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Sembra mio figlio


Regia:Quatriglio Costanza

Cast e credits:
Soggetto: Costanza Quatriglio; sceneggiatura: Costanza Quatriglio, Doriana Leondeff, Mohammad Jan Azad; fotografia: Stefano Falivene; musiche: Luca D'Alberto; montaggio: Marie-Hélène Dozo; interpreti: Basir Ahang, Tihana Lazovic, Dawood Yousefi; produzione: Matteo Rovere, Andrea Paris per Ascent Film con Rai Cinema, cooprodotto da Caviar Film, Antitalent, Tangerine Film; distribuzione: Ahora!Film, Ascent Film; origine: Belgio-Croazia-Iran-Italia, 2018; durata: 103’.

Trama:Sfuggito alle persecuzioni in Afghanistan quando era ancora bambino, Ismail vive in Europa con il fratello Hassan. La madre, che non ha mai smesso di attendere notizie dei suoi figli, oggi non lo riconosce. Dopo diverse e inquiete telefonate, Ismail andrà incontro al destino della sua famiglia facendo i conti con l'insensatezza della guerra e con la storia del suo popolo, il popolo Hazara.

Critica (1):Ismail, interpretato dal poeta e giornalista afghano residente in Italia Basir Ahang, è un giovane uomo dai lunghi capelli selvaggi e dal volto antico, scolpito nella pietra, solenne. Vive in Europa con il fratello Hassan, lavora in molti modi, conduce una vita silenziosa, addolorata, ma fiera. È arrivato bambino dall’Afghanistan, per sfuggire alle persecuzioni che si abbattono sul popolo hazara, vittima di genocidio. La cronaca delle giornate figlie della diaspora è interrotta da quelle sue misteriose chiamate al telefono, di là, nel buio, prima solo silenzio, poi un respiro forte, quasi un pianto. È la voce della madre che non sa, non può riconoscere quel figlio perduto bambino. Si è risposata con un uomo che tutto decide, potente.
Pian piano qualcosa si smuove, la voce di lei si fa flebilmente sentire, il fratello decide il patto che Ismail dovrà accettare per rivederla: rientrare in patria attraverso il Pakistan e sposare la donna imposta dal patrigno. Una scelta impossibile per chi ha conosciuto la libertà, una decisione che alla fine Ismail accetta come si tollera il destino. Il ritorno nella terra che l’ha scacciato è un viaggio fisico e mentale, la mutazione è lenta ma visibile, negli abiti, nello sguardo, nell’incontro con una tradizione che in fondo gli è rimasta nell’anima.
Un viaggio a ritroso, un percorso verso la sofferenza del suo popolo, un cammino a perdersi nei riti spietati che aveva creduto di lasciarsi alle spalle. Alla fine, superando clandestinamente il confine con l’Afghanistan, si ritroverà rinchiuso in una casa prigione dove molte donne attendono di essere vendute, deportate. Fra cento volti disfatti dal dolore Ismail saprà riconoscere quello dimenticato della madre? Basterà il suono rauco di un respiro, udito tante volte al telefono, a ricongiungerlo, per destino, per caso, alla sua origine?
Il film di Costanza Quatriglio, presentato al Festival di Locarno, è fatto di impercettibili sommovimenti, di mistero e di ellissi. Nulla è scontato, i silenzi e i suoni della famigliarità dicono più di cento parole esplicative. Il volto di Ismail-Basir entra come una lama nella storia, affonda nel passato di una intera nazione lacerata e violentata. Non c’è bisogno di sapere tutto per “vedere” e intuire tutto. Ogni ferita di guerra è concentrata in questo racconto spoglio eppure pieno di risonanze, dove tutto accade senza digressioni didattiche o esplicative. Siamo con Ismail, con lui, come lui, affrontiamo un viaggio imprevedibile in un mondo che credevamo lontano. E invece è qui, presentissimo, tra noi.
Piera Detassis, ciakmagazine.it, 7/8/2018

Critica (2):Dopo Silvano Agosti e e Martina Melilli il Fuori Concorso della 71^ edizione del Festival di Locarno presenta Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio, la storia straziante di Ismail, scappato dall’Afghanistan da piccolo per sfuggire alla guerra ed alla morte a cui sono destinati quelli che come lui sono di etnia hazara, un popolo perseguitato ormai da oltre un secolo. Discendenti secondo alcuni dell’armata di Gengis Khan, costituivano per molti secoli l’etnia più numerosa di tutto il territorio, mentre adesso sono ridotti ad essere soltanto il 9%, per la decimazione subita per mano dei pasthun alla fine del diciannovesimo secolo, che ne eliminarono più della metà, e la conseguente migrazione per evitare la morte. Altre fonti li considerano legati invece ai Kushana, che costruirono i giganteschi Buddha di Bamiyan, distrutti dalla barbarie talebana nel 2011, con i talebani che in ordine di tempo sono gli ultimi carnefici di questo sfortunato popolo.
Ismail con la sua patria di nascita conserva ormai soltanto il legame con la madre, tenuto vivo attraverso il telefono, ma dalle ultime chiamate capisce che c’è qualcosa che non va per il verso giusto. Del suo paese ha ereditato gli occhi, un segno di riconoscimento, ed altre inconfondibili caratteristiche fisiche, un carattere silenzioso e poco espansivo, in Europa ha un lavoro, delle amicizie, anche altro che potrebbe essere doloroso abbandonare (si sta innamorando), e tutto lascia propendere che sia impensabile fare marcia indietro verso il passato. Costanza Quatriglio fa in modo che la tensione, lo stato di crisi del protagonista emerga molto lentamente, servendosi della figura chiave di Assan, fratello di Ismail, un individuo guidato dai precetti della fede, rigidamente ortodosso ed inquieto, immergendo tutto in una atmosfera quasi di torpore, che lascia intendere qualcosa di silente in procinto di essere svegliato. Di lui si serve la regista per seminare l’agitazione ed arrivare al decisivo punto di svolta narrativo della storia: Ismail per ritrovare la madre dovrà andare lì, in quei luoghi da cui è dovuto scappare, e tra il Pakistan e l’Afghanistan cercare di rintracciare sua madre, ammesso non sia nel frattempo caduta nelle mani sbagliate, vittima della tragica sorte che aspetta le vedove di guerra hazare, una sorte che sin dall’antichità non è cambiata molto, e consiste nel trasformarle in merce di scambio.
Il cambio di ritmo avviene soprattutto a livello visivo, diventa testimonianza, tra scorci di montagna che sembrano emanare violenza, reietti abbandonati sulle strade, contrabbandieri di uomini, sangue, schiavitù, prigioni, la potenza del film aumenta ancora di intensità, quasi azzerando il ricorso al dialogo, già abbastanza rarefatto anche nella prima parte, per concentrare l’attenzione dello spettatore sulla forza implicita nelle immagini stesse. Un cinema che è fatto di sguardi, imploranti, indagatori, spaventati, che non ha niente di accomodante, che richiede pazienza ed attenzione, che ha voglia di suscitare sdegno e di accendere i riflettori su una delle tante tragedie ignorate del mondo. Quattro proiezioni tutte sold out a Locarno, importanti per fa si che la luce su queste terribili vicende resti accesa più a lungo possibile e magari riesca ad invertire quella tendenza generale al disinteresse, motivando un’onda lunga di indignazione che vada oltre la fine del film.
Antnio D’Onofrio, sentieriselvaggi.it, 11/8/2018

Critica (3):

Critica (4):
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