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'Round midnight - A mezzanotte circa - 'Round midnight


Regia:Tavernier Bertrand

Cast e credits:
Sceneggiatura
: David Rayfiel e Bertrand Tavernier, da episodi della vita di Francis Paudras e Bud Powell; fotografia: Bruno De Keyzer; art director: Alexandre Trauner; montaggio: Armand Psenny; costumi: Jacqueline Moreau; musica: composta, arrangiata e diretta da Herbie Hancock; «’Round Midnight» (Th. Monk, Cootie Williams, Bernie Hanighen); «As Time Goes By» (Herman Hubfeld); «Society Red» (Dexter Gordon); «Fairweather» (Kenny Dorham); «Now’s The Time» (Ch. Parker); «Una Noche Con Francis» (Bud Powell); «Autumn in New York» (Vernon Duke); «Minuit aux Champs-Elysées» (Henri Renaud); «Body And Soul» (Edward Heyman, Robert Sour, Frank Eyton, Johnny Green); «Watermelon» (Herbie Hancock); «The Peacocks» (Johnny Rowles); «It’s only a Papermoon» (Billy Rose, E.Y. Harburg, Harold Arlem); «Tivoli» (Dexter Gordon); «How Long Has This Been Going On» (I. e G. Gershwin); «Put It Right Here» (Bessie Smith); «Rythm-A-Ning» (Th. Monk); «I Love Paris» (Cole Porter); «I Love The Party» (Herbie Hancock); «What Is This Thing Called Love» (Cole Porter); «Chan’s Song» (Herbie Hancock, Stevie Wonder); suono: Michel Desrois, William Flageollet; interpreti: Dexter Gordon (Dale Turner), François Cluzet (Francis Borier), Gabrielle Haker (Bérangère), Sandra Reaves-Phillips (Buttercup), Lonette McKee (Darcey Leigh), Christine Pascal (Sylvie), Herbie Hancock (Eddie Wayne), Bobby Hutcherson (Ace), Pierre Trabaud (padre di Francis), Frédérique Meininger (madre di Francis), Liliane Rovere (M.me Queen), Hart Leroy Bibbs (Herschel), Ged Marlon (Beau), Benoît Régent (Io psichiatra), Victoria Gabrielle Plall (Chan), Arthur Franch (Booker), John Berry (Ben), Martin Scorsese (Goodley); con la partecipazione di Philippe Noiret (Redon), Alain Sarde (Terzian), Eddy Mitchell (un ubriaco); musicisti al Blue Note: Billy Higgins (batteria), Palle Mikkelborg (tromba), Wayne Shorter (sax soprano), Mads Vinding (basso), John Mc Laughlin (chitarra); a Lyon: Cheikh Fall (percussioni), Michel Perez (chitarra), Wayne Shorter (sax soprano), Mads Vinding (basso), Tony Williams (batteria); a New York: Ron Carter (basso), Freddie Hubbard (tromba), Cedar Walton (piano), Tony Williams (batteria); produzione: PECF – Little Bear Production; distribuzione: Cineteca del Cinema Verdi; origine: Usa / Francia, 1986; durata: 131’.

Trama:Dale Turner, un grande sax tenore, torna a Parigi nel 1959 dopo 15 anni di assenza e delizia i suoi fans con il meraviglioso modo di suonare, che lo colloca all’altezza di altri grandi sassofonisti di quegli anni. E’ uno specialista del be-bop e lo sa bene il giovane pubblicitario Francis Borier che, sprovvisto di mezzi, passa le serate sul marciapiede antistante il Blue Note, pur di ascoltare l’artista di cui possiede fin da ragazzo tutte le incisioni. Dale è un uomo gigantesco e semplice, ma è anche un ubriacone e i suoi guadagni vengono regolarmente e prudentemente versati a Buttercup la sua compagna. Una sera Francis si fa coraggio, si presenta ed offre al suo idolo, su richiesta, una birra e con ciò ne diventa amico. Il giovane (divorziato e che vive con la sua bambina Berangere) lo assiste, lo aiuta sempre e pazientemente; di tanto in tanto gli consente una moderata bevuta di “rouge”; lo recupera nei bar più infimi, nei commissariati e negli ospedali, stabilendo con quell’uomo candido e che vive unicamente per la musica un eccezionale rapporto, fatto di ammirazione, di bontà e di amicizia. Dale Turner passa a Parigi un bellissimo periodo al tramonto della sua vita, ritrovando tutta la forza e la freschezza del suo talento creativo, suonando il sassofono e affascinando appassionati vecchi e nuovi, vivendo in pace con il giovane francese e la sua piccola, incidendo dischi e perfino rinunciando al vizio del bere. Finchè un giorno l’America lo richiama: Dale Turner torna a casa e Francis lo accompagna a destinazione. Ma l’America è dura, il vecchio misero alberghetto di un tempo accoglie l’artista, il suo agente è efficiente, quanto cinico e sbrigativo. Francis ha in tasca i biglietti per tornare tutti e due a Parigi: Dale promette, ma le sue radici sono a New York e là rimane. Una sera, un telegramma annuncia a Francis che il suo gigantesco, straordinario amico è morto. Non gli resta che visionare di continuo, accanto alla bimbetta, i piccoli film con cui ha ripreso ed eternato quel grande artista e riascoltare sui dischi quel suono immacolato ed intenso, ormai entrato nel mito, che lo aveva incantato fin dall’infanzia.

