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Ronde (La) - Il piacere e l’amore - Ronde (La)


Regia:Ophüls Max

Cast e credits:
Soggetto
: dalla commedia Der Reigen di Arthur Schnitzler; sceneggiatura: Jacques Natanson, Max Ophüls; dialoghi: Jacques Natanson; fotografia: Christian Matras; montaggio: Léonide Azar; suono: Pierre Calvet; scenografia: Jean d’Eaubonne, Marpaux, M. Frédérix; costumi: Georges Annenkov; musica: Oscar Strauss; parole della canzone: Louis Ducreux; interpreti: Anton Walbrook (“le meneur de jeu”), Simone Signoret (Léocadie, la prostituta), Serge Reggiani (Franz, il soldato), Simone Simon (Marie, la came­riera), Jean Clarieux (il brigadiere), Daniel Gélin (Alfred, lo studente), Robert Vattier (il professore Schüller), Danielle Darrieux (Emma Breitkopf), Fernand Gravey (Charles, suo marito), Odette Joyeux (la “grisette”), Marcel Mérovée (Toni, un piccolo), Jean-Louis Barrault (Robert Kühlenkampf, il poeta), Isa Miranda (Charlotte, l’attrice), Charles Vissière (“le concierge del teatro), Gérard Philipe (il conte), Jean Ozenne, Jean Landier, René Marjac, Jacques Vertan; teatro: Sain-Maurice; produzione: Sacha Gordine; origine: Francia, 1950; durata: 97'.

Trama:Una ragazza incontra un giovane soldato; questi la lascia per una cameriera, la quale è intrattenuta dal giovane padrone che seduce una donna di mondo il cui marito ha come amante una sartina; la sartina adora un poeta che le preferisce un’attrice la quale ha un debole per un tenente che frequenta la ragazza incontrata all’inizio; ricomincia così il giro, condotto da un direttore del gioco.

