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Maschio e la femmina (Il) - Masculin Féminin


Regia:Godard Jean-Luc

Cast e credits:
Soggetto: dalle novelle Guy de Maupassant "La femme de Paul" e "Le signe"; sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Willy Kurant; musiche: Francis Lai, Jean-Jacques Debout; montaggio: Agnès Guillemot; interpreti: Brigitte Bardot (la coppia nel bar), Antoine Bourseiller (la coppia nel bar), Chantal Darget (la donna nel metro'), Michel Debord (Robert), Catherine I. Duport (Catherine), Chantal Goya (Madeleine), Françoise Hardy (amica dell'ufficiale), Marlène Jobert (Elisabeth), Elsa Leroy (mademoiselle 19 ans), Birger Malmsten (l'uomo nel film), Eva Britt Strandberg (la donna nel film), Jean-Pierre Léaud (Paul); produzione: Philippe Dussart, Anouchka Films e Argos Films (Parigi) - Svensk Filmindustri E Sandrews (Stoccolma); distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Francia, 1966; durata: 110’.Vietato 18

Trama:È un film sui giovani e sulla solitudine, specie femminile nella società consumistica in cui il ruolo della menzogna è molto condizionante. Molte gag,anche umoristiche, una sola morte, quella del protagonista Paul (Léaud) anche in questo film alter ego del regista.

