizio di leva, e un militare di carriera d'indole iraconda, cresciuto nella vecchia idea che sotto le armi si tempri il carattere. Quanto Passeri soffra è immaginabile, perseguitato dai superiori arroganti e fatto oggetto di scherno dai commilitoni più anziani (pur di lasciare la caserma cerca di ammalarsi). Non meno di lui però soffre il capitano, che dopo averlo odiosamente provocato s'infuria vedendolo così remissivo di fronte alle angherie. Per “farne un uomo” perciò lo incita a ribellarsi, addirittura a prenderlo a pugni. Il soldato obbedisce, e ne esce pestato a sangue, ma, pare, guarito. Sentendosi protetto, prende infatti le sue vendette sui compagni, e così si acquista la piena stima del capitano. Che finisce coll'affidargli il compito di pedinargli la moglie, sospettata d'infedeltà. Per rendere servizio al padrone, Passeri si adatta a fare la spia, e accerta che la donna, oltre a incontrarsi di nascosto con un tenente, rubacchia nei negozi. Ma quando lei gli sorride, e chiede la sua complicità, non sa dirle di no: egli stesso ne diviene l'amante. Il tragitto compiuto dal giovanotto sembra a questo punto completo: partito dalla viltà, Passeri è giunto all'inganno. A tanto lo ha condotto l'educazione aggressiva del suo capitano. Se Asciutto è ora per lui come un padre, come un padre merita di essere tradito. Il soldato finge infatti di restargli devoto, e perciò accetta il disprezzo dei compagni, ma il giorno che la donna scappa di casa e il capitano si dispera, anche Passeri lo abbandona lasciando che muoia ucciso da una sua sentinella.
È importante che Bellocchio, scrivendo il film e realizzandone la messinscena, non prenda partito per nessuno dei protagonisti, contento di frugarli dall'interno e di assumerli come elementi di un dibattito sulla realtà in generale. Ciò conferma che l'opera si definisce nella sua dialettica psicologica molto più che nella demistificazione del militarismo. Marcia trionfale è anche un'analisi della ideologia bellicosa che spesso continua a guidare la vita di caserma, ma è soprattutto una drammatizzazione del rapporto fra autorità e obbedienza, della sfida tra forti e deboli che è sottintesa in ogni “Signorsì”. È il ritratto incrociato, ambientato in caserma per sovrappiù di espressività, di due nevrosi in cui si esprimono la voluttà di autodistruggersi attraverso il rifiuto della carità e l'urgenza di affermare la propria libertà divorando ogni immagine paterna. Nel sottosuolo del capitano Asciutto, che crede di poter plasmare gli uomini educandoli alla sua stessa violenza, e del soldato Passeri che ha acquistato la forza di mettergli le corna, serpeggiano molti spasimi d'attualità: in Passeri fatti ancora più aspri da un'ambiguità che dà luce sinistra a tutto il film. Chi volesse protestare contro il supposto vilipendio dell'istituto militare, dovrebbe perciò guardarsi dall'abbaglio. I luoghi e i personaggi sono qui soltanto i simboli d'una perdita di personalità che è anche un prodotto del codice militare, quando un ufficiale vi trova l'alibi della propria follia, ma che si verifica ovunque si abbiano servi è padroni, vittime e aguzzini.
Se Marcia trionfale lascia talvolta perplessi per l'oltranza con cui descrive i soprusi della caserma (forse agghiaccianti oltre il vero, ma già ricordati più volte dal cinema inglese e americano), quasi sempre invece convince per la duttilità con cui Bellocchio, senza smettere un atto di accusa che congloba ufficiali e soldati, elabora una solida struttura tradizionale, e la arricchisce di angolature moderatamente inquietanti. I profili dei personaggi sono più chiaroscurati di quanto sembri da un riassunto della trama, e nella brutalità di certe situazioni c'è una tensione drammatica in cui si esprime l'angoscia della storia. Film realista, di stile teso e scabro, Marcia trionfale evoca insieme alle violenze inflitte dalla naia l'insulto dell'uomo sull'uomo, portato sul doppio versante .del terrore e della repressione.
L'interpretazione di Michele Placido è molto interessante, tenuta com'è a mezza via fra le lacrime, l'odio e le viltà dell'intellettuale. E superiore alla sua norma è quella di Franco Nero, che lascia cadere una goccia di pietà nelle perfidie e nelle sfuriate del capitano Asciutto. A posto anche Miou Miou, la francesina che schizza con garbo la malinconica figura della moglie del capitano: replica amara, sul fianco femminile, di quella condizione alienante cui conduce il disprezzo degli altri e la paura della propria solitudine. Nodo e specchio di Marcia trionfale.
Giovanni Grazzini, Il Corriere della Sera, 18/31976

Critica (3):

Critica (4):
Marco Bellocchio
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