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Once were Warriors - Once were Warriors


Regia:Tamahori Lee

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo omonimo di Alan Duff; sceneggiatura: Riwia Brown dal romanzo omonimo di Alan Duff; fotografia: Stuart Dryburgh; montaggio: Michael Horton; scenografia :Michael Kane; musica: Murray Grindlay, Murray McNabb; scenografia: Michael Kane; suono: Kit Rollings; trucco: Guy Moana;interpreti: Rena Owen (Beth Heke), Temuera Morrison (Jake Heke), Mamaengaroa Kerr Bell (Grace Heke), Julian "Sonny" Arahanga (Nig Heke), Taungaroa Emile (Boogie Heke), Rachael Morris Jr. (Polly Heke), Joseph Kairau (Huata Heke), Cliff Curtis (Bully), Shannon Williams (Toot), Pete Smith (Dooley); produzione: Robin Scholes per Communicado prod. / New Zealand Film Commission /Avalon Studios / NZ on Air; distribuzione: Zenith; origine: Nuova Zelanda, 1994; durata: 102'.

Trama:Jake Heke, detto "the muss",che significa muscoloso/forte, è quasi sempre aggressivo e ubriaco. Beth Heke è una fiera discendente da una nobile stirpe dei Maori, che per amore ha tagliato i ponti con la sua gente. Sono sposati da 18 anni; lui la riempie di botte e la costringe a vivere nel degrado sottoproletario di Auckland, eppure lei continua ad amarlo. Ma ad un tratto la situazione precipita, coinvolgendo anche i figli: uno se ne va di casa per unirsi a una gang, un altro finisce al centro di assistenza sociale, la terza figlia, Grace, si suicida. Beth capisce allora che è giunto il momento di cambiare vita.

Critica (1):Once Were Warrios di Lee Tamahori, presentato al mercato di Cannes ’94, si segnalò subito come una delle pellicole più emozionanti viste in quell’occasione. Soprattutto avemmo la sensazione chiarissima che Rena Owen, la protagonista, si candidava seriamente ad essere una delle attrici più interessanti ed innovative degli ultimi tempi. La successiva presentazione nella sezione veneziana Finestra sulle immagini non fece altro che rafforzare quanto di buono s’era intuito sulla Croisette. Ora che il film esce anche nelle sale italiane, sull’onda dell’entusiasmo dei riconoscimenti che l’opera di Tamahori ha ottenuto a Montreal e della curiosità suscitata a Venezia, non possiamo fare meno di segnalare Once Were Warriors come un’entusiasmante ventata di novità in un panorama cinematografico desolante, dove al posto di discutere di cinema si disquisisce (ancora) stancamente di Gatt e antiGatt. La prima inquadratura del film è un tromp l’oeil. Un paesaggio naturale idillico si rivela essere, grazie ad un movimento verso il basso della mdp, un semplice cartellone pubblicitario. Ma la traiettoria della mdp continua, rivelando la presenza e i rumori di un’affollatissima arteria autostradale e una striscia di asfalto, separata solo da un reticolato di ferro dal flusso inarrestabile di automobili, che funge da marciapiede. Man mano che nell’inquadratura si inseriscono i materiali della realtà, ecco che Beth, la protagonista, fa la sua entrata in campo, spingendo tra i rifiuti della strada un carrello del supermercato con la spesa. L’analogia con le migliaia di senza tetto che girano con identici carrelli riempiti sino all’orlo di lattine da riciclare è fulminante. Se i registi si giudicano, tra l’altro, per come riescono a far entrare in scena i loro attori, allora è innegabile che Tamahori ha dello stile e un occhio vigile, attento. Poi Beth ci prende con sé e ci conduce alla scoperta del suo vicinato. Il nostro sguardo scivola morbido come una carrellata lungo i contorni di un paesaggio urbano inedito, i cui ritmi sono scanditi da improvvisate posse da strada il cui sound-system pompa raggamuffin’ ad alto wattaggio emozionale. Ed è attraverso la sovrapposizione del nostro sguardo con quello caldo di Beth che facciamo la conoscenza della sua famiglia. Brevi sorrisi di complicità solcano il suo volto fiero e dolente e il gioco è fatto, Beth ha acquisito diritto di cittadinanza imperituro nel nostro cuore. Ma dopo aver chiamato a raccolta gli affetti e i luoghi dove si svolge la vita della donna, Tamahori allarga il raggio d’azione della sua mdp e ci introduce, senza tanti complimenti, nelle viscere pulsanti del mondo dei sottoproletari maori dai