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Mani in alto! - Rece Do Gory


Regia:Skolimowski Jerzy

Cast e credits:
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski; fotografia: Witold Sobocinski; musiche: Krzysztof Komeda; montaggio: Zdzislaw Plorecki; scenografia: Jaroslaw Switoniak; interpreti: Joanna Szczerbic (Alfa) Jerzy Skolimowski (Andrzej Leszczyc) Tadeusz Lomnicki (Trabant) Bogumil Kobiela (Rekord) Adam Hanuszkiewicz (Wartburg); produzione: Film Polski Zrf-Gruppo Syrena; distribuzione: Movies Inspired; origine: Polonia, 1967; durata: 71’.

Trama:Per festeggiare l'anniversario di laurea, cinque medici si riuniscono. Quattro di loro si sono perfettamente integrati nel sistema (ostentano la dacia in campagna, l'auto, la vita agiata), Andrzej Leszczyc è l'unico a non aver raggiunto il successo. Fa il veterinario ed è stato emarginato perché aveva innalzato una gigantografia raffigurante Stalin con quattro occhi ed un minaccioso indice ammonitore. Del gruppo fa parte anche Alfa, una ex campagna di studi, ora moglie del medico più arrivista di tutti.
Andrzej invita la compagnia, già euforica per il bere, ad intraprendere un "viaggio" alla ricerca di un altro compagno di corso, ora, a suo dire, medico condotto in uno sperduto villaggio e quindi impossibilitato a partecipare alla festa. Ma si tratta di un pretesto, l'amico non esiste e il viaggio non avrà luogo realmente: i cinque resteranno chiusi in un vagone fino al mattino. Durante la notte si svolge un allucinante itinerario metaforico, uno spietato gioco della verità che mette a nudo i personaggi. Solo in apparenza essi sono persone rispettabili tanto che con il passare delle ore si accusano e vengono accusati di conformismo, di lassismo e di cinismo. Alcuni flashbacks ricordano la loro vita di studenti negli anni '50: già allora erano come oggi. Andrzej, nel ruolo di accusatore, evoca in loro la paura di perdere quei piccoli privilegi ottenuti e, nello stesso tempo, l'angoscia di perdere l'equilibrio del loro status sociale, la paura che venga risaputa la verità sul loro opportunismo.
Attraverso un sottile gioco provocatorio di associazioni mentali, essi arrivano a pensare che quel vagone merci in cui sono rinchiusi, sporchi di gesso, gli abiti sgualciti, sia lo stesso vagone che deportava i loro padri e fratelli maggiori verso i campi di sterminio.
All'alba un ferroviere apre il vagone: i protagonisti si ricompongono e raggiungono le loro auto per riprendere la vita di sempre.

