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Parapluies de Cherbourg (Les)


Regia:Demy Jacques

Cast e credits:
Soggettoe sceneggiatura: Jacques Demy; fotografia: Jean Rabier; musiche: Michel Legrand; montaggio: Monique Teisseire, Anne-Marie Cotret; scenografia: Bernard Evein; interpreti: Catherine Deneuve (Genevieve), Nino Castelnuovo (Guy), Anne Vernon (M.Me Emery), Marc Michel (Roland cassare), Ellen Farner (Madeleine), Mireille Perrey (Zia Elise), Jean Champion (il garagista), Pierre Caden (Bernard), Jean-Pierre Dorat (Jean), Harald Wolff (Dubourg); produzione: Parc Film, Madeleine Films, Beta Film; origine: Francia-Germania, 1963; distribuzione: Lab80; durata: 91’.

Trama:Geneviève vive con la madre, vendendo ombrelli nel negozio di loro proprietà. La ragazza è innamorata di Guy, un meccanico al quale si concede poco prima della partenza del giovane per l'Algeria. Durante l'assenza di Guy, Geneviève è costretta a rivelare alla madre d'essere incinta, notizia che si aggiunge alle altre preoccupazioni della donna che si trova in grave situazione economica. Le due donne vengono aiutate però da Roland Cassard che, innamoratosi di Geneviève, la chiede in sposa. Geneviève gli confessa il suo stato; delusa dall'inesplicabile silenzio di Guy e convinta dei profondi sentimenti di Roland, che non ritira la sua proposta, lo sposa. Quando Guy torna dalla guerra trova conforto in Maddalena, una dolce ragazza che finirà per sposare. Qualche tempo dopo, Guy vedrà di sfuggita Geneviève; ma i due si separeranno immediatamente, felici ciascuno della nuova esistenza, anche se nel loro cuore non è del tutto spento l'affetto che li ha un tempo uniti.

Critica (1):Les parapluies non è un’opera, né una commedia musicale, né un’operetta. Si tratta di dialoghi cantati, in cui la musica fa da sostegno al testo e viceversa. Si capiscono tutte le parole, senza che sia mai sforzato il lirismo delle voci, e la musica, di conseguenza, espone temi molto semplici e, perché no, popolari e generosi. Questo non ha niente a che vedere con West Side Story, per esempio, anche se ho dovuto usare la tecnica del play-back. Non c’è nessun ballo, ma è tutto cantato. È un film-jazz, un film “in-cantato”, per essere più precisi.
Jacques Demy, Arts

