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Pollock - Pollock


Regia:Harris Ed

Cast e credits:
Soggetto
: Steven Naifeh, Gregory White Smith; sceneggiatura: Barbara Turner Susan J. Emshwiller; fotografia: Lisa Rinzler; montaggio: Kathryn Himoff; musica: Jeff Beal; interpreti: Ed Harris (Jackson Pollock), Marcia Gay Harden (Lee Krasner), Amy Madigan (Peggy Guggenheim), Jennifer Connelly (Ruth Klingman), Jeffrey Tambor (Clement Greenberg), Bud Cort (Howard Putzel), John Heard (Tony Smith), Robert Knott (Sande Pollock), Val Kilmer (Willem De Kooning), Stephanie Seymour (Helen Frankenthaler), Tom Bower (Dan Miller), Matthew Sussman (Reuben Kadish), Sada Thompson (Stella Pollock), Molly Regan (Arloie Pollock), Eduardo Machado (Alfonso Ossorio); produzione: Fred Berner, John Kilik, James Trezza, Cecilia Kate Roque; distribuzione: Columbia; origine: Stati Uniti, 2000; durata: 118'.

Trama:Gli ultimi due anni della vita e della carriera del pittore americano Jackson Pollock, esponente di punta dell'espressionismo astratto, periodo in cui gli è accanto la moglie Lee Krasner, anche lei affermata pittrice.

Critica (1):«Mi ha affascinato la sua esistenza, mi ha conquistato la sua arte e mi sono immerso sino in fondo nel lavoro. Penso a Pollock come a una sorta di James Dean del pennello», dice Ed Harris, l’attore che ha interpretato il regista-mente in The Truman Show. Gli preme parlare del debutto da regista per il tanto a lungo accarezzato film Pollock, sin da quando il padre professore d’arte gli regalò un libro sull’odissea artistica, creativa e umana di quel ragazzo insicuro dell’Ovest, che poi divenne una figura chiave della pittura moderna americana. Con il viso incisivo, che ha prestato come prim’attore al suo film, Ed continua: «È stato un lavoro duro tutto il film, dovevamo fare tante copie dei suoi quadri e io dovevo riprodurli nell’action painting con il suo stesso furore d’artista, la stessa vulnerabilità nella vita». Il cinquantenne che in Apollo 13 e in The Right Stuff era un astronauta coraggioso e che nella vita è uno dei più radicali e selettivi attori di Hollywood, prosegue poi pensieroso: «Non ho mai pensato che il pittore dell’Ovest, l’uomo che veniva dai grandi spazi della California e dell’Arizona, avesse scoperto la sua materia dell’arte, geometrie e colori, grazie alla simbiosi con la natura e con il paesaggio». Racconta: «Mettendomi dietro la macchina da presa, ho ricordato le parole, giudicate un tempo presuntuose, di Oliver Stone: faccio e dirigo un mio film, giorno per giorno, affrontando tutti i problemi. È stato così anche per me e, parallelamente, entravo sempre di più in quel mondo di vita e arte, alcol e ricerche formali e incontri di Pollock, nella New York dove si ubriacava, amava la sua donna e pittrice Lee Krasner tra mille contraddizioni, incontrava i collezionisti, prima di approdare alle gallerie e di conoscere Peggy Guggenheim». Non ha mai avvertito la sottile paura che la complessa personalità, anche autodistruttiva, di Pollock entrasse nella sua pelle? «No – risponde - sebbene la mia adesione al ruolo fosse totale, anche nell’ascoltare quella musica jazz che Pollock amava sentire mentre dipingeva. Ho cercato la sua libertà, il suo ritmo. Sì, le copie dei suoi quadri sono rimaste alla produzione, l’aiuto che ci ha dato la Fondazione Pollock è stato enorme e a me di questo film che spero trovi una distribuzione nel mondo e che in America deve ancora uscire perché questa di Venezia è una prima mondiale di profondo significato, è rimasto dentro un sapore sanguigno e malinconico. Perché la vita di Pollock, come la sua arte, finì bruscamente a 44 anni, per un incidente d’auto. Forse cercava la morte, dopo aver superato ogni incertezza sulla sua vocazione. Pensava di aver terminato il suo ciclo vitale». Che cosa pensa Harris della moda dei film e dei libri biografie? «Non so generalizzare - risponde - so che in questo film io non ho inseguito solo l’artista in modo didascalico, ma la lotta che sempre si ripete tra la vita e l’arte, entrambe spesso vissute pericolosamente e, nel caso di Pollock, nei labirinti dei suoi quadri, che riflettono tutti la condizione moderna dell’uomo». Pensieroso, Harris parla dell’America, della sua arte, del suo cinema. Lui, sempre politicamente impegnato e che fu durissimo nella condanna all’Oscar a Elia Kazan, il regista connivente con le liste nere, dice: «Non posso neppure pensare che Bush jr diventi presidente senza considerare che, nel caso, dovrò emigrare. In quanto a Lieberman, non lo temo nelle sue censure, perché è un uomo che ha una cultura, una fede, quindi una profondità. Certo, penso che, in molti casi, farebbe meglio a star zitto».
Giovanna Grassi, Il Corriere della Sera, 8/09/2000

