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J'ai tué ma mère


Regia:Dolan Xavier

Cast e credits:
Sceneggiatura: Xavier Dolan; fotografia: Stephanie Weber-Biron; musiche: Nicholas S. L'Herbier; montaggio: Hélène Girard; scenografia: Anette Belley; costumi: Nicole Pelletier; interpreti: Anne Dorval (Chantale Lemming), Xavier Dolan (Hubert Minel), Suzanne Clément (Julie Cloutier), François Arnaud (Antonin Rimbaud), Patricia Tulasne (Hélène Rimbaud), Niels Schneider (Éric), Monique Spaziani (Denise); produzione: Xavier Dolan per Mifilifilms; origine: Canada, 2009, durata: 100’.

Trama:Combattuto tra sentimenti di odio e amore per la madre Chantale, il diciassettenne Hubert Minel si troverà ad affrontare le esperienze e i problemi propri del passaggio all'età adulta.

Critica (1):Xavier Dolan ha conquistato Cannes. Lo ha fatto con quell'aria da folletto pungente e un po' nevrotico, con quel ciuffo indomito che continua a spostarsi dalla fronte, con quella montatura di occhiali nera che fa da scudo allo sguardo venato di fragilità di uno che è uscito dall'adolescenza appena ieri. Ma soprattutto lo ha fatto scrivendo, dirigendo e interpretando un piccolo film che offre il lusso prezioso di restare stupefatti. Un po' autobiografico, un po' confessionale, un po' catartico il film di Dolan, che oggi ha vent'anni ma che ne aveva diciassette quando lo ha scritto e diciannove quando lo ha girato, si prende la briga di giocare con l'autorialità e di farlo a carte scoperte. Per di più il gioco è condotto con una grazia e una maîtrise, come direbbero au Québec les amis de Xavier (ci tiene il ragazzo a sottolineare le sue radici), che gli consente di meritare ben tre dei quattro premi in palio nella sezione (Art Cinema Award, Menzione speciale, Premio Sacd).
La storia è quella di un sedicenne insofferente che, in mancanza di una figura paterna, ha come unico riferimento una madre che proprio non sopporta più. Gli limano i nervi le briciole di pane che si depositano all'angolo della bocca della genitrice mentre sgranocchia rumorosamente un crostino al formaggio, lo saturano i ninnoli e le passamanerie che occupano per intero lo spazio vitale del loro appartamento, lo isterizzano le intemperanze e la mancanza di sensibilità di quella donna che non ha capito niente di lui, della sua omosessualità, del suo disagio, dei suoi talenti. Una donna che, quindi, continua a sognare di uccidere.
Il rapporto problematico sempre in bilico tra l'odio e l'amore tra una madre che vede il figlio come eterno bambino e il figlio che brama e teme al contempo il distacco dall'utero materno non brilla certo per originalità; eppure i modi vagamente visionari e la sensibilità consapevole con cui Dolan mette in scena questa vicenda, il mestiere, quasi paradossale per un ragazzino alla sua prima esperienza cinematografica, e il gusto che connotano il suo sguardo fanno di quest'opera prima una biglietto da visita davvero stupefacente. Sono almeno tre i punti forti dell'espressione di Dolan. I dialoghi. Soprattutto quelli tra la madre Chantale (Anne Dorval) e il figlio Hubert (Dolan stesso) esprimono un talento sagace nel cogliere la violenza del reale; una spietatezza comunicativa che si può sviluppare solo in famiglia e che mira a ferire, a fare male, a umiliare anche grazie a un'ironia tagliente che sconfina spesso nel cinismo; una violenza mirabilmente amplificata nel suo effetto tragicomico dai ritmi forsennati, dalle sovrapposizioni, dai crescendo feroci. Una grande prova di scrittura e di interpretazione che sa individuare nel calcolo dei tempi la chiave dell'efficacia cinematografica della parola. La luce. Il lavoro di fotografia (almeno questo non opera dell'onnipresente Dolan ma di Stéphanie Weber-Biron) contribuisce a creare un'atmosfera visionaria claustrofobica e pop al tempo stesso che riesce a suggerire efficacemente la composizione cromatica del paesaggio psicologico di Hubert. Il rosa antico e il senape avvolti nel torpore velato della casa di Hubert e Chantale contrasta con la luminosità fresca dell'appartamento in cui Antonin, il ragazzo di Hubert, vive con la madre dinamica e brillante; e poi gli esterni, la città uggiosa, la spiaggia rude in cui madre e figlio si ritrovano nel finale... Linquadratura. A differenza di molti giovani registi Dolan non individua nel movimento di macchina l'artificio mirabolante con cui catturare l'attenzione del suo spettatore e dimostrare la sua perizia nel maneggiare il mezzo. Al contrario, la mdp nelle mani di Dolan si muove poco ma insiste su una composizione del quadro attentamente calibrata per lasciare i personaggi molto spesso, oserei dire sempre nei dialoghi più intimi, a confrontarsi con il vuoto che li circonda. Personaggi schiacciati ai lati dell'inquadratura o al basso, controcampi sghembi ma irreprensibili che lasciano pareti vuote a dominare la scena e relegano teste mozzate e infelici negli angoli del quadro. Così Dolan sceglie, riuscendoci, di lavorare sulla costruzione dello sgomento esistenziale e del disagio di un essere umano che cresce. Un film di un adolescente su un adolescente che sembra però aver capito molte cose di come funziona il cinema degli adulti.
Chiara Borroni, Cineforum n.485, 6/2009