muscoli ipertrofici, dai tatuaggi esibiti con orgoglio e dalla passione etilica di proporzioni omeriche. Tutto il prologo si svolge con una fluidità tale che pone in essere, in maniera del tutto naturale, un interno sistema di relazioni e di affetti che vivono sullo schermo con una autonomia stilistica assolutamente impressionante. Ma Tamahori non si limita solo a farci entrare nell’ennesimo sobborgo periferico degradato, per quanto esotico e poco frequentato cinematograficamente, bensì chiude se stesso e la sua mdp nello spazio domestico dell’abitazione di Beth e Jake, usandolo come punto d’osservazione privilegiato. Le traiettorie inquiete dello sguardo di Tamahori si scontrano con la limitatezza degli spazi della casa, ma soprattutto con i percorsi esistenziali che, secondo una legge non scritta, sono aprioristicamente incisi in essi (esemplificazione brutale, ma efficace, è il “chiudi la bocca e apri le gambe” che Maeve rivolge a Beth dopo che quest’ultima è stata selvaggiamente picchiata da Jake). Muovendosi lungo queste traiettorie Tamahori evoca il passato guerriero dei maori cui fa riferimento il titolo del film. In questo modo il regista pone in campo il problema di un’identità culturale violentata da secoli di colonialismo, la quale ha un bisogno urgente di riconquistare l’eredità delle proprie radici per potersi coagulare nuovamente intorno ad un progetto sociale. Legando dunque a questa esigenza primaria l’evoluzione sentimentale di Beth, Tamahori cambia, ancora una volta, segno al suo film trasformandolo in uno straordinario melò iniziatico, Beth infatti, man mano che avverte il proprio distacco emotivo dall’uomo che ha amato per diciotto anni, scopre la necessità insopprimibile di interpellare il proprio passato e le sue ragioni (nonostante in esso fossero presenti anche feroci pregiudizi di casta e razziali, dei quali ha fatto le spese Jake, come rivela egli stesso nel corso del film). In questi momenti Once Were Warrios vola alto. Grace, la più fragile tra i figli di Beth, conserva la memoria mitologica e fiabesca delle sue origini e funziona come monito nei confronti della madre che è immersa totalmente nel presente e, al tempo stesso, completamente sradicata dal suo passato. Anche la relazione di Grace con Toot (che vive nella carcassa di un’automobile) è esemplificativa di questa terra di nessuno nella quale vengono come fantasmi brandelli di una memoria dimenticata. Rispetto dunque agli spazi sofferti e angusti che delimitano/soffocano la vita di Beth, ci sono quelli ampi, vuoti, del paesaggio periferico e soprattutto del bar, enorme, frequentato da Jake e dai suoi amici. Da un lato abbiamo quindi una dimensione esistenziale (quella della casa) troppo piena di tutto, dall’altro (la vita di Jake, per es:) troppo vuota. La grossa intuizione di Tamahori è di inserire tra questi due poli così violentemente conflittuali la presenza invisibile del precipitato emotivo dell’eredità culturale della tradizione maori che pulsa dietro i sensuali arabeschi dei tatuaggi di Nig e che vive negli insegnamenti di Bennet, l’istruttore del riformatorio. La compresenza delle radici, significata negativamente attraverso i prodotti di scarto dell’esproprio operato dalla colonizzazione, denunciata quindi come essenza, vive costantemente sotto il pelo delle immagini. Il percorso di formazione di Beth sarà dunque all’insegna del recupero consapevole del suo passato. L’intelligenza di Tamahori sta nel far affrontare a ogni singolo membro della famiglia di Beth il suo medesimo percorso inziatico, ovviamente ognuno a modo suo. Infatti una delle sequenze più emozionanti del film è quella notturna nel riformatorio, quando Boog tronca bruscamente la conversazione con la madre angosciata, la quale tenta di spiegargli i motivi della loro visita mancata. Solo, nella palestra, al buio, inizia la danza rituale insegnatagli da Bennet, invocando il soccorso degli antenati. Qui Tamahori va molto oltre la ricostruzione sociologicamente corretta di un ambiente, per attingere compiutamente, ad una sconcertante epicità miliusiana, la quale si fonda in primo luogo su di una fisicità che si offre a sua volta come vettore privilegiato di una spiritualità da riconquistare a tutti i costi.