Critica (1):Ritirato dalle autorità polacche cinque giorni prima della presentazione al festival di Venezia del 1967, e censurato per quattordici anni, Mani in alto! è stato ripresentato a Cannes nell'81, con l'aggiunta di un prologo. «In quella stanza 202, capii che non potevo più fare del cinema, che non potevo fare film sul mio paese, che non potevo dire ciò che pensavo» (J. S., citato da Giorgio Rinaldi, I polacchi a Cannes, «Cineforum» 205, giugno-luglio 1981). Così è rimasto ingiustamente congelato un film che, sebbene spiccatamente polacco perché attacca quella società, è anche un segnale rivolto alle società del benessere, del consumismo e dell'ipocrisia.
Indirizzato anzitutto agli intellettuali, il film fu girato in soli ventidue giorni. Le autorità non avevano potuto censurarlo preventivamente perché il regista, secondo sua abitudine, non lavorava su una sceneggiatura definita, ma su un canovaccio che, in questo caso, aveva addirittura riferito a voce. La storia dei cinque protagonisti che si ritrovano è soprattutto un'accusa di Skolimowski alla sua generazione, che nel periodo post-stalinista si era adagiata nel conformismo di regime, paga di insignificanti privilegi sociali (i loro nomi sono quelli di modelli di automobili) che avrebbero dovuto sostituire la vitalità e l'impegno culturale.
Il film, ha affermato l'autore, «è una grande provocazione che lancio alla società (...) e ad una generazione di trentenni che sono già adulti, ma che stanno raggiungendo un punto che li lascerà a mani vuote. Una generazione senza iniziativa, statica» (Intervista, «Film Comment», 1, autunno 1968). L'intento è proprio quello di scuotere sia quelli che esprimono solo l'egoismo del proprio interesse personale, sia chi, come Andrzej ha lottato e lotta, anche se in maniera contraddittoria, contro l'appiattimento borghese delle coscienze. Si comprende allora,
anche se evidentemente non si giustifica, l'intervento cautelativo del governo di fronte a un film che si presentava come qualcosa di pericoloso e di decisamen
te nuovo. Così come, per contrasto, è chiaro il motivo del dissequestro a sorpresa seguito al movimento democratico di Solidarnosc e all'estate di Danzica del
1980. Skolimowski riduce il film di quindici minuti e vi aggiunge una premessa girata agli inizi dell'81. (...)
Non c'è nulla in questo film che possa esaltare un qualsiasi ideale socialista. Anzi, l'aspetto simbolico – invece di accentuarne il taglio ideologico-politico (al di là dell'apparente allegoria di questi compagni di studi che si ritrovano) – sottolinea con vigore una tendenza alla regressione: tutti i vantaggi materiali ottenuti con l'acquiescienza non sono altro che una maschera, lo splendido abito che riveste un corpo putrefatto. Il senso della morte, l'attrattiva del suicidio collettivo – «alla fine degli anni Cinquanta (...) ci definivamo con orgoglio come una generazione suicida (...) quest'ossessione della morte era nell'aria» (Intervista, «Positif», 260, ottobre 1982) – traspaiono chiaramente da un film avaro di parole e ricchissimo di immagini metaforiche in un crudo e contrastato bianco e nero. Nella fantasia dei partecipanti a quest'aggressivo happening provocato soprattutto da Andrzej, il carro merci si trasformerà in un vagone della morte diretto ad Auschwitz: un personaggio pare mummificarsi, avvolto in quello stesso inquietante bianco in cui si rotolano i passeggeri, funebri candele accese sulle assi del carro, i cinque, incatenati l'un l'altro, alzano le mani in definitivo segno di resa. Questo apparente gioco accettato per una notte non li conduce però ad un finale drammatico e mortale: l'esperienza resterà un ricordo incancellabile quando essi torneranno alla loro quotidianità.
La simbolica gigantografia di Stalin veglierà come un grande fratello orwelliano sui loro comportamenti esteriori, ma solo Andrzej, che in qualche modo si è ribellato, si rivelerà l'unica persona veramente viva del gruppo perché mettendosi in discussione ha suggerito immagini di morte e ha fatto emergere il vuoto di valori di quel milieu sociale che avrebbe dovuto invece esserne il portavoce critico.
La generazione rappresentata in Mani in alto! non è solo connotata negativamente come generazione suicida, ma possiede anche un aspetto positivo, perché Skolimowski ha creato l'happening come spettacolo, trasformandolo da mera forma esteriore in qualcosa di più intimo, di profondamente psicologico: ciò accade quando, vestiti da sera e un po' brilli, i cinque decidono di salire sul vagone. Qui lo spazio si restringe, si chiude alla realtà per schiudersi simbolicamente (come un gioco di scatole cinesi che si aprono dall'interno) alla memoria di una realtà più vera, la quale si può manifestare soltanto attraverso l'attualizzazione del passato. Il fluire della coscienza dei personaggi è vissuto dallo spettatore in modo più partecipativo che non in un vero happening, perchè il regista, sapientemente, inserisce incisivi flashbacks che giustificano e spiegano i comportamenti mentre danno unità alla narrazione. Chiusi nel vagone, tutti si sporcano di bianco e seppelliscono, quasi calcificandolo, quello di loro che più è stato ideologicamente compromesso, in una sorta di nemesi di cui essi stessi, in fondo, diverranno vittime.
Un vittimismo atavico, a cui però Andrzej/Skolimowski si sottrae – in fondo è lui il regista di quell'happening doloroso – perché «i polacchi sono grandi vittime, adorano accusare l'impossibile e farsi ammazzare» (Intervista, «Cahiers du Cinéma», 343, gennaio 1983). L'atto d'accusa contro una generazione assume il significato di una accusa contro i compatrioti, chiusi nel cerchio obbligato dell'assenso passivo, che costringe tutti a tenere le mani in alto: è qui che Skolimowski non poteva più trovare la propria identità di artista. Se ne deve andare.
Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Il Castoro cinema, 1-2/1987

