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1997: Fuga da New York - Escape from New York


Regia:Carpenter John

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: John Carpenter, Nick Castle; fotografia: Dean Cundey; montaggio: Todd Ramsay; musica: John Carpenter, in associazione con Alan Howarth; effetti speciali: Pat Patterson, Eddie Surkin, Gary Zink; costumi: Stephen Loomis; interpreti: Kurt Russell («Snake» Plissken, «Iena» nella versione italiana), Lee Van Cleef (Bob Hauk), Ernest Borgnine (Cabbie), Donald Pleasence (il presidente), lsaac Hayes (il duca), Season Hubley (Maureen), Tom Atkins (Rehme), Charles Cyphers (segretario di stato), Harry Dean Stanton («Brain», «Mente» nella versione italiana), Adrienne Barbeau (Maggie), Joe Unger (Taylor), Frank Doubleday (Romero), John Strobel (Cronenberg), John Cothran jr., Garrett Bergfeld, Joel Bennett (zingari), Richard Cosentino (zingaro di guardia),Vic Bullock, Clem Fox, Tobar Mayo (indiani), Nancy Stephens (hostess), Steven Gagon, Steven Ford e Michael Taylor (uomini dei servizi segreti), Lonnie Wun (zingara con la bandana rossa), Dale House (primo pilota elicottero), David R. Patrick (secondo pilota elicottero), Bob Minor (sergente di guardia), Wally Taylor (controllore, James O'Hagen (operatore al computer), Robert John Metcalf (zingaro), James Emery (poliziotto a cavallo), Tom Lillard (sergente di polizia), Borah Silver (direttore del teatro), Tony Papenfuss (assistente in teatro), John Diehl (punk), Carmen Filpi (Bum), George «Buck» Flower (ubriaco), Clay Wright (terzo pilota di elicottero), Al Cerullo (quarto pilota elicottero), Ox Baker (Slag); produzione: AVCO Embassy Pictures, International Film Investors, Goldcrest Films International; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: USA, 1981; durata: 99'.

Trama:Nel 1997 New York, devastata dalla delinquenza, viene trasformata dalle autorità in una enorme prigione dalla quale nessuno può fuggire, pena la morte. Qui dentro, in un quartiere dove domina il Duca con la sua banda, cade l'aereo presidenziale dirottato da imprecisati terroristi. Chiuso nella sua capsula protettiva, c'è il presidente degli USA che dovrebbe raggiungere gli altri "grandi" del mondo. L'incidente fa si che il presidente venga catturato e tenuto in ostaggio dalla banda del Duca, allo scopo di ottenere la libertà. Il capo della polizia pensa allora di utilizzare il feroce ma abile Jena Plissken, un eroe di guerra carico di condanne. Jena ritornerà con la fedina penale pulita se riuscirà a riportare in salvo il presidente e i documenti segreti, soprattutto un nastro magnetico registrato che ha con sè. Ha solo ventiquattro ore di tempo e, per sommo ricatto, gli hanno messo nel sangue una micro-bomba che gli farà esplodere le arterie se non tornerà indietro nel tempo previsto. La lotta contro i minuti, mentre risuonano i tic tac dei calcolatori elettronici, si svolge in uno scenario crudele e fatiscente: Jena passa da un ambiente all'altro, ferito, battuto, al limite delle risorse fisiche, ma alla fine ce la fa. Il presidente allo scadere fatidico delle ore compare in TV per trasmettere il suo messaggio di pace eleborato con il concorso di scienziati, ma dagli altoparlanti si sprigiona una canzonetta. Jena disilluso ha sostituito il nastro.

