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Holy smoke - Holy smoke


Regia:Campion Jane

Cast e credits:
Soggetto
: Anna Campion, Jane Campion; sceneggiatura: Anna Campion, Jane Campion; fotografia: Dion Beebe; musiche: Angelo Badalamenti; montaggio: Veronica Jenet; scenografia: Janet Patterson; effetti: Warren Beaton, Steve Rosewell; interpreti: Harvey Keitel (Pj Waters), Kate Winslet (Ruth Barron), Pam Grier (Carol), Julie Hamilton (Miriam Barron), Tim Robertson (il padre), Sophie Lee (Yvonne), Simon Anderson (Fabio), Leslie Dayman (Bill-Bill), Paul Goddard (Tim), George Mangos (Yani), Samantha Murray (Prue), Austen Tayshus (Stan), Kerry Walker (Puss), Daniel Wyllie (Robbie); produzione: Jan Chapman Film; distribuzione: Cineteca Lucana; origine: Usa, 1999; durata: 114’.

Trama:Ruth Barron, una giovane e bella australiana, va in India in cerca di risposte...e si trova in breve sedotta da un mondo misterioso completamente diverso dal suo. Quando i suoi familiari lo vengono a sapere, immaginano subito il peggio e ingaggiano PJ Waters, un americano specializzato nella lotta contro le sette, perché la riporti a casa. Ma Ruth non sarà un caso di così facile soluzione per lo specialista. La giovane, nella sua ricerca spirituale, rovescia tutta la sua energia contro questo professionista dello spirito e lo guida in uno scontro estremo di volontà e in un gioco di tentazione.

Critica (1):(...) Holy Smoke è un film sorprendente. Una sorta di intreccio di viaggi iniziatici che diventa uno scontro di culture ed una nuova iniziazione ad un modo diverso di concepire l’esistenza.
Ruth (Kate Winslet) è una giovane ragazza australiana che, durante un viaggio in India, è rimasta folgorata dalla forza spirituale di un guru, al punto da decidere di bruciare il proprio biglietto aereo e non tornare più a casa. Una conversione lampo come tante altre, da parte di una tipica adolescente occidentale appena più sensibile della media dei suoi coetanei. Almeno così sembra all’inizio. In realtà il vero viaggio iniziatico comincia quando, con l’inganno, Ruth è costretta dalla sua famiglia a tornare in Australia. Qui ha inizio quella che dovrebbe essere una semplice terapia di ri-occidentalizzazione coatta, una cosa da sbrigare in soli tre giorni da uno specialista pagato a caro prezzo, PJ Waters (Harvey Keitel), e che invece sarà una durissima terapia di gruppo che coinvolgerà il terapeuta più della sua paziente-vittima.
Il ritorno in occidente è vissuto, dalla prospettiva ingenuamente salda come una roccia della ragazza, come un’immersione in un mondo dominato dalla violenza, da assurde finzioni, da una mostruosa quanto interminabile serie di sovrastrutture.
E la sceneggiatura costruisce, con una lucidità veramente crudele, una gigantesca, paradossale, trappola intorno alla sua protagonista, la quale si trova, per il suo bene, attirata con l’inganno (la sua famiglia le fa credere che il padre sta morendo), spogliata dei suoi abiti (dunque della prima, più esterna manifestazione del suo cambiamento: l’abito fa il monaco!), circondata (fisicamente e metaforicamente) da persone minacciose che non fanno che ripeterle che la amano, affidata ad un perfetto sconosciuto e reclusa in una casa nel deserto ad espiare la colpa di essere diventata un essere umano. Intanto, nella sua casa, continua la vita di sempre: i grandi guardano film violenti, i piccoli giocano con armi giocattolo, i ragazzi si ubriacano tutte le sere, le ragazze sperimentano amplessi simulati coi divi del cinema.
Lo scontro tra Ruth e PJ avviene in un isolamento totale. In una casa nel deserto assistiamo a due individui che si studiano, si torturano, finiscono per amarsi. Da una parte c’è la logica tutta occidentale di P.J., fatta di strategia, di attesa, di tutta una serie di mosse precise e mirate, ad ognuna delle quali deve corrispondere un preciso effetto sulla mente di Ruth. Una logica che teorizza programmaticamente l’aggressione e la sopraffazione dell’altro e che considera il fine al di sopra dei mezzi. Dall’altra c’è prima una resistenza ostinata, silenziosa, poi una sorta di resa volontaria e senza condizioni. Ed è proprio quando annulla ogni resistenza che Ruth comincia a vincere la partita, spiazzando completamente PJ, che si trova ad un tratto privato del suo unico strumento: la forza. L’effetto è devastante su entrambi.
In un finale serratissimo, inesorabile, assistiamo alla completa distruzione del personaggio (inteso anche come maschera sociale) di P.J,. che da perfetta materializzazione del mito tutto occidentale di una psicologia blindata e inattaccabile, diventa una figura fragile, ridicola, disperata. Constatato il suo enorme potere, Ruth compie l’ultimo passo, rinunciandovi ancora una volta per soccorrere il suo torturatore e portare a termine il proprio viaggio interiore, trasformando la sua fuga in un ritorno.
Giacomo Daniele Fragapane, Cinema studio

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Jane Campion
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