Critica (1):Apparso nel '66, subito dopo Pierrot le fou, Masculin féminin (...), è un film chiave nell'opera di Godard: una riflessione in quindici quadri sul modo di fare cinema e un'acuta premessa a ciò che verrà in seguito, da Made in Usa a La cinese.
Come Nanà di Vivre sa vie e la donna sposata che dà il titolo a uno dei film più noti del regista, il giovane Paul di Masculin féminin fa, o cerca di fare, dell'attenzione e della curiosità un abito morale e una consuetudine dell'intelligenza contro le insidie della "distrazione", del lasciarsi vivere accettando l'oggettività" del mondo, dell'ordine e dei rapporti costituiti, delle cose come sono. Ma, rispetto a quello dolce e paziente di Nanà e a quello di Charlotte, più curioso che inquieto, lo sguardo di Paul ha l'aggressività e la disperazione di chi avverte che il mondo e l'uomo a una dimensione sono già una realtà, riscontrabile ogni giorno.
Parigi è ormai diventata una grande Alphaville, o è Alphaville che ha invaso Parigi, fa lo stesso. Nei volti e nei gesti degli uomini Paul può leggere soltanto monotonia, ripetizione, inautenticità. L'intervista con Elsa, splendido e inerte prodotto di consumo, per la quale termini come reazionario e rivoluzionario sono intercambiabili, è molto più che una civetteria. Le riserve e le difese del protagonista, dunque, stanno tutte e soltanto nella domanda e nella provocazione che egli esercita sugli altri. Intervistatore "professionale", il giovane porta, nei suoi rapporti quotidiani, questa tendenza ossessiva a interrogare, a rendersi conto, a capire almeno in parte ciò che sta accadendo.
Il film registra fedelmente il fallimento di questo tentativo: "intervistare" non significa ancora comprendere, raccogliere dati è molto meno che scegliere, l'analisi e lo studio dei "comportamenti" sono quasi sempre un alibi, la copertura sociologica di una falsa neutralità. Immaturo per la scelta, ma non per la coscienza del proprio fallimento, Paul "muore". E con lui muore anche una parte di Godard, il Godard distaccato e contemplativo, con i suoi repertori di atteggiamenti e consuetudini ricavati da una lucida osservazione della società e del costume ma non ancora sottoposti alla verifica dell'intelligenza e alle prospettive dell'immaginazione.
In questo senso l'esperienza e la morte di Paul sono molto diverse da quelle di Pierrot, che si lasciava alle spalle una "civiltà" in cui non si riconosceva e sublimava nel suicidio il rifiuto di una disumanità incombente da ogni lato. Paul vive sino in fondo la sua vicenda dentro le strutture di quella civiltà, attento a non lasciarsi assorbire, opponendole il contravveleno della propria presenza a se stesso e agli altri e cercando di cogliere tutto ciò che è scarto dalla norma, rifiuto, negazione, dal feroce sarcasmo di un negro contro i consumatori bianchi di Bessie Smith o di Charlie Parker al gesto assurdo del pacifista che si dà fuoco davanti all'ospedale americano per ricordare che nel Vietnam la gente brucia al napalm ogni giorno. Il volto allucinato e nevrotico di Jean-Pierre Léaud, interprete assai congeniale all'ultimo Godard, si colloca così tra le presenze più intense della filmografia godardiana.
Tuttavia Masculin féminin è solo in parte un film ideologico-riflessivo. Tutta una zona del racconto, quella dei rapporti fra Paul e Madeleine, ci riporta infatti a un antico discorso del regista, che risale al suo primo lungometraggio. In Madeleine ritroviamo l'ambigua misura di candore e crudeltà delle prime eroine di Godard: da questo punto di vista, anzi, il titolo originale si può considerare quasi il paradigma di certe inclinazioni misogine dell'autore, che sono poi il rovesciamento della sua disposizione romantico-elegiaca. Con tutto ciò non voglio dire che questa parte sia meno "bella" dell'altra. Tralasciando alcuni aspetti marginali ed esterni – i rapporti fra Madeleine e l'amica; il gusto di riprendere, scombinare e ricomporre il "triangolo" eterodosso di Jules e Jimsi deve anzi riconoscere che qui vanno ricercati alcuni dei momenti di più intensa felicità descrittiva. Basti, per tutti, il bellissimo dialogo fra Paul e la ragazza nella toilette, con quel gioco pungente, provocatorio e difensivo a un tempo, dietro il quale essi nascondono le reciproche diffidenze e apprensioni.
Voglio dire che le due zone del racconto non si saldano in modo persuasivo, rischiando di spezzare il film in due tronconi. È chiaro, ad esempio, che il lavoro di Madeleine, la sua fragilità di fronte ai miti del consumo e del successo, non sono affatto estranei alla difficoltà e al fallimento del suo rapporto con Paul, molto più tormentato e problematico della compagna. Ma il regista si accontenta di introdurre questo motivo, col rischio di riportare la vicenda amorosa dei protagonisti nell'alveo di quella dialettica di tenerezza-crudeltà che è uno degli aspetti costanti, e più discutibili, del primo Godard. Come del resto, sull'altro versante, l'inquietudine e l'insoddisfazione "politica" di Paul risultano ancora reticenti e vagamente generazionali. Sono nodi, questi, che si scioglieranno non a caso ne La cinese, confluendo, chiarificati se non risolti, in un unico discorso.
Con tutto questo, oltre ad assumere oggi una collocazione e un significato quasi emblematici nella storia di Godard, Masculin féminin è uno dei film più ispirati e pungenti del regista. Frutto di un momento di crisi e di riflessione, ricco di implicazioni e di risvolti autobiografici, esso risolve e decanta i propri umori in un ragguaglio fermo e oggettivo, in cui l'ironia e l'intelligenza di molti dialoghi e situazioni dominano, non senza sforzo, un fondo inquieto e commosso, un'urgenza di provocarsi e di provocare che si avverte in tutto il film, come un controcanto intenso e persistente. Mentre esso risulta poi ricchissimo di presentimenti e di anticipazioni: il "testamento" di Paul sulla necessità di opporre la propria coscienza all'autoritarismo e all'opinione corrente ritornerà sulla bocca della protagonista di Made in Usa, gli sventramenti e le trasformazioni di questa Parigi fredda e distratta faranno da sfondo alla vicenda di Due o tre cose che so di lei, l'appartamento in cui avvengono gli incontri e gli scontri di questi ragazzi ospiterà il piccolo collettivo de La cinese. E in quanto a Paul, senza il suo volto pallido e teso di perseguitato dalle proprie e dalle altrui contraddizioni e il suo ossessivo interrogarsi e interrogare, senza il senso che acquistano il suo modo di vivere e di scomparire dalla vita, non potremmo capire nulla di ciò che Godard è e vuole essere oggi. Certo, La cinese e, a maggior ragione, Week-end sono meno composti e dominati di Masculin féminin, ed è ovvio, perché questo è la ricapitolazione e la messa in forse di una poetica, di un atteggiamento, di un modo di guardare le cose, ma ancora "dall'interno", mentre quelli sono già un altro discorso, che viene facendosi sullo schermo davanti a noi, cinema tutto al presente, senza certezze e messaggi da declamare ma, in compenso, con la tensione di far sentire nel cinema tutto "il resto" e di fare del cinema un modo e uno strumento per documentarlo, conoscerlo, farlo esplodere.
Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Edizioni Falsopiano, 2005

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