Critica (1):Ci sono film che occupano un'epoca perché entrano in contatto con correnti sotterranee che circolano al di fuori di qualsiasi volontà espressa dall'alto. Sono film eccentrici, che rompono un equilibrio preesistente e riescono a imporne uno nuovo. A volte non è nemmeno necessario che riscuotano un grande successo di pubblico, a volte invece generano imitatori e proseliti. A volte rielaborano semplicemente idee che già stanno circolando organizzandole in modo diverso, a volte sono invenzione pura e semplice su tutti i campi. I film che segnano un'epoca, però, non sono quelli che appartengono alla storia privata di una persona. Sono quelli che tanti anni dopo continuano a essere i film che hanno segnato un'epoca, e lo hanno fatto per tante persone. Sono film che hanno un Dna anomalo, che evocano con un solo taglio di inquadratura quel momento e quello stato d'animo. Sono film che mantengono intatta la loro capacità di stupire, che rivisti anche mille volte riservano sempre qualche piccola (o grande scoperta), qualche sorpresa, qualcosa che adesso si crede di poter meglio inquadrare e comprendere, fino alla prossima visione, che sarà ancora una volta sorprendente.
Sono film diversi e spesso non accostabili, o forse si. Paisà, nell'ultimo episodio, racconta che i corpi vivi che cadono in acqua senza un lamento hanno una loro fisicità, un loro rumore che va oltre la musica pompier di Renzo Rossellini: per le persone che hanno vissuto la guerra deve essere stato un momento di storia personale, per tutti gli altri rimane la riflessione di come la vita sia legata alla leggi della fisica ma di come il cinema sappia superarle. Anche Jean Vigo raccontava il sogno di un corpo come la sua immersione dentro un liquido e chiudeva gli anni delle grandi libertà e delle speranze di palingenesi, ormai inscatolate dentro la normalità. L'acqua che stava sotto i ghiacci della carica di cavalleria di Ejzenstejn, invece, è un'acqua ostile e nemica proprio come la guerra che sta per finire. E ancora l'acqua, in questo caso l'acqua marina, è testimone silenziosa del film che Claude Chabrol dedica alla più grande maledizione biblica: che la bestia muoia, che i suoi crimini vengano puniti. Teoricamente poteva sembrare tutto il contrario di quanto stava avvenendo nei ribollenti anni sul finire dei '60, in realtà si ponevano i problemi della doppia morale e della complessità di giudizio che quella generazione allora non si poneva ma con i quali si sarebbe dovuta tragicamente confrontare solo qualche anno più tardi.
Un'acqua mefitica e inquinata racchiude la metropoli per eccellenza, New York. Pochi anni prima, un grande black-out aveva dimostrato (o forse solo fatto sperare) che quel mostro d'ordine e di efficienza capitalistica poteva essere vulnerabile: il futuro scrittore Erri De Luca, che all'epoca scriveva ancora di politica ma conosceva già molto bene i testi biblici, aveva scritto al proposito pagine molto sentite. Nel film in questione, però, New York non è più abitata. È diventata un carcere speciale, una specie di riserva dove in nuovo ordine mondiale ha deciso di contenere tutti coloro che tale ordine rifiutano. Il fatto è che lo stesso nuovo ordine mondiale non ha saputo fare i conti con un imprevisto, paragonabile per gravità proprio al black-out di cui si erano occupate le cronache più recenti. E il prezzo di questa inadeguatezza è piuttosto alto: mettere in circolo, affidare una missione impossibile a un anarchico totale: con i risultati che si vedranno. 1997: fuga da New York, quando è uscito sugli schermi, ha evocato questo mondo e queste situazioni. Ha raccontato che non c'è miglior poliziotto di chi sia stato un ladro, attingendo da mille pagine di letteratura di appendice, ma ha poi consentito che il ladro (anzi, il rapinatore, come abbiamo scoperto tanto tempo dopo) non perdesse la sua anima. Ci ha detto che l'acqua è ormai preda di polluzioni di ogni tipo, ma che esiste anche chi è capace di immergervisi, se necessario, e di uscirne vivo, senza farsi fregare da nessuno. Ha narrato che anche un individualista assoluto, se vuole, può essere antagonista di un sistema che rifiuta. È stato vissuto come una luce di speranza nell'epoca in cui ci si doveva arrendere di fronte al fatto di essere comunque soli, di non avere paraventi collettivi dietro i quali nascondersi per minimizzare le proprie responsabilità. Ha detto che la morale è qualcosa che riguarda il libero arbitrio e con la quale, se si vuole, è possibile fare i conti. Ha proposto un modo più responsabile di vivere (o di non vivere) il proprio antagonismo, spazzando via i possibili alibi.
Avendo poi saputo (ma all'epoca non era così) che John Carpenter ama i western e apprezza Howard Hawks possono venire in mente altre immagini. Per esempio John Wayne che aggrotta impercettibilmente le sopracciglia parlando con Ward Bond e spiegandogli che Ricky Nelson è si curamente molto in gamba perché non ha nessuna intenzione di dimostrarlo. Jena Plissken (ecco un caso in cui la traduzione italiana non è così indegna) discende direttamente da entrambi, forse attraverso il western nostrano evocato invece da Lee Van Cleef (più famoso per Leone di quanto lo fosse per Zinneman) e dal noto surreale dialogo su come il poliziotto debba chiamare il detenuto. In questo senso 1997: fuga da New York è stato considerato dai suoi tanti imitatori italiani (è stato l'ultimo caso in cui il cinema popolare ha cercato di proporre un suo calco rispetto al grande successo americano): in Fuga dal Bronx di Enzo G. Castellari c'è addirittura una soggettiva di una scala a pioli, estremo esempio di quel barocco low budget che oggi viene svilito nella dizione «trash».
Mentre Blade Runner pensa alla filosofia da inserire nel cinema, 1997: fuga da New York porta nel cinema una filosofia di vita; mentre all'orizzonte della narrativa fantastica si affacciavano gli hackers, Jena basa tutta la sua azione sulla fisicità. Fa uso parsimonioso della tecnologia perché tut to sommato la rifiuta, non gli appartiene; propone invece il proprio corpo e la propria persona come agenti centrali dell'azione. Forse proprio per questo nel ruolo ritroviamo l'ex-ragazzo prodigio dei film Disney: una volta bello perché tipicamente wasp, oggi bello perché rifiuta quell'ordine di idee. E probabilmente proprio per questo il ricatto che il potere vuole esercitare su di lui ha origine proprio da qualcosa che viene (con l'inganno) inserito dentro il suo corpo. Per chi ha fatto del rifiuto di ogni condizionamento esterno la regola chiave della propria vita, l'unico punto sensibile
può essere solo qualcosa che stia dentro di lui, che sia entrata nel suo metabolismo. La dotazione di tecnologia che gli viene fornita dai suoi nuovi padroni sparisce dopo poche scene, lasciandolo completamente solo contro il resto del mondo. Deve fare ricorso alle sue sole risorse: ci riesce. Entrerà nella leggenda proprio per quello. Se alla fine distruggerà quel nastro così importante è per ché può permetterselo: ben altre situazioni ci hanno fatto sperare di essere come lui, di essere lui. (...)
Stefano Della Casa, in Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto, John Carpenter, Lindau 1999

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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