Critica (1):“Il mondo è come una piroga che, girando e rigirando, non sa più se il vento voleva ridere o piangere...”. L’universo poetico di Saint-John Perse (da cui ricavo questa epigrafe), con i suoi grandi monumenti barocchi, le sue architetture trasparenti e il suo raffinato esotismo, ha più di un tratto in comune con quello di Max Ophüls, gran signore esiliato in un maniero di provincia che, per far rivivere il passato, di tanto in tanto presiedeva, senza badare a spese, a fasti regali. La sua opera, dalla più recente a quella più lontana, è tutto un continuo omaggio a Vienna, non la Vienna frivola dall’incanto un po’ sofisticato che tante operette mediocri hanno reso popolare, ma una Vienna senza tempo e quasi completamente immaginaria, una Vienna di teatro e di “féerie” che diventa, non si sa per quale sottile alchimia, il microcosmo del mondo. Se film (indubbiamente di puro stampo ophülsiano) come Liebelei, De Mayerling à Sarajevo o Letter from un Unknown Woman, possono essere classificati “viennesi”, è con questa sfumatura essenziale, culturale assai più che geografica. “Mozartiani” o meglio ancora “renani” (il Reno è la vera patria spirituale dell’autore di Werther) saranno termini più appropria­ti. E questo è anche il caso della Ronde, capolavoro senza pec­che, di nulla o quasi debitore (checché se ne dica) alla “gemütlich” austriaca; ma innanzitutto a una sensibilità tedesca profondamente maturata, e penetrata di influenze francesi (fra gli altri Stendhal, Laclos). Non sarà lo stesso per Le Plasir, conciliazione ideale dell’impressionismo e del germanesimo più puro? E per Madame de..., in cui un classicismo di stampo raci­niano si troverà incastonato in un virtuosismo che, nella fatti­specie, si rifà a Joseph Haydn? Quanto a Lola Montès, favolosa “opera” cinematografica, una vera “cattedrale fra cielo e terra” secondo l’espressione di Truffaut, Ophüls tenterà di riunirvi, in una grandiosa sintesi, le ossessioni sue più care (e non le meno dolorose), il ricordo idealizzato dei suoi viaggi attraverso i due continenti, il gusto del delirio decorativo, creando alla fine un vibrato spettacolare di un’intensità raramente raggiunta nella settima arte: a metà strada tra Don Juan e Il flauto magico. Di nuovo nelle parole di Perse, “la notte lattea genera una festa vischiosa”... E non è meno ammirevole il fatto che queste farandole, sulle quali plana l’angoscia della morte, assumano talvolta l’andamento di cantate funebri. La Ronde (1950) è trat­ta, come Liebelei, da Schnitzler. Strana predilezione di Ophüls per questo autore di drammi scandalistici, contemporaneo di Freud, che sugli arcani dell’amore fisico proietta il più cinico degli sguardi. Ma il cineasta idealizza il suo modello: “Schnitz­ler, confida a Pierre Leprohon, era una sorta di Musset sulle rive del Danubio. Nelle sue opere “tutto scorre” come il fiume: nascita, vita e fine di ogni relazione umana, come pure dell’amo­re; il tutto sull’onda del valzer...”.
Dopotutto, lo studio di costumi borghesi che, inizialmente, costituisce La Ronde, presentazione asciutta di personaggi presi da vari gradini della scala sociale e che lo sperimentatore ha opposto nella stessa umiliante situazione: l’agitarsi su un letto, che smonta senza vergogna l’orologeria del sentimento, per arri­vare alla conclusione che i gesti dell’amore sono gli stessi per tutti; questo studio quasi clinico si trasformerà, nella grazia sorridente di Ophüls, in un primo momento in una serie di “pocha­de” piene di humour e di tenerezza, e poi in una meditazione filosofica, tanto più profonda dell’altra, sul tema eterno del desiderio e dell’amore. L’introduzione di un nuovo personaggio: l’imbonitore, signore del passato e dell’avvenire, imperturbabile animatore del gioco (Anton Walbrook), preciserà senza fallo tali prospettive. “Io sono, così dice, rivolgendosi agli spettatori, l’incarnazione del vostro desiderio... del vostro desiderio di sapere tutto”. Non è un’analisi fisiologica o sociologica dei gesti dell’amore a preoccuparlo, ma “l’arte dell’amore” o “l’amo­re dell’arte”, che è lo stesso; su questo stupefacente gioco di parole riposa tutta la morale della favola. Non è facile espri­merla in termini discorsivi, oltretutto La Ronde è il film più stilizzato, più spigliato del suo autore, quello in cui la melo­dia è più tenue, appena orchestrata. Vi si trovano tutti i pezzi forti della meccanica e del pensiero ophülsiani, ma in quanto principi costitutivi dell’opera stessa, direttamente sotto i nostri occhi. E lo stesso vale per i personaggi. Cosa ci bisbi­gliano questi ultimi? Che il desiderio non è nulla, che l’amore è tutto. Che la felicità si trova solo “nella verità e nella purezza” (come si esprime Fernand Gravey nel corso di un dialogo rivelatore, dove lo humour va di pari passo con la gravità) e non in “quell’orribile esistenza fatta di astuzie, di menzogne e di costanti pericoli” che è il libertinaggio. Che dietro il perso­naggio sociale, fantoccio piuttosto ridicolmente bardato, si dissimulano cuori che palpitano e che soffrono. Che è la Morte a tirare le fila, e che tutto il nostro sforzo per dimenticarla nella vertigine del movimento si chiude con una sconfitta. Che infine il segno fondamentale della nostra impotenza è il tempo. Che pensieri severi, si dirà, per un’operetta senza pretese! Poiché è normale sentir parlare della Ronde come di un film leggero, frizzante, ma superficiale. Tutto dipende da cosa s’in­tende per “ronde”: la ronde può essere il percorso descritto dalle coppie che danzano; oppure la circonferenza elegantemente richiusa di una sceneggiatura che si riallaccia al punto in cui ha avuto inizio; può essere una scrittura ornata, infiorata, tutta sinuosità e risvolti; può essere uno stile in architettura, detto comunemente barocco e il cui tallone aureo è la linea curva (tradotto in termini cinematografici: la carrellata panoramica) e la vocazione ultima l’accesso a un’armonia superiore, quella stessa che nasce dal confronto appassionato dei contrasti; può anche darsi che sia un’immagine ridotta del mondo, poiché che c’è di più rotondo (rund) della terra che gira sotto i nostri piedi? Certe scene del film, certe battute che durano lo spazio d’un istante; un cineasta di genio vi fa entrare l’eternità.
Claude Beylie, De l’amour de l’art à l’art de l’amour, L’Avant Scène-cinéma n. 25 15/4/63

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Max Ophüls
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