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Ultimo metrò (L') - Dernier métro (Le)


Regia:Truffaut François

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: François Truffaut e Suzanne Schiffmann; fotografia: Nestor Almendros; montaggio: Martine Barraque, Marie-Aimée Debril, Jean-François Gire; suono: Michel Laurent; musica: Georges Delerue; scenografia: Jean-Pierre Kohut-SveIko; interpreti: Catherine Deneuve (Marion Steiner), Gérard Depardieu (Bernard Granger), Jean Poiret (Jean-Loup Cottins), Heinz Bennent (Lucas Steiner), Andréa Ferreol (Arlette Guillaume), Paullette Dubost (Germaine Fabre), Sabine Haudepine (Nadine Marsac), Jean-Louis Richard (Daxiat), Maurice Risch (Raymond), Franck Pasquier (Jacquot); produzione: Les Films Du Carrosse, SEDIF S.A., Société Française de Production; distribuzione: Gaumont Italia; origine: Francia, 1980; durata: 132’.

Trama:Parigi, settembre 1942, i tedeschi sono alle porte della città. I parigini della zona libera vivono sotto l’incubo dell’imminente invasione tedesca. I soli luoghi di evasione rimasti aperti sono i teatri. In uno di questi, il Théatre Montmartre, è ambientata la vicenda del film. Ne sono protagonisti Lucas Steiner, ebreo tedesco, regista, costretto a fuggire all’avvicinarsi delle SS e la moglie Marion, che prende il suo posto nella gestione del teatro. Bisogna a tutti i costi preparare lo spettacolo. L’attore col ruolo principale, è stato allontanato perché ebreo; Bernard Granger prende il suo posto: in precedenza ha recitato al Grand Guignol. La regia è affidata a Jean-Loup Cottins, personaggio non certamente all’altezza delle capacità di Lucas. Poi c’è Arlette Guillaume, la scenografa, che Bernard ha cercato di adescare prima del suo ingresso nella troupe, e Sabine Haudepine, giovane attrice con la voglia di fare carriera. Cominciano le prove dello spettacolo, disturbate dalla presenza del critico Daxiat, del giornale di destra Je suis partout. La necessità di ottenere il visto di censura costringe i personaggi ad accettare l’invadenza di Daxiat. Gli sono palesemente ostili Bernard e Raymond, il tecnico-macchinista. Trai piccoli e normali drammi della vita la rappresentazione viene portata a termine. Si scopre che Lucas Steiner non è fuggito da Parigi, ma è nascosto nella cantina del teatro, i tentativi di fuga, organizzati da Marion, non vanno a buon fine. Costretto a rimanere chiuso nel sotterraneo, Lucas inventa un espediente per seguire le prove degli attori; ascolta le loro voci attraverso le condutture della caldaia. In tal modo può intervenire ad aggiustare i difetti dello spettacolo. Nel frattempo tra Marion e Bernard nasce un sentimento d’amore. La rappresentazione ottiene il successo del pubblico, ma subisce sulla stampa la stroncatura di Daxiat. Bernard lo aggredisce davanti a tutti, provocando le ire di Marion. Dopo un po’ di tempo Bernard decide di lasciare il teatro per entrare nelle file della resistenza. Prima di andarsene lui e Marion si amano. La guerra è finita: Bernard è in un ospedale, ferito, con Marion: parlano della loro passione. La scena cambia, la vita ritorna sulla scena, Lucas Steiner assiste all’intrigo tra Marion e Bernard