Critica (2):Come nacque Rece do góry?
Cominciamo dall'inizio, perché è una storia curiosa. Essendo membro della Federazione dei Letterati, ricevevo inviti a diversi concorsi «interni». Ce ne fu uno di letteratura, per una pièce teatrale contemporanea, a tema libero. Come partecipante invitato, riscossi un anticipo sull'onorario. Il termine per la presentazione dei lavori scadeva il 31 dicembre 1966. La mattina del 31 dicembre mi accorgo di non aver nulla di pronto. Un incubo. Ma sono duro ad arrendermi. Telefonai ad Andrzej Kostenko e alla dattilografa dei gruppi di produzione, la signora Sobis. Prenotai due stanze
all'hotel MDM e dissi alla dattilografa: «Ascolti soltanto di che si parla nell'altra stanza. Quando un dialogo comincia a ripetersi o se iniziamo a parlare più forte, trascriva». Iniziammo a lavorare nel pomeriggio, e una quindicina di minuti prima della mezzanotte ero alla posta centrale con il dattiloscritto, che contava 70 pagine.
Avevo un'idea appena abbozzata: cinque personaggi, un vagone, salgono sul vagone, vanno da qualche parte. Dopo di che iniziammo a improvvisare. Avendo già provato a scrivere insieme, ormai io e Andrzej avevamo esperienza di certe cose.
Chiaramente non vinsi nessun premio al concorso: era tutto un bluff. Comunque aveva una struttura, c'erano dei protagonisti e, di colpo, mi accorsi di avere in mano 70 cartelle di testo che valeva la pena sfruttare. Lo mostrai a Wohl, il direttore artistico del gruppo di produzione Syrena. Giudicò il materiale ottimo per un film e mi incoraggiò a lavorarci sopra.
Non ricordo se ci lavorai o se mi affidai nuovamente all'improvvisazione. Kostenko era impegnato in un film di Leszczynski, quindi ero solo. Effettivamente credo di aver modificato qualcosa. Aggiunsi tutta la parte «staliniana». Il lavoro teatrale conteneva solamente la parte del treno. Scritturai gli attori e passammo alla realizzazione in base a una bozza di una quindicina di pagine. Tutti, in qualche misura, contribuirono al film: gli attori, veniva sul set Krzysztof Komeda, ci veniva a trovare Andrzej Wajda. Io ero disponibile ai suggerimenti, da qualsiasi parte arrivassero. Girammo all'interno di una palestra di tennis in ulica Wolska: visto che la realizzazione era stata attivata di colpo e le case di produzione locali erano tutte occupate da tempo. La palestra di Wolska divenne una Mecca. Venivano a trovarci tutti.

Rece do góry è stato il primo film che abbia affrontato il tema degli anni '50 in Polonia. Incontrò problemi già in fase di sceneggiatura?
Non ricordo bene come andò. La produzione fu avviata molto in fretta... Non sono sicuro se presentai – sempre che si sia svolta una commissione preliminare – la parte «staliniana». Forse feci riferimento solo alla versione teatrale, con il viaggio in treno. Mi è difficile ricostruirlo, ora.

Risale pressa poco allo stesso periodo la prima versione della sceneggiatura di L'uomo di marmo (Czlowiek z marmuru), che Wajda provò a far passare, ma senza riuscirvi. Avrebbe dovuto aspettare dieci anni. In genere, nell'ultimo periodo gomulkiano, l'argomento degli anni '50 era talmente tabù da venire evitato?
Per rievocare il periodo staliniano non c'era bisogno di scenografie, a parte un ritratto di Stalin e, forse, nella bozza del soggetto non ne feci parola. So che quando presentai il film finito, fu uno shock, ci fu una reazione singolare, come se non se lo aspettassero, come se mi fossi spinto troppo oltre con le mie improvvisazioni. Purtroppo non c'è più Wohl, che
avrebbe potuto raccontare i dettagli di tutta questa operazione, anche se forse nemmeno lui si era reso conto esattamente di ciò che stavo preparando.
Perfino gli attori non erano del tutto al corrente del taglio che il film avrebbe assunto. Scherzando, Lomnicki mi rinfaccia ancora di non aver potuto recitare il monologo lungo che gli avevo promesso nel finale, di cui rimasero, a conti fatti, soltanto un paio di battute. Ma si trattava di persone molto intelligenti, sentivano che stava nascendo qualcosa sul momento e ce la misero tutta. Molte battute sono opera loro. Bobek Kobiela, che aveva uno straordinario senso dell'humour, ne inventò alcune davvero spiritose.

