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Grazie per la cioccolata - Merci pour le chocolat


Regia:Chabrol Claude

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Claude Chabrol, Caroline Eliacheff dal romanzo "The Chocolate Cobweb" di Charlotte Armstrong; fotografia: Renato Berta; montaggio: Monique Fardoulis; musica: Matthieu Chabrol; interpreti: Isabelle Huppert (Marie-Claire Muller-Polonski); Jacques Dutronc (André Polonski), Anna Mouglalis (Jeanne Pollet), Rodolphe Pauly (Guillaume Polonski), Brigitte Catillon (Louise Pollet), Michel Robin (Dufreigne); produzione: Marin Karmitz, Jean-Luis Porchet; origine: Francia, 2000; durata: 100'.

Trama:A Losanna André Polonski, pianista di talento, e Mika Muller, direttrice dell'azienda del cioccolato Muller, convolano a nozze per la seconda volta dopo un breve matrimonio di molti anni precedente. I due dividono la loro esistenza con Guillaume, figlio nato dalla prima moglie di lui, Lisbeth – sorellastra di Mika – morta in un incidente d'auto. Nella loro vita si introduce Jeanne Pollet, una giovane pianista ambiziosa che ha scoperto dalla madre di essere stata scambiata in clinica, al momento della nascita, con Guillaume e di essere stata quindi, solo per un attimo, "figlia" del pianista Polonski. Il talento di Jeanne, l'armonia e la passione che la accomuna magicamente con André mineranno irrimediabilmente l'onnipotenza di Mika, risvegliandola da un sonno atavico...

Critica (1):Uno scialle nero a maglie larghe sta, bene aperto, su un divano nella casa borghese di Andre Polonski (Jacques Dutronc) e Marie-Claire "Mika" Muller (Isabelle Huppert). Quasi per caso, sopra di esso più d'una volta si posa lo sguardo della macchina da presa nell'ultima, splendida sequenza di Grazie per la cioccolata. In platea non lo si vede mai davvero, ma se ne avverte il lutto implicito. Poi, quando su quello stesso divano Mika, in lacrime, si raccoglie in posizione fetale, intensa emerge la sua presenza di morte. Ora, movendosi attorno al corpo ripiegato, la macchina da presa lo inquadra in primo piano, rete o ragnatela funerea in cui i nostri occhi sono stati alla fine catturati. Non c’è tensione narrativa, non c’è mistero immediato, in questo "giallo" freddo, raggelato. Il cinema di Claude Chabrol assomiglia al lago nei cui pressi si svolge la storia: liscio in superficie, immobile, inquietante come può esserlo un abisso senza vita, vuoto. O anche: immobile e inquietante come il volto della bravissima Isabelle Huppert. Ed è proprio sul suo volto che, nelle immagini conclusive, il cinema "confuta" la propria quiete apparente e si apre, mostrando un’abissale profondità. Dal pianto disperato e trattenuto di Mika, dalle sue lacrime che sospettiamo fredde, in platea siamo come sospinti a forza all'indietro, lungo le immagini di Grazie per la cioccolata. Di sequenza in sequenza, lo rivediamo nella sua apparente linearità narrativa, ma ora con occhi più attenti, più turbati. Sotto la superficie avvertiamo ben forte una "presenza negativa". Da questo ossimoro, da questo paradosso non riusciamo a liberarci, se non ricorrendo a un'immagine mentale, a un'idea morale che sia capace di dar conto della sua contraddittorietà, È il male, quello di cui Chabrol ci sta mostrando il volto: un male che non si può ridurre a cause empiriche, un male "sciolto" dalla Storia e fors’anche dalle storie degli individui e dunque, alla lettera, un male assoluto. Per gran parte del film, Chabrol e la cosceneggiatrice Caroline Eliacheff affidano il segreto di Mika a una metafora musicale che fa da Leitmotiv. Alla nuova allieva Jeanne Pollet (Anna Mouglalis) Andre s'affatica a mostrare l'anima profonda d'un brano per piano di Franz Liszt, Funerailles. Il senso della sua fatica può ridursi a una frase rivelatrice: le note di Liszt – dice su per giù - non devono esser suonate come il titolo suggerirebbe, cioè come una marcia funebre. Meglio ancora: devono esser suonate in modo che il loro carattere luttuoso implicito emerga in maniera per così dire non voluta, residuale.
Questo, appunto, fa il maestro Chabrol: da al film una "forma" che, proprio tenendo ben lontano il suo tema implicito - il male assoluto -, finisce per imporcelo come residuo ineliminabile, come la sola presenza vera, o se si vuole come un’assenza decisiva, che ogni cosa attira a sé e in sé. Con occhi attenti e turbati, dunque, ripensiamo il film alla luce inquietante che s’accende sul volto di Mika. Così, la rivediamo mentre dissemina il male con piccoli gesti quotidiani: avvelenando lentamente e con solerzia materna le tazze di cioccolata, investendo d'odio trattenuto e furente un vecchio collaboratore del padre, avviluppando nella propria rete Jeanne, sterilizzando con un’ottima, insistita educazione borghese ogni sentimento e ogni oggetto attorno a lei. Come un ragno velenoso, secerne la morte con regolarità dal proprio corpo, dalla propria anima. Prima di uccidere, neutralizza le vittime, le addormenta, e poi lascia che cadano da sole nella rete. Così ha fatto, per anni, nei confronti di André e di Lisbeth. E quando Lisbeth muore, subito sceglie un'altra preda: passando una mano fra i capelli del piccolo Guillaume, se ne appropria, lo sceglie come vittima futura. Lo stesso fare poi con André, quando parrà che Guillaume e Jeanne abbiano ormai fatto la stessa fine di Lisbeth: gli passerà una mano fra i capelli, con l'antico gesto d'amorevole, premurosa condanna a morte. Alla fine, Mika piange questo male, ma non in quanto lo consideri riprovevole. Le lacrime che le corrono sul volto alludono invece alla sua potenza gelida, alla sua esplosività distruttiva. Non lo si può né spiegare né narrare, il male assoluto. Lo si può solo "avvicinare" come residuo, appunto, come un'opacità che non si lascia illuminare e che permane ostinata, chiusa in sé come un feto, insidiosa come una rete e una ragnatela. O anche lo si può alludere. Così, alla fine, fa André, accompagnando il pianto di Mika con le note di Funerailles.E così fa Chabrol, con il suo cinema abissale.
Roberto Escobar, Il Sole 24-Ore, 26/11/2000

