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Giù la testa


Regia:Leone Sergio

Cast e credits:
Soggetto
: Sergio Donati, Sergio Leone; sceneggiatura: Sergio Donati, Sergio Leone, Donato Vincenzoni; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; interpreti: James Coburn (John\Sean Mallory), Romolo Valli (Dottor Villega), Rod Steiger (Juan Miranda), Rick Battaglia (Santerna), Maria Monti (Adelita), Franco Graziosi (governatore), Domingo Antoine (Col. Gunterreza), Poldo Bendandi (rivoluzionario fucilato), Roy Bosier (proprietario terriero), Furio Meniconi (rivoluzionario fucilato), Giulio Battiferri, Amato Garbini, John Frederick, Omar Bonaro, Antonio Casale (notaio), Stefano Oppedisano, Vincenzo Norvese; produzione: Rafran Cinematografica, San Marco Films, Miura; restauro: Centro Sperimentale di Cinematografia, Tele più, Cineteca Nazionale, Sergio Leone Prod.; origine: Italia, 1971; durata: 160’.

Trama:Il fuorilegge messicano, Juan Miranda, padre di cinque figli che lo aiutano nelle sue imprese banditesche, si associa con l'irlandese, John Mallory - esperto di dinamite -, per svaligiare un banca. Si ritrovano insieme a combattere al fianco dei rivoltosi di Pancho Villa e Emiliano Zapata.

