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Ragazza di Rose Hill (La) - Femme de Rose Hill (La)


Regia:Tanner Alain

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Alain Tanner; fotografia: Hughes Ryffel; suono: JeanPaul Mugel; montaggio: Laurent Uhler; interpreti e personaggi: Marie Gaydu (Mie), Jean-Philippe Ecoffey (Jean), Denise Péron (Jeanne), Roger Jendly (Marcel), Louba Guertchikoff (la madre di Marcel), André Steiger (il padre di Jean), Jacques Michel (il commissario), Marie-Christine Epiney (l'amica di Jean); produzione: Filmograph SA/ Gemini Films / GPFI/ Westdeutscher Rundfun/ SSR/ Film Four International / Airone Cinematographica / con la partecipazione dell'Office Fédèral des Affaires Culturelles, del CNC, del Comune di Ginevra e della Fondation Vaudoise por le cinèma; origine: Svizzera, Francia, 1989; durata: 98'.

Trama:Vicessitudini di Julie, ragazza di colore, sposata per corrispondenza ad un maturo agricoltore del cantone svizzero di Vaud.

Critica (1):"(...) una intesa sorpresa, resoconto di un fatto di cronaca nei modi e nelle atmosfere del grande cinema psicologico.
Il regista dice di aver trattato spunto per la sua storia storia dalla visione fuggevole di una donna di colore nel Cantone di Vaud. Non è un film sul razzismo anche se i pregiudizi razzistici ne fanno parte.
In effetti, l'animo dello spettatore non è catturato dalla simpatia per la ragazza nera: anche lei fa deliberatamente il suo gioco. Tutti sono colpevoli, ma il finale improvvisamente cruento appartiene alle nostre peggiori inclinazioni contro la diversità. Un contadino svizzero sposa una ragazza scelta sul catalogo di un'agenzia: è una principessa nera di un'isola dell'Oceano Indiano che ha trovato solo nel matrimonio il mezzo per uscire dal proprio paese. Ben presto, la convivenza tra la ragazza nera, che ha le treccioline strette come Gullit, e il contadino gentile ma rozzo, si rivela impossibile.
Dopo aver trascorso alcuni giorni sul letto chiusa in un'espressione imbronciata, la sposa fugge e si lascia cadere tra le braccia del seduttore del paese, figlio di un industriale. Quando resta incinta, la ragazza non pensa lontanamente ad abortire: con la complicità di una vecchia zia del suo compagno, si crea uno spazio privato, interdetto a tutti gli estranei che non avrebbero voluto il bambino. E se tra i nemici del piccolo mulatto ci fosse perfino il suo papà? Anche per lui la porta di casa si chiuderebbe.
Nella solitudine in cui la ragazza nera s'è isolata cade la vendetta del vecchio imprenditore, un ordine di espulsione entro mezz'ora per lei e il bambino. Seguono, nel silenzio un poco sonnacchioso della campagna invernale svizzera, alcuni gesti di violenza irrevocabile. Il padre del bambino, convocato per telefono, spezza un bastone sul capo di un poliziotto e lo ferisce gravemente, lui stesso è colpito a morte da un colpo di pistola sparato, sembra, per legittima difesa. Il fatto è che la preparazione dei poliziotti non è in dubbio, come sembra credere il capo dei gendarmi, ma è in questione l'atteggiamento razzista che vede un pericolo in ogni situazione che coinvolga un forestiero. Raccontato per frasi semplici e asciutte, il fatto di cronaca di Alain Tanner, è una rara gemma invernale: a ondate lente e plumbee il razzismo si raccoglie intorno al bellissimo corpo di Julie, la ragazza nera interpretata da Marie Gaydu. Del resto, era stato Tanner in Une fiamme dans mon coeur a mettere in rilievo l'importanza della bellezza dei corpi nel gioco amoroso di coppia; qui si segnalano le scene centrali in cui più forte risplende l'amore fisico tra i due. Certi abbracci languidi dopo le nottate di fredda caligine... La vecchia zia, nel filone ormai accreditato dal festival di signore anziane un poco tocche, mostra la sua indole saturnina con le mille maldicenze sulla gente del paese e con una solitudine sopportata con civile fermezza. Non sarà un caso che in molti film di Venezia la libertà ha le forme della bizzarria o addirittura della malattia mentale? L'accusa alla società del benessere di coltivare in sè i germi del razzismo s'arricchisce di un particolare significato se viene da uno svizzero.
Stefano Reggiani in La Stampa 13.9.89

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Critica (4):
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