Giona A. Nazzaro, Cineforum n. 241, gen/feb 1995

Critica (2):Schiavi o guerrieri: è l'alternativa che si offre a quel 9% di anime non ancora morte, sospinte al Nord della Nuova Zelanda, amassate nella periferia di Auckland, tenute a bada con l'alcol e i sussidi statali. Birra e, quando va bene, pesce fresco in frigorifero. Tutte le sere si beve si canta e si fa festa e non importa se i ragazzi nella stanza accanto tremano e si stringono alla sorella più grande quando tutto finisce, come sempre, in tragedia. Il copione del degrado domestico, nel suo squallido monotono avvicendarsi, non soddisfa Lee Tamahori, che lo sviluppa in direzione anomala, sulla nota epico/ fatale dell'appartenenza a una stirpe in estinzione che manda tuttavia al suo interno e al resto del mondo crepuscolari bagliori di guerra.
Famiglia numerosa, quella degli Heke, ma tenuta insieme da labili fattori di coesione: una residua attrazione d'amore (penso ai videoritratti di Roberta Torre, dove una donna racconta: "... ogni lite, ogni rappacificazione, un figlio..."), la timorosa ammirazione dei bambini per il padre manesco e gradasso. Quando arriva il ciclone, le porte sono aperte. Come per gli amici che regolarmente Jake trascina in casa per la 'festicciola' serale, o per "zio" Bull che entra di soppiatto nel letto della nipote di 13 anni. Nel disordine, nell'intimità violenta si accende tuttavia il riflesso di una civiltà aristocratica che sovraccarica di fierezzaa i contrasti, li nobilita, li sublima, li fa degenerare. La storia non torna indietro ma poco lontano la terra degli avi è pronta a perdonare i vivi e accogliere i morti. L'orgoglio maori è senza dubbio la matrice del film di Lee Tamahari. Al suo primo contatto con il pubblico, i festival, i premi internazionali, il regista pone la pregiudiziale della sua identità etnica che l'ha indirizzato verso una storia (dal romanzo rivelazione di Alan Duff) con luoghi, personaggi e attori che ad essa appartengono e ne ha improntato la pratica espressiva, più vicina a un rituale di iniuinzione che non alla corsa all'oro dei conquistatori. Intreccio di tensioni fortemente interiorizzate, Once Were Warriors brucia per autocombustione: lo scontro sociale, volutamente escluso dalla rappresentazione, è un a priori invisibile che include lo spettatore in un dramma à huis clos che lo opprime e lo disorienta. Il destino segna limiti precisi alle illusioni e misura gli spazi dell'azione: dalla casa al bar, alle strade desolate, al quartier generale della gang, al cimitero di macchine dove il giovane amico di Grace ha scelto di vivere.