Critica (1):Non è facile parlare dopo oltre vent’anni di Giù la testa: sia perché i frequentissimi passaggi televisivi rendono superfluo pubblicizzare il film, sia perché in questa sede è impossibile realizzare un’analisi o un approfondimento. Tuttavia la riproposta di questo lavoro di Leone impone di spendere qualche parola al riguardo. L’elemento che ha destato maggiore curiosità e interesse è costituito, ve lo sveliamo subito, dal recupero di una sequenza che Leone tagliò dopo l’anteprima del film. Il regista riteneva che Giù la testa fosse troppo lungo e pensò di poter fare a meno di quei pochi minuti. Si tratta di un flashback in più che ripropone immagini del passato irlandese di Sean: lui, la sua donna e l’amico (che si vedevano anche nella versione precedente, negli altri flashback) che corrono su un prato ridendo; lui bacia la sua donna poi la lascia baciare all’amico e sorride. È una sequenza che si riaggancia al primo flashback e che ribadisce il tema dell’amicizia fra il messicano e l’irlandese, e comunque non modifica nella sostanza il discorso che Leone intendeva svolgere. Quindi non è un vero e proprio director’s cut, (termine che si usa in caso di reintegrazione di tagli imposti dalla produzione), ma una nuova versione completa, libera da ogni tipo di preoccupazione di natura commerciale. Fatte queste precisazioni, passiamo al film vero e proprio, cercando di proporre un percorso di lettura che tenga conto dell’episodio finora inedito.
Giù la testa è stato realizzato nel 1971, tre anni dopo C’era una volta il West: dopo aver cantato la fine di un’epoca il regista romano si spostò in Messico, durante la rivoluzione di Villa e Zapata. Ma la rivoluzione è in realtà lo sfondo su cui far muovere i personaggi: nonostante la celebre frase d’apertura di Mao (La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza) Giù la testa non intende presentare un affresco storico sul periodo preso in esame. Il senso della citazione è diverso e serve ad avvertire gli spettatori che qui viene mostrato il volto più crudo della rivoluzione (quello violento). Scompare del tutto ogni traccia di romanticismo, presente in molti altri film sul medesimo argomento. Giù la testa si basa sull’incontro-scontro fra due personaggi: Sean guerrigliero dell’Ira fuggito dal paese d’origine, e Joan, peone messicano disilluso, preoccupato soltanto di riempirsi le tasche con il malloppo della banca di Mesa Verde. Ed è proprio questo il motivo che lo spinge ad unirsi all’irlandese, nella cui dinamite vede la chiave per varcare la soglia del celebrato edificio. Ma i due obiettivi finiscono per convergere, quando a Mesa Verde Sean aiuta Juan a entrare nella banca: purtroppo per il messicano non ci sono soldi, soltanto prigionieri; Juan diventa, suo malgrado, un eroe della rivoluzione. Ma cosa gliene importa? Preferirebbe avere il portafoglio pieno di pesos. [...] Così è come se Sean rimuovesse le immagini del tradimento, che affioravano nella sua mente di fronte al nuovo tradimento di Villega, per la sciare spazio a quelle legate ai momenti felici del suo passato.
Così, alla fine, i due personaggi [...] arrivano a comprendersi e quasi a scambiarsi i ruoli: Juan abbandona l’egoismo per l’eroismo, Sean perde fiducia negli ideali politici in cui credeva. Quello che resta, e nemmeno il flashback riesce a spazzarla via, è una forte disillusione: Juan alla fine esclama con smarrimento “E adesso io?”, poco dopo aver affermato che non gliene importa niente se lo faranno generale; Sean esce di scena con una grande esplosione che non serve a niente, se non a portare al parossismo il suo istinto “dinamitardo”. È l’atto conclusivo di Sean che coincide con la presa di coscienza dell’inutilità della violenza; poiché, come ci è stato detto all’inizio, la rivoluzione altro non è che violenza, anche la rivoluzione finisce per diventare inutile. Forse Leone traeva questo pessimismo radicale dagli eventi contemporanei; forse vedeva nel Messico l’Italia di quegli anni, dopo quella sorta di “rivoluzione” che era stato il ’68, e comunque in piena epoca terroristica (peraltro nel 1970 il regista aveva firmato il documentario a più mani 12 dicembre, sulla strage di Piazza Fontana). Comunque, al di là di questa possibile eco politica, Giù la testa mantiene intatta, anche a distanza di anni, una grande forza spettacolare e un uso sorprendente del linguaggio cinematografico. Anche gli altri punti forti del film non risentono degli anni: dalla recitazione di Steiger, Coburn e Valli al commento musicale (in Dolby Stereo, grazie al restauro) di Ennio Morricone. Insomma, l’età non nuoce al cinema di Sergio Leone ed è piacevole veder tornare i suoi film sul grande schermo; nonostante alcune scelte tecniche oggi appaiano superate, Giù la testa resta un’opera cinematografica di valore, realizzata in modo magistrale da un regista che ormai può essere considerato a pieno titolo un maestro.
