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Cappotto (Il)


Regia:Lattuada Alberto

Cast e credits:
Soggetto: dal racconto omonimo di Nikolaj Vasil'avic Gogol; sceneggiatura: Cesare Zavattini, Alberto Lattuada, Giorgio Prosperi, Leonardo Sinisgalli, Giordano Corsi Enzo Curreli Luigi Malerba; fotografia: Mario Montuori; musiche: Felice Lattuada; montaggio: Eraldo Da Roma; scenografia: Gianni Polidori; interpreti: Renato Rascel (Carmine De Carmine),Yvonne Sanson (Caterina),Giulio Stival (il Sindaco), Antonella Lualdi ( Vittoria), Ettore G. Mattia (Segretario Generale), Giulio Cali' (il sarto),Anna Carena (padrona di casa), Sandro Somare' (suo fidanzato), Loris Gizzi (costruttore), Silvio Bagolini (conducente carro); produzione: Antonio Ansaldo Patti e Enzo Currelli per Faro Film; origine: Italia, 1952; durata: 85'.

Trama:Carmine De Carmine, giovane e modesto impiegato comunale, avrebbe urgente bisogno di un cappotto nuovo visto che quello che porta da tempo, ormai vecchio e logoro, lo fa sfigurare e costituisce per lui un incubo. Ma che può fare se il suo scarso stipendio non gli permette d'affrontare la spesa? Gli accade un giorno di sorprendere una conversazione tra due appaltatori che lo mette al corrente di certi loschi maneggi. È una fortuna insperata, infatti, per assicurarsi il suo silenzio, il segretario comunale gli fa avere un anticipo che lo mette in condizione di acquistare il cappotto. Alla festa di Capodanno, alla quale partecipano colleghi e superiori, Carmine si pavoneggia nel nuovo cappotto...