E il famoso monologo: «quattro anni di asilo, otto di scuola, quattro di liceo e tutta l'università... tutto per niente!» Anche quello è opera di Kobiela?

Quello era nella sceneggiatura. Le scene chiave le avevo preparate prima. La struttura del film non poteva mancare. All'origine di tutto, lo sfortunato episodio del ritratto di Stalin. Ne è vittima Leszczyc, tutto gli si ritorce contro e lui tenta perfino il suicidio. Adesso suona un po' artificioso, ma allora pensavo che un personaggio come lui potesse fare cose simili. E poi il suo gesto era calcolato in modo che lo salvassero, sul posto c'era la fidanzata... I nodi drammaturgici erano dunque predisposti, l'improvvisazione poteva partire da un canovaccio preciso

Per quanto essenziale, il motivo «staliniano» non era la chiave di Rece do góry, rappresentata, invece, dal bilancio che gli individui fanno di se stessi, di un poco onorevole passato e di un presente che forse lo è ancor meno. In un certo senso, lo si poteva interpretare come un attacco alla nostra «piccola stabilizzazione», come allora veniva chiamata. I suoi film precedenti, pur se in un'ottica da outsider, non avevano messo sotto accusa l'aspirazione all'agiatezza, mentre in Rece do góry il motivo viene messo fortemente in rilievo. Oggi lei concorderebbe ancora con la diagnosi contenuta nel film?
Il rigetto si manifesta già in Bariera (con le frecciate ai panciuti quarantenni che girano in macchina). Io credo che nell'atteggiamento anticonsumistico si nasconda un pizzico di gelosia. Un individuo di vent'anni o poco più ritiene di trovarsi all'apogeo della propria esistenza e crede che questa debba dargli tutto ora, non dopo, quando pensa di non poterne più ricavare un godimento pieno.

È il motivo di Il coltello nell'acqua, un film che lei ha contribuito a far nascere. L'uomo con la barca e il ragazzo senza niente.
Penso che il sostrato sia decisamente quello. Poi c'è la diffidenza verso i più anziani. Come sono arrivati a quei benefici? La generazione che ci aveva preceduto, a guardar bene, si era compromessa non poco. La generazione «staliniana» non esercitava su di noi alcun ascendente. Vedendo i
suoi esponenti sguazzare nei beni materiali, ci veniva spontaneo pensare che fossero cose acquisite indegnamente. Da un lato ci muoveva l'invidia, dall'altro il sospetto della disonestà.

È piuttosto singolare. Alla generazione più anziana imputavate non il fatto di aver istituito il sistema della repressione e del terrore, ma semplicemente di essersi arricchita al momento opportuno e in modo indegno. Questa limitazione della critica era frutto della censura o dell'immaturità delle convinzioni interiori?
Ha ragione. La critica non toccava le questioni essenziali. Ma attaccare l'aspetto esteriore del fenomeno era comunque un atto di estrema audacia. E probabilmente serviva a mimetizzare i problemi sostanziali. A quei tempi sarebbe stato difficile dire chiaro e tondo: ciò che avete ve lo siete accaparrato creando l'apparato repressivo. Certe cose non potevano assolutamente passare; mentre, se mimetizzate sotto il rancore di una generazione verso l'altra, sotto il rifiuto dei «vecchi» quarantenni panciuti, c'era modo che superassero la censura ufficiale. Probabilmente, tra le forme ancora tollerabili, era quella estrema. In Rece do góry mi spinsi comunque troppo oltre e per diversi anni il film non si poté vedere.

Gomulka aveva visto bene lanciando fulmini sui giovani contestatori e le «cassandre».
È curioso che abbia preso di mira proprio me.