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Critica (2):È arrivato al cinema dopo una carriera da professionista nel football americano, ha la rara capacità dei grandi caratteristi americani di aumentare personalità e spigoli di un film con una manciata di apparizioni (da Apollo 13 a Truman Show) e benché i suoi occhi azzurri, il suo fisico squadrato, la sua apparenza da wasp sembrino uscite dalle stampe del più figurativo degli illustratori del sogno americano, Norman Rockwell, si è oggi avventurato nell’impresa di vestire i panni del più avanguardista e maledetto autore della pittura made in Usa, Jackson Pollock. Impresa resa incomparabilmente più rischiosa dal fatto che Ed Harris ha anche scelto come regista se stesso. Risultato? Positivo, perché Pollock soddisfa buona parte degli obiettivi che si propone. Prima di tutto, spiegare in maniera semplice, a tratti elementare, l’arte di un genio. Partito da Picasso e Kandinski, il pittore mirava d’istinto a superare ogni contenuto rappresentativo residuale delle avanguardie storiche (dal cubismo al surrealismo): il frastuono delle mille sgocciolature distribuite da un pennello che non tocca mai la tela è una forma pura, imprevedibile e necessaria come la distribuzione di fili d’erba e fiori su di un prato. Dall’incomprensione della critica («i suoi quadri sembrano la battaglia di Gettisbourg scarabocchiata da un bambino») alla celebrazione («il più grande artista americano contemporaneo» secondo Life) Harris – che per questa interpretazione guadagnò due anni fa una nomination – pedina la biografia del pittore avvalendosi degli aneddoti e dell’energia della sua improvvisa follia [...].
[...] L’essenzialità delle notazioni d’epoca (quasi tutte delegate alla radio), l’efficacia della piana ripresa del gesto nelle sequenze di realizzazione dei quadri accompagnate dalla bella musica di Jeff Beal, dotano il film, tratto da un romanzo biografico di Gregory Naifeh e Steven Whitesmit, di una robusta e nutriente tessitura anche nei momenti più didascalici. Non c’è luogo comune sull’artista romantico preda di un malessere abissale che trova salvezza nell’arte, di cui il film non ripercorra lo schema. Ma il suo valore sta proprio nel persuaderci della sua ovvietà. Non sospettiamo mai, quando ne godiamo il risultato nei musei, lo strazio di nervi in cui affonda la purezza di una forma. L’attore Ed Harris, con i suo attacchi di ira, il suo volto contratto e i suoi lampi d’ angoscia, una tavolozza caotica di vanità, desiderio di quiete, integrità artistica, egoismo e dolore, arriva anche più a fondo di quanto faccia il regista dallo stesso nome.
Mario Sesti, Kwcinema

Critica (3):

Critica (4):
Ed Harris
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