Critica (2):Io vedo i film – almeno, quelli che mi sembrano degni di questo nome – come delle curve nello spazio; come linee graziose, austere o capricciose. Una curva continua nello spazio può interessare molte superfici, ciascuna delle quali non è tutto il film, ma tali che il film tutto è compreso in ciascuna di esse. Il metodo critico consiste pertanto nello studiare come di volta in volta questa curva nello spazio si stende su ciascuna superficie; vale a dire nell’analisi della struttura del film e nella ricerca di quel che significano le scelte della regia.
Prima superficie: le convenzioni, o il “melodramma”. Il ragazzo disorientato al ritorno dall’Algeria; la giovane ragazza- madre, che non se lo meritava, mal consigliata; la crudele separazione; il tenero amore comprensivo di una persona più giovane; la felicità, anche se, come tutti sanno, non è una cosa allegra… Il bello è che queste convenzioni non sono ridicolizzate, ma sono utilizzate a tutti i livelli. Ogni ambiente è guardato in modo specifico e, appena una porta si apre, ci salta agli occhi il profumo particolare del nuovo universo che vi si intravede. Nello stesso modo, la nota scelta per esprimere la sillaba è, tra tutte le possibili interpretazioni, la sola che conviene al tutto, secondo quanto si desiderava: la più vicina al sentimento convenzionale che si deve esprimere. In questo modo viene costruita, al di là delle parole, ma attaccata ad esse, questa falsa entità che ci si ostina a chiamare la musica del film.
Seconda superficie: la fragilità. Tutto il film sta sotto questo segno; contrariamente a Splendore nell’erba, spesso menzionato, Les parapluies non è un film sul tempo, ma un film che tiene conto del tempo. In quanto tale, esso tratta di ciò su cui il tempo ha maggiormente presa: le cose, i sentimenti e le persone fragili. Esempi: Geneviève di fronte al suo amore troppo grande (i suoi sguardi alla macchina da presa, un’idea semplice e ripresa in modo geniale, come tanti ritratti di ragazza-che-implora-indulgenza); l’amore di Guy di fronte alla sua intransigenza; la zia Elise e M.me Emery stessa, morte. Di sfuggita, il dolore di Geneviève e il segno sul muro, sotto il ritratto portato via, nella camera di Elise, mentre in Kazan le foto mancanti di Warren Beatty tenevano tutto lo schermo.
Terza superficie: il fascino. Non mi dilungherò a questo proposito, ho detto nella premessa che era rischioso soffermarvisi. Il film ne è attraversato, come da un’elica: sempre in moto su se stessa, sempre un po’ nascosto dietro ad essa.
Quarta superficie: le donne. È per mezzo di esse che Demy attinge alla dialettica. Mobili, inattese, patetiche persino nelle parti che esse recitano con se stesse, formano un tutto unico, indissociabile, che assicura la continuità del suo universo. E bisogna essere davvero ingenui, più ingenui di quanto non sembri lo stesso Demy, per non abbracciare con un unico sguardo, tenero ed esclusivo, Lola, La baie des anges, e Le parapluies de Cherbourg. Dall’uno all’altro, in questi film, grazie ai caratteri femminili, si snoda questa costante negazione delle apparenze, si comincia a capirlo, mi sembra essere il segno del gran talento e della ricchezza morale. (Gli uomini, invece, sono trattati come dei monoliti: Jean, Michel, Guy ed anche Roland, che dopo Lola ha perduto la sua fluidità. Spesso sono tutti d’un pezzo, tranquilli persino nella disperazione, agiscono soltanto all’interno di schemi perfettamente razionali).
Quinta superficie: i riferimenti, o l’universo critico. Dall’avvento degli autori cinefili, ogni grande opera si nutre del patrimonio cinematografico, ma per meglio giudicarlo. Per noi l’interesse è duplice: scoprire i veri film-”summa” e studiare le loro riflessioni. Qui, tralasciando i riscontri formali, omaggi alla commedia musicale (per esempio, personaggi che formano sipario all’inizio di una scena, in raccordo alla precedente), i richiami vanno a Bresson e a Ophuls. In Guy, c’è l’universo bressoniano, in particolar modo quello di Pickpocket: costruzione e sentimenti, la camera e la chiesa, in uno stretto parallelo, richiamano irresistibilmente il trio formato da Jeanne, Michel e sua madre; mentre la fragile Geneviève, mal sopportando l’assenza e il peso del suo amore, ci fa piuttosto pensare a una giovane Madame de. Tenendo presenti le lezioni di ognuno, filmando con un’agilità e una naturalezza che gli permettono insomma ogni tipo di audacia, Jacques Demy rivela tuttavia un temperamento di cui non è debitore se non a se stesso: uno stile legato a clamorose rotture, curiosamente trattenuto, padrone di quella virtù essenziale nel cinema, il respiro. E siano a questo proposito oggetto di denunzia coloro che, come Baratier o Deville, confondono ritmo e agitazione.
Sesta superficie: la grandezza. Ogni evento si richiude su se stesso e, nello stesso tempo, si apre su un altro, assicurandoci la propria irreversibilità. A tal punto e con tale perfezione che il film, che senz’altro bisogna andare a rivedere, a ri-imparare il ricordo, e lo strazio che esso provoca. Un solo esempio: gli addii alla stazione, dove, in un’unica scena, al colmo dell’emozione degli innamorati, ci viene preannunziata la sconfitta di Geneviève, che volta la schiena al treno e scompare.
P. Vecchiali, Cahiers du Cinéma n. 155, 1964

Critica (3):

Critica (4):
Jacques Demy
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