Che ne fu di Rece do góry, una volta terminato?
Il caso volle che si trovasse a Varsavia Rondi, il responsabile del festival di Venezia. La Film Polski gli fece visionare Rece do góry. Mi fu riferito che l'allora direttore della Film Polski, Skawina (tra l'altro un uomo molto simpatico), si sentì fare i complimenti anticipati da Rondi in vista di un premio a Venezia. Questo avveniva dopo il successo di Bariera a Bergamo. Il mio nuovo film partiva favorito, la copia era già stata spedita a Venezia, avevo i visti sul passaporto... Improvvisamente mi telefonò Skawina, dicendo di aver avuto disposizione di ritirare il film dal concorso. Si seppe che la decisione era venuta dal KC (il Comitato Centrale del Poup). All'inizio non riuscii a stabilire concretamente da chi, ma risalendo passo passo, arrivai infine al compagno Kliszko. Era allora il numero due, subito dopo Gomulka. Bussai a lungo alla sua porta, infine mi venne promessa un'udienza.
Ricordo, era un giorno di nebbia. Un clima da metafora. Per la prima volta nella vita varcai la soglia del Comitato Centrale. Tetri corridoi, tutto deserto, risuonare di passi. Mi dissero di aspettare. Dopo un po' la segretaria mi fece entrare dicendo: «Ha cinque minuti». E io per quei cinque minuti non chiusi bocca. Nella mia ingenuità difesi il film forse maldestramente, cercando di addurre a giustificazione la franchezza e l'impegno.
Alla fine domandai a Kliszko se sarebbe stato in grado, a quel punto, di emanare una disposizione che rimuovesse quella fatale coincidenza (mi ero sempre spiegato il tutto come una fatale coincidenza). Rimase ad ascoltarmi per tutto il tempo, infine rispose seccamente: «No!». E si alzò in piedi, a sanzionare la fine del colloquio. Uscendo buttai lì che, finché il film non fosse uscito sugli schermi, non intendevo farne altri in Polonia. Rispose: «Buon viaggio».
Poi, negli anni di Gierek, mi capitò di incontrarlo al parco, solo, ricurvo. Non mi venne mai in mente di parlargli. Ma probabilmente non avrebbe potuto fare niente. Era il «collettivo» a decidere, e non solo quello polacco.

Nel 1967 Rece do góry non uscì. La cosa avvenne soltanto 14 anni più tardi. Nel 1981 lei ha girato alcune scene da aggiungere come prologo al film.
Nel 1981 si ripresentò l'opportunità di proiettare il film nei cinema (e, fino a dicembre, tutto prometteva bene), dunque mi fu proposto di apportare qualche ritocco, dal momento che il film era congelato da 14 anni ed era, forse, un po' invecchiato. Lo rividi, e decisi di aggiungere il prologo. Girai quelle scene rapidamente, chiedendomi quanto lontano la sorte avesse catapultato l'artista dalla situazione in cui il film era nato. Proprio in quel momento ero impegnato come attore nel film di Volker Schlöndorff L'inganno (Die Falschung). Decisi, perciò, di lavorare su tre elementi: il Libano, cioè il lavoro con Schlöndorff, la casa di Londra e certe fantasmagorie varsaviane. C'è una buona scena: un uomo cammina su un ponte e di colpo cade, finendo sotto le auto in corsa. Non so che cosa volesse dire. Allora vedevo così Varsavia, come in una visione da ubriaco, quell'entusiasmo, quelle bandiere... Forse, con questo film, ho voluto lanciare un avvertimento: «Guardate che cosa è successo a Beirut!». Per la prima volta avevamo visto dei grattacieli inceneriti. Ogni volta che pensiamo alla guerra, l'associamo alla Seconda Guerra Mondiale, al massimo alla Corea. Ecco, invece, la devastazione della civiltà più avanzata. A Varsavia tentiamo di innalzare i grattacieli che a Beirut sono ormai distrutti. Ho mostrato come la Polonia fosse pressappoco a metà strada fra Beirut e Londra.
Ma il mio messaggio non era dei più popolari. Lo osteggiarono entrambi i contendenti. Se il film si fosse guadagnato il sostegno aperto di Solidarnosé, sarebbe potuto uscire presto sugli schermi. Ma quel sostegno non ci fu. Ancora una volta venne trattato come la parola di un outsider. Fu presentato in sordina al Festival di Danzica. Ottenne soltanto il premio dei giornalisti.

E poi scomparve di nuovo?
La prima proiezione pubblica avvenne il 12 dicembre, durante il Congresso della Cultura Polacca. La gente uscì dalla proiezione a mezzanotte – mi raccontò Tadeusz Lomnicki – e fu l'ultima volta che poterono farlo.
Nelle strade c'erano già i carri armati. Fu l'unica proiezione pubblica della nuova versione. Poi, improvvisamente, in un circuito culturale molto ristretto, fu messa in circolazione la vecchia versione.

