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Notte a Bengali (Una) - Bengali Night (The)


Regia:Klotz Nicolas

Cast e credits:
Sceneggiatura: Nicolas Klotz con JeanClaude Carrière da "La Nuit Bengali" di Mircea Eliade; fotografia: Emmanuel Machuel; scenografia: Alexandre Trauner, Didier Naert; montaggio: Jean Françoise Naudon; musica: Brij Narayan; interpreti: Hugh Grant (Allan), Shabana Azmi (Indira Sen), Supriva Pathak (Gayatri), John Hurt (Lucien Metz), Soumitra Chatterjee (Narendra Sen), Anne Brochet (Guertie), Pierre-Loup Rajot (Harold); produzione: Philippe Diaz; distribuzione: Gaumont e Indipendenti regionali; origine: Gran Bretagna, 1988; durata: 92'.

Trama:A Calcutta nel 1930 Allan, un giovane ingegnere europeo curioso dell'India e dei suoi misteri, viene assunto nell'impresa del ricco e attempato bramino Narendra Sen, il quale gli affida ad Assam l'ispezione dei terrapieni e dei ponti lungo una linea ferroviaria. Contratta la malaria, il giovane viene ricoverato d'urgenza in un ospedale di Shillong, e di qui trasferito a Calcutta, per interessamento del suo datore di lavoro, il quale – non appena si riprende – lo invita, con viva sorpresa del giovane, a trascorrere la convalescenza nella propria confortevole abitazione, Con l'evidente pretesto di trattenerlo, gli affida poi la cura di un catalogo della propria ricca biblioteca, e di impartire lezioni di francese alla figlia sedicenne Gayatri. In realtà Narendra si propone di adottarlo, per colmare il desiderio di un figlio maschio...

Critica (1):Calcutta, inizio anni Trenta. Un giovane inglese è accolto nella casa del suo imprenditore bengalese. Mal interpretando le intenzioni del capofamiglia e i turbamenti della sua giovane figlia il protagonista ritiene di dover corteggiare la ragazza, ma l'inganno gli costerà l'ospitalità. Anche questa rapidissima sintesi permette di capire che il nucleo drammatico di Una notte a Bengali è quello dello scontro tra civiltà e culture diverse. Proprio come Passaggio in India di Forster-Lean, ma con risultati, almeno sullo schermo, più convincenti. Klotz, coadiuvato dal co-sceneggiatore Carrière, ha racchiuso la storia in pochi ambienti ben disegnati da Trauner, evitando di disperdere nell'esotico e nell'inusuale la lezione antropologica e morale. (Male, molto male, lo aiuta invece il curatore dell'edizione italiana infliggendo un titolo ridicolo che presume l'esistenza della città di Bengali, mentre il "Bengali" del titolo è solo un aggettivo e significa "bengalese" cioè del Bengala). La misura e la precisione del segno di Klotz sono rari e si annunciano tali fin dal prologo, dove un reporter inglese s'introduce, scortato dal protagonista, nella casa dei Sen e cerca di rubare con la sua macchina fotografica, anime e volti dei personaggi femminili. Allan, il protagonista, vivendo dentro quelle mura, si dimostra più accorto. Conosce la discrezione e (apparentemente) rispetta le individualità dei propri interlocutori, ma, nei suoi confronti, il familiare approccio della famiglia Seri appare insinuante o almeno così viene interpretato. "E' stato tuo padre ad incoraggiarmi: l'ho sempre pensato", si giustifica il protagonista facendo le proprie avances a Gayatri, ma la ragazza gli offre una verità opposta: "Ti hanno invitato come un figlio". L'inganno rappresenta il fallimento più completo di un rapporto interpersonale pieno di silenzi e gesti in apparenza minimi. Si parla di alberi e di fiori, come in una miniatura su carta di riso. la scintilla della seduzione passa attraverso un segno inatteso: una bella calligrafia. Lo stesso abbigliamento nasconde problemi perché le case bengalesi sono troppo differenti da quelle inglesi perché possa valervi la stessa etichetta. L'interesse del film è certamente da addebitare anche a Mircea Eliade, da un cui testo è stata tratta la sceneggiatura. La storia è in parte autobiografica. Anche Eliade, grazie all'aiuto generoso di un marajah, fu in India tra il '28 ed il '31, l'epoca in cui è ambientato il film; anche Eliade, allora ventitreenne, si innamorò della figlia del suo ospite, il filosofo Dasgupta; anche Eliade travolto dallo scandalo di quella relazione, dovette abbandonare la casa e (addirittura) nascondersi in un ashram dell'Himalaya. Non conosciamo il libro d'origine, ma ci sembra doversi iscrivere nel segmento più interessante dell'ampia opera dello storico rumeno, quando, inquieto ricercatore della condizione dell'uomo, seppe condurre penetranti analisi di situazioni morali. I1 testo narrativo, a differenza dei saggi così a lungo praticati, crea per Eliade un felice ostacolo naturale a quell'elaborazione di ipotesi generali sulla condizione dell'uomo o su un universo metastorico di teofanie di archetipi al quale è legata la parte più caduca (e reazionaria) della sua ricerca. Alla fine dell'avventura in casa Sen, Allan viene estromesso con una lettera del capofamiglia che non sembra consentire appelli: "Non ti conosco, sei uno straniero, non sei capace di considerare qualcosa di sacro nella tua vita. Ti prego di non entrare più nella mia casa. Se un giorno vorrai scrivermi fallo pure, ma da straniero a straniero". Klotz concorda e chiude il film sulla riaffermazione della incomunicabilità delle culture. Gayatri sviene dopo aver tracciato sul pavimento della terrazza un misteriosa arabesco alla luce di un grande candelabro, Allan raggiunge la piccola colonia occidentale che non conserva più nulla della propria matrice, ma che nulla ha apprese dalla terra che l'ospita. Ma questa parabola sull'impossibile incontro fra due mondi, pur ricca di un con :veniente sviluppo drammatico, qua e là cade vittima di due pregiudizi. Uno contro la società occidentale, c almeno quel segmento trapiantato in Ben.gala, ritratta come sbandata e priva d'ancoraggio. E uno a favore della società indiana, di cui viene taciuto che il presunto equilibro si fonda anche sulla repressione sociale e sentimentale.
Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 303, aprile 1991

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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