Critica (1):A scanso di equivoci, mettiamo subito le cose in chiaro. Non crediamo, come i redattori di «Positif», che Bertrand Tavernier sia uno degli autori più importanti dell’ultimo decennio, così come troviamo francamente esagerate le recensioni «ad insulto» di cui regolarmente lo gratificano i «Cahiers». Nella sua ostentata, colta medietà, nella sua «popolarità» che esclude impennate linguistiche, nel suo cosciente recupero di quei «cineasti di papà» contro i quali aveva tuonato la nouvelle vague, il cinema del regista lionese non ci sembra affatto tale da esaltare o deprimere; tantomeno, da diventare terreno di scontro tra opposte fazioni. Solidamente costruito su sceneggiature di ferro, secondo la migliore tradizione francese degli anni Trenta–Quaranta (di cui fanno fede le firme, prestigiose ma un po’ démodé, di Aurenche e Bost), su grandi attori, su collaboratori tecnici di prim’ordine (i vari Trauner e Psenny, Glenn e De Keyzer), quello di Tavernier è anche un cinema consapevolmente intriso di musica, sia attraverso la mediazione «professionale» di un Sarde o di un Duhamel, sia per intervento diretto del regista. Sotto questo profilo, ci pare non esista praticamente soluzione di continuità tra ‘Round Midnight e Una domenica in campagna. Qui, infatti, la deliziosa musica da camera di Gabriel Faure non veniva solo utilizzata per definire un’epoca e un ambiente culturale, ma diventava paradigmatica della situazione del protagonista, un rispettabilissimo «minore» che aveva accettato con civile malinconia il proprio ridimensionamento di fronte alla rischiosa vertigine della «ricerca dell’assoluto».
Questa premessa la facciamo, soggettivamente, per spiegare, anche a noi stessi, il commosso stupore con il quale abbiamo accolto ‘Round Midnight, che ci sembra, e non di poco, il film migliore di Tavernier; oggettivamente, per individuare fin dall’esordio un filo conduttore con le opere precedenti del regista. Rispetto alle quali sono evidentemente enucleabili altre costanti «d’autore», dall’ambivalente rapporto padre-figlio (...), all’intreccio di storie e Storia, al tema della memoria che sconfina nell’autobiografia (la parentesi lionese).
Ma, almeno in questo caso, non sono le ossessioni ricorrenti di Tavernier a interessarci, quanto l’intelligenza e la devozione con la quale egli è riuscito in un’impresa che ci sembrava disperatamente perdente: quella di dare una definizione psicologica, etica ed estetica del be-bop.
Il jazz non esiste, esistono i musicisti jazz, ha detto qualcuno. ‘Round Midnight parla di due grandi musicisti jazz, il pianista Bud Powell e il tenor-sassofonista Lester Young, accomunati in una dedica affettuosa quanto pudica: del primo ricostruisce il rapporto parigino col grafico Francis Paudras, del secondo attribuisce al protagonista lo strumento, il cappello e i tic, come l’appellativo di lady che egli indifferentemente dà al proprio sax o agli amici. Ma, come vedremo, la gigantesca figura di Dale Turner è il risultato di una sorta di esemplare sommatoria nella quale si possono riconoscere gli artefici della magnifica e lancinante stagione del be-bop. In ‘Round Midnight, quindi, il jazz non è un fatto episodico, non appare saltuariamente a mo’ di condimento per una vicenda che potrebbe comunque reggersi da sé. Stia tranquillo, però, l’appassionato di jazz, riponga pure i suoi adorniani risentimenti: nessuno, infatti, tradirà la sua fiducia, messa troppo spesso alla prova dal cinema anche negli esempi più illustri, da Cabin in the sky, a Alta società, a New York-New York.