Magari, fra altri dieci anni, si dovrà fare ancora un'altra versione?
Non so se abbia ancora un senso metterci le mani sopra. C'è un destino avverso che incombe su questo film.
"Segni particolari", intervista a Jerzy Skolimowski di Jerzy Uszynski, in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996

Critica (3):(...) Nelle scene iniziali del viaggio erratico di Rece do góry, viene ripetuto più volte: «Ci vuole un'azione!», e questa sorta di anticipazione del nomadismo (visivo) wendersiano viene sperimentata ora per il futuro - le sue pellicole sono sempre estranee senza essere staccate dai luoghi e dalle specifiche atmosfere d'ambientazione – e messa in immagini nel falso movimento descritto nel film, un pretesto assai efficace per cominciare a fare i conti con alcune coppie oppositive ingombranti (chiuso/aperto, dentro/fuori, silenzio/parola, buio/luce, successo/morale, morte/vita ecc.).
Da subito, per l'ingenuo perverso Skolimowski, l'«astuzia» dell'autobiografismo si pone inevitabilmente in urto, in rotta di collisione con l'implacabile «sincerità» dell'azione censoria: al suo quarto film polacco, il caso di Rece do góry, un modello imperfetto di road movie della mente, esemplifica la velocità e l'eccitazione del mondo interiore del regista, un microcosmo dove, nella rappresentazione di una rappresentazione, egli si segnala acuto e istintivo barometro del costume e dell'angusta prospettiva di un'epoca, di una società e di un'intera generazione, la sua.
Bloccato nel 1967 dalle autorità pochissimi giorni prima della presentazione alla Mostra di Venezia, tenuto congelato dalla censura per 14 anni durante i quali Skolimowski non girerà più in patria, dissequestrato grazie alle nuove aperture culturali di Solidarnosé, proiettato a Cannes nel 1981 ridotto di alcuni minuti e con l'inserimento di un drammatico prologo, questo Rece do góry – cronologicamente incastrato tra la violenta magia di The Shout e la rarefatta poesia di Moonlighting – spiega e conferma le indicazioni finora sommariamente esposte. E proprio la parte aggiunta nella seconda versione esibisce e riattualizza lentamente la decolorazione delle apocalittiche immagini tra le macerie di Beirut in guerra (il set è quello di L'inganno [Die Falschung] di Schlöndorff, in cui Skolimowski per sbarcare il lunario recita nel ruolo del fotografo Hoffmann con Bruno Ganz); immagini analogiche al malinconico e rancoroso isolamento del regista che, lamentando la perdita della sicurezza interiore a causa dell'esproprio del suo film, si aggira, come i cani randagi, tra le case sventrate in un day after di matrice tarkovskiana (Nostalghia più Sacrificio), ma ancora in veste di stalker, di guida imprevedibile dentro lo spazio chiuso di un vagone ferroviario dove il finto viaggio dei cinque amici medici continua a ripetersi, quasi à la manière de En attendant Godot. Solo che in Rece do góry, da una parte Beckett si integra grottescamente con l'influsso obliquo di Kantor, Ionesco, Mrozek, Hlasko; dall'altra fa comprendere presto che gli altri personaggi, forse ex ribelli, oggi certamente conformisti, non aspettano nessun altro perché nel carro merci sprangato – analogamente a come i nazisti facevano viaggiare i deportati ai lager – non si entra più; non c'è più posto per altre squallide tipologie consumate e in fondo non ce n'è bisogno: le metafore a cerchi concentrici dello spazio chiuso, cioè il palcoscenico-inquadratura, lo stesso vagone, il treno immaginato, tutti i treni, la Polonia – allo stesso modo in cui la barca e il lago circondavano senza vie di fuga il triangolo umanissimo e smanioso di Il coltello nell'acqua (Nóz w wodzie) diretto da Polanski e scritto da Skolimowski – sono figurazioni per isolare realmente e simbolicamente i personaggi, per costringerli alla verità vera dei loro comportamenti, oltre gli atteggiamenti ipocriti e le conquiste materiali che tutti, tranne il veterinario altruista Andrzej-Jerzy temono di veder sfumare in polvere. Simbolicamente, le marche delle loro automobili, status symbol della mediocrità, danno il nome alle persone (Opel: «L'unico record che m'interessa è l'Opel Rekord, era stato affermato altrove», e poi Alfa - l'unica donna -, Wartburg ecc.).