Critica (2):Un film di Chabrol è come una bottiglia di Bordeaux: non riserva sorprese, non ha aromi alla moda e bizzarri retrogusti, ma sappiamo già prima di aprirlo che contiene sicuramente del buon cinema, ricco di corpo e di bouquet, che ci darà soddisfazione e beatitudine. E in una collezione che allinea ormai quasi cinquanta film è capitato ben raramente che qualche annata fosse cattiva e qualcuno sapesse di tappo. In quest’ultimo, presentato fuori concorso essendo Chabrol membro della giuria, egli si è concesso solo una piccolissima deviazione rispetto ai suoi percorsi abituali nella campagna francese ed è andato a girare sulle rive del lago di Ginevra, dove abita fra l’altro il suo vecchio collega Godard. D’altra parte come non ambientare in Svizzera un film che, come il romanzo a cui è parzialmente ispirato, si intitola Merci pour le chocolat e la cui protagonista, una Isabelle Huppert nel pieno della sua maturità di bravura e bellezza, è appunto la titolare di una antica fabbrica di cioccolato, che essa dirige con soave pugno di ferro. In francese non deve esserci la distinzione fra il cioccolato e la cioccolata, intesa quest’ultima come bevanda calda e fumante, ma è di questa che nel film è questione, la cioccolata che Marie-Claire Muller detta Mika prepara con le sue espertissime mani e offre in alcune speciali circostanze a ospiti o anche parenti a cui vuole riservare particolari attenzioni. Ma anche senza la distinzione linguistica il film di Chabrol non lascia dubbi sul fatto che si abbia a che fare con un cioccolato al femminile. Che contiene però un ingrediente - sarà un caso, un inconveniente che si è verificato in cucina, un errore del laboratorio di analisi? - che non dovrebbe esserci. Chabrol trasferisce alla scura e densa bevanda gli stessi sospetti che in un film del suo indimenticato maestro Hitchcock emanavano da un bianco bicchiere di latte. Anche se riserva le sue citazioni di vecchio cinéphile a titoli meno scontati, La nuit du carrefour di Renoir (tratto da Simenon) e Dietro la porta chiusa di Friz Lang. In ogni caso siamo sempre nel campo della variazioni sul tema, se non proprio di Barbablù, del delitto casalingo e familiare. Che qui si complica perché complicata è la composizione della famiglia che ruota attorno alla grande villa nella campagna ginevrina: Mika ha appena risposato per la seconda volta il suo primo marito, il celebre pianista André Polonski (Jacques Dutronc). Nel frattempo lui aveva avuto un’altra moglie, deceduta per un apparente suicidio o incidente, e un figlio che era stato oggetto di un momentaneo scambio di culle nella clinica in cui era nato. La cosa si era subito chiarita ma ora che sono passati diciotto anni la bambina nata assieme a lui riappare, e guarda caso fa la pianista. E si atteggia volentieri - sarà un caso o un programma? - come la donna morta di cui fu creduta figlia. Fra l’altro anche suo padre è morto prematuramente. Forse non tutti questi antefatti contengono dei misteri ma certamente Mika, abituata a tagliare netto quando presiede i suoi consigli d’amministrazione, ha deciso che in tutto ciò c’è un po’ di confusione e che bisogna sfrondare. Naturalmente con delicatezza e, letteralmente, con dolcezza. Tutto deve procedere con distinzione ed eleganza. Anche quando si tratta di tirar fuori qualche antico segreto o dramma familiare tenuto nascosto per anni, le rivelazioni avvengono in maniera compassata, senza far scene e alzare la voce. La semplicità e l’eleganza, afferma Chabrol, sono la maniera migliore per rappresentare la perversità. E Isabelle Huppert, che non a caso deve a lui le sue migliori interpretazioni (Rien ne va plus, Il buio nella mente, Un affare di donne, Violette Nozière) è l’attrice perfetta per coniugare nello stesso sguardo la pacatezza e la determinazione, la dolcezza e la perfidia. Se ti offre una cioccolata lei, non puoi fare a meno di rispondere “merci”. Tutto è confortevole e ovattato. Nella stanza accanto André suona il suo pianoforte. E’ il “Funerale” di Liszt.
Alberto Farassino

Critica (3):

Critica (4):
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