Già dal titolo è evidente la volontà di definire un ambiente e un mood che del film costituiscono la struttura portante, l’ambito generativo. Perché il jazz, come ormai tutta la critica concorde afferma, è una musica pressoché priva di costanti tipiche, la cui continuità è rappresentata dall’ambiente che la produce. E Tavernier non descrive un ambiente, sfugge alle insidie dell’ideologia, della sociologia, infine del «colore», con un’intuizione straordinaria: far parlare i «veri», trasformare i jazzmen in attori badando bene di non fare del documentarismo, puntando piuttosto verso un credibilissimo viaggio cinematografico-musicale nel passato. Le parti sono chiare fin dalle prime battute: da un lato gli alieni guidati dal gigante buono Dexter Gordon, i vari Herbie Hancock, Billy Higgins, Wayne Shorter, Bobby Hutcherson, distaccati, maestosi, incuranti delle piccole cose di tutti i giorni, delle convenzioni, delle esigenze altrui e perfino delle proprie, dall’altra i piccoli mortali idolatranti, frenetici, tutti presi da problemi d’affitto e piatti sporchi, che per di più parlano anche francese. Ma conoscono a memoria le parole delle canzoni americane, collezionano i dischi dei loro idoli, a questi sono parzialmente accomunati dagli stessi problemi quotidiani, e ciò attenua la distanza siderale che li separa. Quello che i patiti di jazz fanno forse più fatica a capire è l’assenza di qualsiasi soluzione di continuità tra il palcoscenico (molto modesto, per la verità) e la vita del jazzman, la sua inarrivabile capacità poetica che raggiunge le più alte vette del sublime nel momento della creatività, ma che poi non può interrompersi, non si spegne come la radio, diventa come un’ossessione che invade il suo quotidiano con effetti devastanti. Pressoché incapace ad esprimersi al di fuori del linguaggio musicale, solo suonando potrà veramente parlare d’amore, mentre, sollecitato con franchezza ad esprimere i propri sentimenti, parlerà solo di musica (esemplare, a questo proposito, la sequenza, apparentemente idilliaca, in cui Darcey-Billie Holiday chiede a Dale se non abbia rimpianti, sentendosi rispondere: «Non ho mai suonato con Count Basie»). L’immagine di Dexter Gordon seduto fuori dal «Blue Note», in un vicolo umido pieno di spazzatura, solo con il suo strumento (la sweet lady), è di quelle che si imprimono indelebilmente della memoria, eppure è in un certo senso scontata, fa parte dell’iconografia tradizionale della storia del jazz, del be-bop in particolare. Testimonia del fondamentale solipsismo del musicista neroamericano (quella «smisurata manifestazione dell’ego» che tanto infastidiva Stockhausen), del suo particolare rapporto con il pubblico che lo ascolta, rapporto che non è di indifferenza, ma che in ogni caso non determina l’esistenza e l’essenza stessa dell’uomo-musicista. Lester Young, poco prima di morire, suonava dietro le finestre della sua camera d’albergo unendosi alla musica che proveniva da un club vicino e, ormai in coma, continuava a muovere le labbra come imbracciasse ancora il sax. John Coltrane cercava soluzioni formali attraverso lo studio di modelli matematici, ma si dice che negli ultimi concerti urlasse davanti al microfono fino allo sfinimento dopo aver esplorato per ore con il sax e il flauto tutti gli enigmi musicali che ribollivano da anni nella sua mente: e, come afferma la moglie, «pensava solo alla musica, anche di notte».
Conseguentemente, ‘Round Midnight è un film di interni, di camere d’albergo, di caves, di bistrots. La Parigi che sta attorno al «Blue Note», ricostruita dal grande Alexandre Trauner come in un film del cosiddetto «realismo poetico», assume un ruolo onirico e straniante. Le «aperture» su un lungosenna, significativamente «schermato», e su una spiaggia oceanica sono più anonime che liriche; solo due ponti ci informano con una certa precisione che siamo a New York e a Lyon. Eppure Tavernier, con una levità di tocco che non immaginavamo in chi si è macchiato, tra le altre cose, del finale di Che la festa cominci, riesce a suggerire un background imprescindibile, fatto di razzismo, emarginazione, ghetto, tutti temi che trovano la loro più efficace rappresentazione nell’inconsapevolezza da parte dei musicisti di poter essere degli idoli per qualcuno che vive al di fuori della loro comunità. Il be-bop aveva rappresentato un momento di forte coesione tra la popolazione del ghetto: non successo, non popolarità, non denaro, ma coscienza e orgoglio di una produzione artistica autonoma e non asservita.