La polvere di gesso che ricopre i corpi, i volti e le anime dei protagonisti, dopo averne mummificato idee e ideali (avere un senso morale, curare e servire il prossimo, criticare la doppia vista dell'onnipresente Grande Fratello, Il Capo dei comunisti). La polvere invade tutto e tutti, modifica i lineamenti, sancisce l'idea della morte (lo sgraziato funerale del collega) è palpabile, si sente in gola, infastidisce quasi lo spettatore che vorrebbe scrollarsela di dosso – ma non osa per timore di spegnere le lucine circostanti e restare da solo al buio con quei «mostri» inconsapevoli –, e liberarsi da questa massa pulviscolare densa e giallognola che nemmeno la luce fioca delle tantissime candele riesce a rischiarare, se non per rendere più abbacinanti i bianchi, i viraggi seppia e quelli dei flashback.
Si respira la dimensione tragico-grottesca di un impasto contemporaneamente arido e acquoso di terapia di gruppo e di confessione personalissima. L'esito è la frantumazione della linearità espositiva, continuamente disarticolata da digressioni e spezzettamenti nei dialoghi, così come da dispersioni, sovrapposizioni, ripetizioni che provocano nel ritmo del film un'accelerazione di primi piani e dettagli che rende mimetici i pochi, pochissimi punti di riferimento esterni alla vicenda, sì da conferire all'insieme un senso di immobilismo, staticità e di dinamismo. Non è un'affermazione contradditoria o superficiale, ma la qualità intima del film: la fotografia del pensiero inquieto di chi, costretto a star fermo, si agita lo stesso, anzi per ripicca si agita molto di più di quanto avrebbe forse fatto in condizioni di normalità e di democrazia culturale (Quanto deve, nel bene e nel male, la grinta del cinema di Skolimowski alla censura e al muro di Berlino? Vale senz'altro anche per lui l'estetica della censura, la necessità di adeguare potenzialità e linguaggio alla realtà concreta in cui l'artista deve operare in modo che la carica di ribellione possa esplodere con maggiore convinzione creativa ed impatto emotivo).
Dalla sensazione di oppressione, di soffocamento, di ammutolimento – il sacchetto di plastica in testa, corrispettivo delle bende intorno alla testa delle primissime immagini – si esce, e nel '67 ancora si poteva forse davvero credere di uscire, con il paradosso e con il cinema. Sono questi due specifici richiami, caduti nella seconda versione, evidenziati dal flashback di Andrzej: nella Casa dello Studente «butta» dalla finestra la giovane compagna Alfa e nel dialogo viene citato il cinema come sdrammatizzazione (lui era stato buttato fuori per il famigerato manifesto degli occhi di Stalin). Forse le due situazioni, insieme ad altre nel corso del film (ad esempio alcuni passaggi della parte centrale, il prefinale all'uscita dal vagone prima di riprendere la routine di sempre), sono state eliminate perché il regista, con vittimismo aggressivo, ha così voluto sottolineare con vigore sia l'assenza di ogni forma di ottimismo per un presente ed un futuro che invece vede a tinte fosche, sia il carattere di realismo accusatorio contro tutto e tutti i suoi contemporanei, e ciò in anticipo sulla tendenza a spiazzare il livello del racconto cinematografico, come se fosse quello di una realtà non falsa e ricostruita (se si va al cinema, quella che si sta vivendo non è finzione, ma la vita).
Non solo, ma negli abbinamenti speculari cui s'è fatto cenno sopra, il senso della morte, strettamente connesso con la sete di quella vita vera difficilmente disgiungibile, per i cineasti outsider della generazione di Skolimowski, dalla identificazione cinefila tra vita e cinema, è una forma di autodifesa dal lancinante pericolo della perdita della memoria, della cancellazione totale, dell'ottundimento freddo e regressivo degli slanci vitali, dell'oblio, della minacciosa e insinuante polvere bianca del tempo che, come neve acida, incipria ridicolmente e ricopre silenziosamente gli uomini per cancellare loro il ricordo, la capacità di sentirsi vivi. (...)
Fabrizio Borin, "L'inquietante doppio happening di una «camera verde» polacca", in Jerzy Skolimowski, a cura di Malgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Lindau, 1996.

Critica (4):
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