Critica (2):Xavier Dolan, classe 1989, ha scritto a 16 anni J'ai tué ma mère ("Ho ucciso mia madre"), suo esordio alla regia, di cui il futuro autore di Laurence Anyways è anche interprete principale. Cuore del film, largamente autobiografico, è il turbolento rapporto edipico tra il sedicenne Hubert e la madre Chantale. Il film sorprende per freschezza e vitalità: il giovanissimo regista dimostra di padroneggiare un proprio stile, con autorevolezza e con l'assenza di pudore che ne contraddistingue anche le pellicole successive (sono cinque con Mommy, in cui nel 2014 Dolan è tornato a trattare la stessa materia di J'ai tué ma mère, affidando il ruolo della madre alla medesima attrice, Anne Dorval).
La compresenza di amore e odio per la madre causa l'irrequietezza e la furia, soprattutto verbale, di Hubert. A quest'ansia si lega un grande bisogno d'affetto, che viene frustrato dalla decisione presa dalla madre di mandarlo in collegio – proprio quando poco prima aveva espresso il desiderio di andare a vivere da solo in modo da avere un luogo da condividere in segreto con il proprio ragazzo (la madre, che ha scoperto tutto, decide di iscriverlo a un collegio proprio per separare i due ragazzi).
È l'adolescenza in presa diretta, il punto di forza del film. Ciò che rende unico J'ai tué ma mère è la contiguità temporale fra background autobiografico e messa in scena. Dolan si coglie in medias res, con urgenza e apparentemente pochi filtri. In realtà, vedremo che di filtri distanzianti ne pone diversi: il fascino del film risiede proprio in questa bizzarra promiscuità fra autore e personaggio, un coinvolgimento emotivo al contempo distaccato.
Dolan rende omaggio a I quattrocento colpi di Truffaut quando Hubert racconta alla propria insegnante che la madre è morta. L'episodio è analogo a quello in cui Antoine Doinel s'inventava, a scuola, la morte della madre: dopo quell'episodio, scoperta la bugia, Hubert sviluppa un rapporto molto stretto con la giovane insegnante interpretata da Suzanne Clément (altra attrice feticcio di Dolan, che sempre in Mommy rivedremo in ruolo similare). Oggi non può che risultare attenuata la carica eversiva che Truffaut ereditò da Vigo e dal suo Zero in condotta: tuttavia, l'eco della Nouvelle Vague si avverte nell'esigenza di scelte stilistiche in grado di restituire l'alterità del vitalismo adolescenziale.
Dolan fa ampio ricorso allo slow motion e, in un'occasione, al time-lapse. Diverse sequenze – spesso quelle in slow motion – hanno un commento musicale extradiegetico prolungato al punto da farle sembrare piccole clip. Anche certi debiti estetici verso Wong Kar Wai, comunque, sono piegati alle proprie ragioni poetiche, perdono di sapore derivativo e appaiono marchi personali: un risultato per raggiungere il quale non basta la sfacciataggine dell'esordiente, occorre padronanza del mezzo e occorre che le scelte linguistiche rispondano a esigenze espressive autentiche. Si consideri la messa in scena dei dialoghi a tavola: non classici campi e controcampi di quinta, ma inquadrature in cui i primi piani degli interlocutori, seduti di fianco, sono fortemente decentrati per rimarcare la disarmonia o la lontananza emotiva.
Pure dal punto di vista delle scelte drammaturgiche Dolan ha le idee chiare: il racconto procede per accumulo di scene madri, ma gli alti e bassi emotivi annullano i climax, e i cenni melò vengono frustrati dopo esser stati lanciati a briglia sciolta. Una scelta che rivela il lucido distacco con cui l'autore guarda a se stesso; la consapevolezza, sottilmente autoironica, che manchino elementi di vera tragedia, tali da giustificare i comportamenti sopra le righe cui pure assistiamo.
Hubert nemmeno immagina di uccidere la madre, anche se in una digressione onirica vediamo brevemente il volto di Chantale adagiato tra i fiori, composto come senza vita.
Sin dalla scelta di esordire al pubblico con un titolo-shock, Dolan svela la sua smania esibizionista. Prima che il film abbia inizio, insiste sul tema della morte della madre con una citazione di Maupassant: "si ama la propria madre quasi senza saperlo, e non ci si accorge della profondità delle radici di questo amore se non al momento della separazione definitiva". Titolo e citazione, ancora privi di contestualizzazione narrativa, insistono sulla morte della madre e delineano un ossimoro. Altro non è, questo ossimoro, che il sentimento odi et amo, all'apparenza irriducibile. Il titolo allude all'inconsapevolezza (egoistica, e inconsapevole di esserlo) dell'adolescente oppresso dall'odio; la citazione di Maupassant inverte subito la rotta, introducendo – in un melodramma tutto immaginario - la consapevolezza di un amore che solo l'estrema separazione permetterebbe, tragicamente, di acquisire. La giustapposizione di quel titolo a quella citazione ci fa accorgere di come il vero ossimoro di fondo che sorregge J'ai tué ma mère, prima che nel sentimento di amore/odio, risiede nella consapevolezza dell'autore che accompagna da subito l'inconsapevolezza del personaggio – che pure è l'autore stesso, di pochissimo più giovane.
Mantenere sino in fondo questo sdoppiamento deve esser parso intollerabile al regista, ed è l'urgenza di ricondurlo ad unità che spiega il finale. Dolan pone il suo genio al servizio del romanticismo, non potrebbe mai comprimere il magma passionale con il raziocinio disincantato di un Radiguet verso il suo diavolo in corpo. La conclusione di J'ai tué ma mère, se ad alcuni parrà deludente, è necessaria a un animo inquieto, incapace di vero distacco verso la propria materia. In J'ai tué ma mère, come ancora nei film successivi, l'artista sente di non potersi liberare dell'uomo senza tradirne l'autenticità. Per quanta consapevolezza possa usare, il distacco di Dolan non regge sino in fondo. Ma è precisamente in questo afflato, volto a non tradire i propri sentimenti, che si misura la rilevanza del suo cinema. Perciò, al finale di J'ai tué ma mère, perdoniamo volentieri pure l'abusato espediente di ricorrere a filmini familiari in bassa definizione, per dar vita illusoriamente ai ricordi del passato.
Stefano Santoli, ondacinema.it