Critica (1):«La difficulté d'étre»: così Jacques Doniol-Valcroze titola la sua recensione a Il cappotto sui "Cahiers du Cinéma" (maggio 1954): la difficoltà di vivere riguarda l'umile protagonista Carmine De Carmine (Renato Rascel). Il rapporto che De Carmine intrattiene con il mondo che lo circonda è filtrato da una forma mentis modellata via via sul mestiere quotidiano: De Carmine è uno scrivano, e come tale ha la funzione e il dovere di riprodurre i discorsi enunciati da altre persone. L'attività creativa di altri individui è conservata e fissata sulla carta grazie all'attività riproduttiva di De Carmine, il cui aspetto meccanico trova un preciso riscontro nelle pagine di Gogol'. De Carmine sta perciò al polo opposto dei suoi superiori, fissando socialmente e istituzionalmente una distinzione di ruolo tra chi produce discorsi (il sindaco, il segretario generale, i consiglieri comunali) e chi li riproduce (lo scrivano). Questo carattere specifico del lavoro entra anche nella sfera privata di De Carmine, che mette in atto un comportamento mimetico nei confronti dei suoi superiori: scende le scale compiendo gli stessi gesti del segretario generale che lo precede; segue con il movimento delle labbra lo stesso segretario mentre canta un pezzo d'opera durante il ricevimento; annuisce automaticamente alle parole del sindaco che illustra i festeggiamenti.
In De Carmine l'attività pluriennale ha esasperato la regola del mestiere trasformandola in prassi alienante: nella sequenza del consiglio comunale, quando a De Carmine viene chiesto di rileggere ad alta voce ciò che ha appena verbalizzato, la confusione è completa. De Carmine ha trascritto interiezioni, urla, litigi privati tra consiglieri, patteggiamenti, e ha omesso parti centrali della discussione; ma quello che apparenta De Carmine a un congegno meccanico, e cioè l'incapacità di operare una selezione, trascrivendo la totalità degli enunciati come un nastro magnetico e non distinguendo ciò che è essenziale da ciò che è marginale, rivela invece una valenza profondamente critica nei confronti del mondo reale. Ciò che è essenziale per De Carmine non lo è per l'autorità, che rimprovera allo scrivano proprio l'aver innalzato a momento centrale (cioè verbalizzato) quello che per sé è invece periferico (il litigio, l'accordo illegale), e di aver degradato a momento secondario (cioè eliminato) quello che invece è primario (il discorso fatto davanti agli scavi archeologici). E proprio sul luogo delle scoperte archeologiche, appena fuori città, De Carmine getta via con noncuranza un pezzetto di marmo che secondo i governanti è la preziosa testimonianza del nobile passato della città, ristabilendo subito dopo la misura dell'importanza delle sue cose (il dialogo con gli uccellini, la foto del cappotto nuovo).
Non solo la produzione dei discorsi ma anche il mondo dei desideri tiene separata la realtà di De Carmine da quella dell'autorità: ciò che per il sindaco (Giulio Stivai) è una realtà oggettiva - l'amante e il cappotto - per De Carmine è un sogno. Il desiderio della donna cresce e procede di pari passo con quello del cappotto, e da un certo momento in poi vi si identifica, non solo perché il possesso di un cappotto nuovo assume per De Carmine i connotati di segno sociale qualificante che può facilitare la conquista della donna, ma perché si incrociano e si fondono tra loro le modalità e le occasioni in cui i due desideri si manifestano: De Carmine, dalla finestra della sua stanzetta, osserva Caterina (Yvonne Sanson) nell'appartamento di fronte mentre gira per la stanza con una vestaglia succinta, e inavvertitamente procura un grosso taglio al vecchio cappotto che sta rammendando provocandone la definitiva distruzione. «È stata una disgrazia. Questione di donne» dirà al sarto: ancora una volta, sotto l'apparente paradosso dell'enunciato, De Carmine dice la verità. Non diversamente (a documentare l'unicità del desiderio) De Carmine vede passare per strada Caterina mentre un altoparlante diffonde il messaggio pubblicitario di una ditta di cappotti.
La frustrazione del desiderio (per De Carmine) e la sua realizzazione (per il sindaco) definiscono i percorsi paralleli dei due personaggi, percorsi che finiranno per intersecarsi subito dopo la morte di De Carmine con il ribaltamento delle rispettive posizioni. L'anonimo scrivano, rigettato ai margini della vita sociale, vi entra ora come soggetto principale: la sua bara, trasportata dal carro funebre, penetra da protagonista nello spettacolo organizzato dalle autorità, diviene parte integrante della coreografia come elemento imprevisto, attraversa la piazza piena di gente e riceve il saluto di tutti, sindaco compreso. Quest'ultimo, a sua volta, tocca con mano l'alienazione del suo impiegato quando, nella stessa sequenza, un altoparlante difettoso - con un processo di duplicazione analogo a quello della trascrizione - riproduce le parole del suo discorso in un'eco multipla e ossessiva; subito dopo la presenza tangibile del fantasma dello scrivano lo costringerà a rinunciare, come in una sorta di contrappasso, sia all'amore della donna che al proprio cappotto.
Nel film sono concentrati tutti gli elementi che hanno sinora caratterizzato il cinema di Lattuada, prima fra tutti la tendenza a definire i personaggi attraverso immagini sintetiche e dettagli circostanziati: mentre la cultura approssimativa del sindaco è suggerita da poche battute all'inizio del film («Siamo in guerra e bisogna ballare!»), la figura ridicola del segretario generale, che da seduto non arriva a toccare i piedi per terra, è amplificata dalla presenza sulla sua scrivania di una statuetta equestre di Napoleone. Anche la propensione a razionalizzare visivamente una situazione drammatica o patetica - e come tale particolarmente suscettibile di soluzioni " tradizionali " - trova i suoi precedenti in tutti i film finora realizzati: come in Luci del varietà la lunga prospettiva del viale alberato " raffreddava " un momento patetico (quando Melina, all'uscita dalla villa, si accorge dell'infatuazione di Dalmonte per Liliana), così nel Cappotto i contorni squadrati del ponte pieno di neve con le sue ombre nette e glaciali racchiudono entro i confini di una geometria precisa la disperazione del protagonista che si vede rubare il cappotto appena comprato. Questa volontà di cercare sempre una dimensione logico-razionale alimenta la maniera stessa di raccontare. In Francia, dove Lattuada è seguito e apprezzato dai tempi del Bandito, è lo stesso André Bazin a metterlo in risalto: «Ciò che poteva sembrare troppo calcolato nella messa in scena di soggetti drammatici (Senza pietà, Il mulino del Po) è invece perfettamente idoneo all'elemento comico di questa storia. La precisione e il
rigore possono frenare l'emozione, ma moltiplicano l'efficacia dell'ironia e della satira». («Cahier du Cinéma», giugno 1952). In Italia se ne accorge solo Edoardo Bruno, uno dei lettori più lucidi dell'intera opera di Lattuada : « (...) questo film resta il film più compiuto di Lattuada, il film più studiato, frutto di osservazioni, di riflessioni, di intelligenza più che di immediate intuizioni poetiche. La poesia esce fuori dalla costruzione, dalla lenta aderenza delle parti, dallo stile, dalla architettura del film».
Claudio Camerini, Alberto Lattuada, Il Castoro Cinema, 1981

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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