Federico Pierotti, 53a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Critica (2):«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria,non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza». La citazione da Mao Tze Tung precede i titoli di testa del film, e promette un tono serioso. Ma il regista immediatamente la ridimensiona, con la prima inquadratura: una colonia di formiche rosse su cui Juan (Rod Steiger) orina abbondantemente. Se le formiche rappresentano il popolo, il senso della scena, apparentemente gratuita, si può riassumere in una semplice aggiunta alla citazione iniziale: la rivoluzione è un atto di violenza che ricade sempre sulla povera gente. Ancora piú esplicita è la rabbiosa invettiva contro la rivoluzione che Juan scaglia su John (James Coburn) durante la marcia verso San Isidro, al termine della quale l'irlandese getterà nel fango il libro di Bakunin che sta leggendo: «Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione! Io so benissimo cosa sono e come cominciano: c'è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice: - Oh, oh, è venuto il momento di cambiare tutto - (... ) Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: - Qui ci vuole un cambiamento! - e la povera gente fa il cambiamento. E poi i piú furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi piú di rivoluzione... E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente! Tutto torna come prima». Insomma, è quasi un'autocritica dell'autore: la rivoluzione è una bella teoria, ma quando è il momento di metterla in pratica c'è sempre qualche ingranaggio che non gira nella maniera giusta, come in fondo aveva individuato lo stesso Mao nella celebre affermazione: « Appena finita una rivoluzione, se ne dovrebbe subito cominciare un'altra ».
Juan è il popolo, che non sa niente di politica e vorrebbe ignorare la situazione per occuparsi soltanto del proprio interesse; John è il rivoluzionario, l'idealista deluso, che sa fin troppo bene come vanno le cose e vorrebbe disperatamente dimenticarlo. Ma non è facile cancellare lo scopo di una vita: cosí John, oltre a farsi nuovamente coinvolgere, trascina nella mischia anche Juan, che imparerà a sue spese a quale prezzo si diventa eroi. Certo, il messicano è un "predestinato": l'assalto alla diligenza su cui viaggiano aristocratici, affaristi e clero è una piccola rivoluzione, presagio di quella piú grande che Juan commetterà. Ma è ancora una rivoluzione sui generis, condotta da un furfantello che pensa soltanto a rubare, stuprare e, tutt'al piú, a umiliare i potenti denudandoli e facendoli cadere nel recinto dei maiali: non proprio una rivoluzione, soltanto uno sberleffo.
Il tragitto di Juan passa attraverso una serie di coincidenze che fanno pensare a un autentico complotto ai suoi danni. L'incontro con John è annunciato da un'esplosione (che Juan scambia per un tuono). Come un avvertimento: stai attento, arriva l'uomo che cambierà la tua vita. Poi, sempre sul filo delle esplosioni, Juan e John si conoscono e affrontano la loro strada in comune che porterà il primo alla solitudine e il secondo alla morte. Quindi, se John è il destino di Juan, la rivoluzione è il destino di entrambi. Quando il dottor Villega (Romolo Valli) salva Juan sul treno aiutandolo a sbarazzarsi del soldato che lo vuole arrestare, diventa uno strumento del destino. Quando lo stesso Juan fa saltare la costruzione in cui si trovano alcuni soldati e Aschenbach, il datore di lavoro di John, diventa anch'egli uno strumento del destino. (...)
Juan è dunque l'immagine trasposta del popolo che, quando arriva finalmente a capire, si rende conto di essere sempre in credito con la Storia. Mentre fanno la Storia, gli uomini (soprattutto quelli che non sanno leggere) ne vengono implacabilmente risucchiati. L'impotenza dell'uomo davanti alla Storia si traduce nel trionfo del Destino. Non un destino incarnato da un singolo personaggio (come in Per un pugno di dollari) o riguardante una vicenda privata dei protagonisti (come in Per qualche dollaro in piú), e neppure il destino storico di C'era una volta il West. È il Destino Assoluto, la ineluttabilità del Caso che regge le sorti dei protagonisti, del Messico e magari del mondo. Quindi, anche della Storia. (…)
L'altro tema-chiave del cinema di Leone presente in Giú la testa è l'amicizia. Juan e John, dopo numerose schermaglie, arrivano a stimarsi e a combattere per la stessa causa. Ciò consente all'autore di ricordare il vecchio cinema americano, e in particolare quello dei grandi comici. All'inizio Juan è descritto come un personaggio chapliniano: il suo ingresso nella diligenza dei ricchi fa pensare alla funzione di Charlot, capace di mettere in crisi i potenti con la sua sola presenza. Poi, quando compare John, Chaplin lascia il posto a Laurel e Hardy: i "dispetti" che i due si scambiano a suon di revolverate e di esplosioni appartengono alla folta casistica della coppia comica, soprattutto quando la ritorsione è effettuata con assoluta impassibilità, come se pestare un piede, ricevere una torta in faccia o far saltare in aria una diligenza fossero le cose piú naturali del mondo (…). Ma, dopo queste incomprensioni, il rapporto tra Juan e John si fa intenso, sino a culminare nella scena finale quando, un attimo prima di morire, John restituisce a Juan la croce che il messicano si era strappata dal collo a San Isidro davanti ai corpi dei figli uccisi da Gunterreza. È dall’attimo di emozione insolita in un regista abitualmente molto distaccato. Del resto è il tono generale a fare di Giú la testa un caso unico, perché Leone vi ha messo in gioco buona parte di se stesso. Forse per questo è il piú attento ai sentimenti dei protagonisti e il piú persuasivo nell'offrirli al pubblico.
Francesco Mininni, Sergio Leone, Il Castoro Cinema, 1-2/1989

Critica (3):

Critica (4):
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