Critica (3):“Can you see the real me, mother?”

J'ai tué ma mère è tante cose. Una storia d'amore di quelle impossibili e viscerali che con difficoltà si integrano al pragmatismo della realtà. Una lucida e tesa analisi sul consapevole tradimento del tacito accordo tra una madre e il proprio figlio. Un lungo soliloquio urlato e singhiozzato sul desiderio di diventare adulti, pretendendo la propria fetta di libertà cullati nel grembo di una dipendenza tanto avvolgente quanto soffocante. La collisione tra immobilità del vecchio e iconoclastia del nuovo. Ritaglio di memoria condivisa in via di frammentazione.
Dolan struttura l'anatomia di una separazione giocando sapientemente tra l'esterno e l'interno del mondo che mette in scena, una vivisezione di un corpo unico che tenta disperatamente di scindersi riscoprendosi nuovo, originario, nudo in un'altra forma. Questo andare e venire dal grembo materno, l'alternanza tra momenti di rabbia furiosa e subitanei rigurgiti amari di senso di colpa, descrivono una parabola di un mondo sottovuoto che lascia in superficie le incrinature più scabrose per farle diventare lame taglienti per tentare la cesura e il necessario distacco.
Hubert deve scardinare sua madre dall'olimpo di ovatta nel quale si sente suo malgrado trattenuto, deve ridimensionare il suo posto nel mondo, deve darsi una pace fuori da lei. Nonostante questi imperativi vitali, entrambi i personaggi, il giovane Hubert, occhio in movimento che osserva clinicamente ogni impercettibile gesto della madre, oggetto passivo della visione, vivono in luoghi fisici trasformati in universi pop di stati umorali brulicanti di soprammobili kitsch, incrostazioni di un passato che non molla la presa sul presente. L'inquadratura è anch'essa studiata con la stessa funzione di ancoraggio: riportare le immagini a piani medi, ad una medietà che sospende, taglia le basi, ma che preclude il movimento propendendo per la staticità dei corpi.
L'inquadratura è la forma stilistica che riprende i tratti materni, mentre il montaggio, i tagli netti e risoluti portano in sé la volontà filiale di lacerazione.
E il vero compromesso, tregua momentanea di una comunicazione interrotta, risiede nella condivisione silenziosa di un immaginario passato, di una memoria vacillante e ferma allo stesso tempo, in cui è ancora possibile riscoprirsi parti complementari anziché antitetiche.
Martina Bartalini, spietati.it, 17/8/2012

Critica (4):
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