La crisi dei boppers negli anni Cinquanta – l’epoca in cui si svolge il film – si deve proprio alla fine di questo momento magico, della creatività febbrile e delle energie spese nel mantenerla al livello di una continua, visionaria eccitazione. Crediamo che solo in parte siano state ragioni di carattere economico a condurre alla rovina molti tra i boppers più significativi: in realtà, il processo di autodistruzione era già stato innescato agli inizi del movimento, e di esso costituisce un elemento inscindibile. Vittime sacrificali predestinate, e fautori della propria predestinazione, i musicisti andranno fatalmente incontro all’annullamento totale, nel migliore dei casi all’oblio, e nulla potranno gli sforzi dei loro padri-figli adottivi più o meno disinteressati, si chiamino essi Norman Granz, Nica de Koenigswarter o Francis Borier-Paudras. Ecco quindi alcune costanti tipiche dello specifico jazzistico riemergere nel senso già indicato: l’autolesionismo di Bud Powell, la megalomania di Charlie Mingus, l’autismo di Thelonious Monk, gli eccessi mostruosi di Charlie Parker sono manifestazioni macroscopiche e pittoresche di un disadattamento che ha sì radici profonde, ma trova un ideale terreno di coltura in un approccio all’arte pericolosamente immediato e totalizzante, da parte di soggetti che non hanno avuto tempo e modo di costruire una propria di stanza critica dall’oggetto dei loro studi e delle loro passioni, oggetto che mantiene quindi intatta la sua carica originaria di magia. In questo si trovano accomunati ai loro seguaci d’oltre atlantico, con i quali esiste un rapporto di beato reciproco rispecchiamento. Ciò che nel jazz è alieno, esotico per gli uni, è familiare per gli altri e viceversa. Così, se Francis è perfettamente al corrente di tutta la produzione jazzistica degli ul timi dieci anni, Dale, che non riconosce la voce del proprio sax nell’ultimo lp da lui inciso, non esita ad annoverare Debussy tra i suoi musicist preferiti, a paragonare un quadro di Monet (che evidentemente non conosce) alla musica di Debussy, Ravel e Charlie Parker.
In questi relitti umani, più desiderosi di morire che stanchi di vivere, i loro tutori cercano di in fondere un po’ di energia positiva, con uno spiritc di identificazione totale che li porta spesso ad essere creativi a loro volta, producendo i dischi dei loro protetti, scrivendo saggi critici, storie della musica o biografie: c’è una sorta di legame continuo tra musica, musicisti e pubblico, e il critico l’organizzatore e il semplice appassionato vivonc con il jazz un rapporto molto vicino a quello di co lui che lo crea.
Questa dimensione sfugge all’impresario americano interpretato da Martin Scorsese, antipatico e luciferino portavoce di uno show business che mirando ad una razionalizzazione «produttiva» in funzione del profitto, instaurando con il musicista relazioni esclusivamente burocratico-organizzative, lo sprofonda in una irredimibile alienazione. C’è forse troppa gente nel club di New York, il proprietario dà il via agli applausi e si preoccupa che non manchi da bere ai clienti; inoltre, il palcoscenico è troppo alto, non permette più quei movimenti di macchina circolari che univano pubblico e musicisti in un solo abbraccio al «Blue Note». Qui, con un risultato non raro ma unico nella storia del cinema, Tavernier riusciva a ricostruire le dinamiche interne alla session, a saldare definitivamente i conti di una categoria, anche per i colleghi, Malle e Cassenti in primis, a ricondurre su un piano finalmente extracinematografico i rapporti di fascinazione Europa–America, ad esaltare, per ultimo, in Dexter Gordon un non attore–feticcio di enorme presenza scenica.
Nell’asettico «Birdland», il ritorno a casa di Dale Turner recita l’orazione funebre di una stagione irripetibile, che solo nell’alterità di una fruizione «esotica» poteva consumare gli ultimi barlumi.
Che per Tavernier il club (o la cave) rappresenti il luogo della celebrazione del rito jazzistico si evidenzia nella sequenza del concerto finale, «moderno» nel sovvertimento della rappresentazione: cielo stellato invece del basso soffitto, palcoscenico e luci invece del fumo delle sigarette (canonico fin dallo splendido Jammin’The Blues, 1944, di Gion Milj e Norman Granz), migliaia di «giovani» invece dei pochi amici. Per di più, i musicisti sono puliti e puntuali come managers, il loro jazz sa di citazione quando non di riesumazione. Mutato il contesto, mutano con esso le modalità di ripresa, qui anonima, quasi televisiva, come se il regista avesse incaricato il suo aiuto: lui, infatti, non c’è sul palco, così come Francis Borier-Paudras tra il brulicare degli spettatori. Insieme, a casa, stanno rivedendo vecchi 8mm in bianco e nero. «Aimez-vous basket-ball?».
Marco Vecchi - Paolo Vecchi, Cineforum n. 260, 12/1986

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Bertrand Tavernier
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