Tutto quello che "conta" è terribilmente lontano: persino il tribunale e il riformatorio sono irraggiungibili per Beth, che solo per un attimo può indicare alla figlia l'orizzonte lontano più limpido dov'è traccia del passato che la rende fiera. La casa santuario nei verdi pascoli, la Nuova Zelanda dell'immaginario. Il fuoco di una cultura antica come il mondo non si estingue neppure se imprigionato nei cerchi concentrici dell'ambito domestico, della comunità razziale, della periferia urbana, della Nuova Zelanda del Nord immersa nell'oceano. Il combattente depositario dell'atavica saggezza coltiva e conserva la "sua" violenza mentre lo schiavo la spreca subito senza scopo. È una lezione che sembra venire da tutto il cinema neozelandese che conosco i cui registi, Jane Campion ma anche Peter Jackson (Heavenly Creatures) e gli autori di "corti" Gregor Nicholas (Avondale Dogs), Venezia Finestra sulle Immapjni, come lo stesso film di Tamahori e Simon Bare (Eau de la vie, vincitore nella sua sezione a Torino Giovani) certo non disperdono energie in produzioni inutili. Se si può dire che ogni film neozelandese è un'isola, quella di Once Were Warriors, seppure inserita nell'arcipelago del cinema etnico e "di valori", è solitaria e lontana. Lo scontro materiale tra la forza "buona" e la brutalità è l'asse portante dello spettacolo d'azione, dalle origini fino alla decadenza e mutazione degli eroi. Ricorda la potenza fisica enfatizzata o irrisa, mai così clamorosamente sottoutilizzata: in quasi due ore di film Jake pesta (però quando lo fa, non scherza...) "soltanto" un cliente del bar, la moglie e l'imbelle fratello. Se dunque i muscoli (e gli altri attributi maschili di cui va orgoglioso il violentatore Bull) non sono che le malinconiche "escrescenze" (deformità) dei perdenti, alle figure femminili, cioè alla bellezza, è assegnato il compito di stabilire una continuità ideale col passato e verso il firturo. La purezza dell'immagi
nazione e la sacralità dei legami di sangue sono i valori assoluti che portano Grace al suicidio e Beth a raccogliere quel che resta e riprendere il cammino. Nell'impoverimento culturale dove ha avuto buon gioco l'arroganza degli schiavi, il quadernoltestamento di Grace, che contiene storie di fate ma anche la denuncia dello stupro, è il condensato simbolico delle speranze infrante, e insieme il detonatore delle contraddizioni. Alla sua morte momento di rendiconto estremo, fa riscontro la parola scritta alla quale altrettanto non si può sfuggire. Anche il film soggetto ferito, strappato, tenta di ricomporsi intorno a una possibile verità, seguendo l'intreccio dei percorsi di apprendimento, di recupero di energie, dei personaggi. Le arti marziali insegnano a raccogliere la forza della terra e a trasferirla nel proprio corpo. Un obbligo a crescere che non risparmia nessuno e chiama anche il primitivo Jake a una resa dei conti vindice e fratricida. Persino il riformatorio per Boogie, e la gang per Big si trasformano da fatti sociali, topoi del disagio urbano e della disgregazione familiare, in percorsi iniziatici. Tamahori li segue lungo la strada più impervia quella delle separazioni e delle perdite, dell'esperienza del dolore. Il film procede a strappi che lasciano ferite aperte, sanguinanti, non rimarginate dalla parola fine. Il montaggio secco batte a frustate. Due colpi di scena, la lezione di arti marziali e il primo piano, in automobile, dei giovani tatuati che "portano via" Nig, danno il via ai processi complementari che ridisegnano il volto e il corpo sulla forza interiore. E il premio non è una eclatante vittoria, ma il ritorno a casa. Il nucleo familiare disgregato non ha bisogno per ricostituirsi dei crismi borghesi (ruoli definiti, bella casa, lavoro). E sufficiente che adesso Nig sieda di nuovo a tavola. E che la parte del suo viso oscurata dall'ombra nera del tatuaggio maori possa coesistere con l'altra metà del volto, quella chiara.
Adelina Preziosi, Segnocinema n. 72, marzo/aprile 1995

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