Critica (1):Vedere e leggere un film di Truffaut è sempre un’avventura dell’intelletto; il suo cinema è limpido, classicamente "fedele"; le storie sono evidenti, plasmate da una letterarietà che le rende comprensibili e che dà ad esse un movimento controllato, svolgentesi logicamente. Il cinema di Truffaut è una composizione, dove nulla sembra succedere per caso; ogni cosa è nella sua giusta posizione: tutto è previsto, ogni scadenza calcolata. Si ha la sensazione, vedendo L’ultimo metrò, di trovarsi di fronte ad un oggetto solido, "incorruttibile", da osservare a distanza, senza atti di intromissione, di partecipazione intensa e penetrante alle sue apparizioni. È come stare innanzi ad una donna bella, senza poter provare il desiderio di possederla; insieme la si contempla e la si studia, ma senza accennare a toccarla, come presi da un’attrazione senza passione. Il cinema di Truffaut, vuole uno spettatore accorto, non abbandonato, la cui adesione sia, allo stesso tempo emotiva ed intellettuale, affinché "l’indipendenza" delle immagini non lasci filtrare il coinvolgimento spassionato dello spettatore. Esso affascina ma non travolge; accarezza lo sguardo, ma non si lascia possedere; gioca con l’occhio ad una sorta di inseguimento, ora avvicinandosi ora ritraendosi; a volte sembra concedersi, ma subito sfugge alla presa, quasi a salvaguardare la propria "purezza". Ma proprio in questo suo "egocentrismo" si nasconde l’inganno; il cinema di Truffaut è internamente complicato. Esso va aggirato, va visto ruotandovi attorno, per scoprirne gli spiragli, le fessure che consentono di intravedere la geometria degli specchi.
L’ultimo métro è un film "pulito"; tutto vi compare in modo nitido: la collocazione storica, l’argomento, i personaggi, la vicenda, i luoghi. Il montaggio è fluido, l’azione senza rallentamenti, gli avvenimenti si susseguono o si intersecano perfettamente: una dimostrazione di regia sapiente e consapevole, accompagnata da una sensazione di piacere nel girare, ad ulteriore prova del grande amore di Truffaut per il cinema. L’ultimo métro è un film "distante", che vive di un’esistenza tutta sua; non ha bisogno di integrazioni visive ed affettive, ma si presenta come oggetto da guardare; anche coi sentimento, certamente, ma con discrezione, senza inondare lo schermo di emotività. La regia di Truffaut si mette tra il film e colui che lo osserva, forma la finzione e contemporaneamente il suo confronto con l’avidità dello spettatore. La macchina da presa è sempre cosciente: anticipa i movimenti della scena, abbandona un personaggio per trovarne un altro, si muove nello spazio con cautela, ma senza tentennamenti, si avvicina ai visi solo per cogliere l’attenzione degli sguardi, ricorre ai totali raramente, quasi a ricomporre il quadro, a ricordare l’informazione, in una specie di sosta drammatica, oppure quando si confonde con la teatralità di ciò che viene rappresentato, spettatore tra gli spettatori e spettatore di se stesso. Truffaut conduce un’ispezione: nel passato, ritrovando un brano di storia, un periodo temporale limitato; nel teatro, attraversando il prima e il dopo della rappresentazione; nello spettacolo, rispecchiando l’ambiguità delle immagini che richiamano la vita; nel cinema, costruendo una messa in scena doppiamente dialettica, in una dissolvenza incrociata di finzioni, di rotture e ricomposizioni dell’equilibrio registico.
Il teatro sotto l’occupazione è l’ambiente del dramma; nella costrizione Truffaut sistema l’idea di un discorso sull’artificio, come modus vivendi e come istanza formale. Ad oltranza, nonostante la contingenza bellica, uomini ed oggetti vengono ricomposti, riuniti per riprodurre la realtà. La necessità governa l’azione; la creazione della scena non deve arrestarsi, la persona non può sopravvivere senza proiettare sul palcoscenico, e sullo schermo (per traslazione), le configurazioni dell’esistenza, quelle esperite e quelle possibili, L’estetica di Truffaut parte da un "bisogno vitale"; il trasferimento del vissuto nella forma artistica è insieme un’esigenza primaria e un dovere, una "caratteristica" umana; l’uomo è un animale spettacolare. Gli esseri de L’ultimo métro sono come spinti da qualcosa che li sovrasta, che li orienta tra le "macerie" della realtà; la guerra in tal modo perde di significato, anche all’interno del film che viene circoscritto oggettivamente dallo spazio fisico del Théatre Montmartre, ideologicamente dall’inderogabilità e universalità del verosimile, artisticamente dalla esclusività dell’intenzione cinematografica.(...)
L’ultimo métro è un film di reticenze; i rapporti tra i personaggi sono velati, allusivi: Essi sono assorbiti dal loro dovere estetico; le azioni della loro vita privata non debbono contaminare lo spazio del palcoscenico; Marion stessa stabilisce questo credo quando scopre l’omosessualità di Arlette e Nadine. Bernard ha strani incontri con un giovane, l’esistenza del quale non appare nel film, salvo che nel momento del suo arresto da parte delle SS. Marion si innamora di Bernard: solo rapidi sguardi della donna, in primo piano, segnalano l’evento, solo qualche raro momento tradisce la passione di lei. Bernard si muove con prudenza e circospezione, le sue avances sono senza passionalità apparente; non fa distinzione riguardo agli oggetti della sua attrazione, non nutre sentimenti travolgenti. I personaggi sembrano ignorarsi; ognuno conduce vita separata, si ritrovano ad orari fissi sul palcoscenico, ciascuno con la sua storia alle spalle, che spoglia quando sale sulla scena. Truffaut stesso scorre sui personaggi con reticenza; non entra nella loro esistenza, nella loro intimità. L’erotismo è appena accennato, l’atto sessuale tra Marion e Bernard è visto nell’incrociarsi delle gambe; le affettuosità tra Marion e il marito si limitano a brevi contatti, a parziali denudamenti. I personaggi di Truffaut non fanno vedere chi sono, non hanno nessun carattere da presentare all’attenzione psicologica; la loro "realtà" sta nelle situazioni, nelle scene che li vedono partecipi, nelle loro interazioni. Sono esseri dialoganti, che affidano alla parola i monologhi della loro esistenza. L’ultimo métro è un omaggio al dialogo: Luca Steiner cura la regia dello spettacolo ascoltando le battute attraverso le tubature della stufa. Avverte le sfumature, osserva nell’ascolto delle parole i toni dell’amore tra Marion e Bernard.(...) La rappresentazione in Truffaut non è per nulla fastosa; anzi egli si mantiene a distanza, osserva senza giudicare: il tentativo di mantenere in vita il teatro non risponde a nessuna fede incontaminata, come ogni azione umana vive le "malformazioni" e le contraddizioni della specie. Così Truffaut sviluppa un intrigo delle ambiguità; il suo sguardo è insieme delicato e spietato, mai sofferto, mai agitato. Semina nel dramma la simpatia dei personaggi "minori": Raymond, il tecnico tuttofare, semplice e intraprendente come nell’affare del prosciutto; il piccolo Jacquot con le sue piantine di tabacco coltivate nella strada; la bambina Rosette, con le sue stoffe e il suo desiderio di teatro. Il mondo di Truffaut è multiforme e "leggero": il dolore e la gioia vi passano senza lacerazioni o rovinose cadute; fanno parte di un ritmo che non conosce punti di non ritorno. Perciò il cinema di Truffaut non interviene a consolidare le manifestazioni della vita, non aderisce alla consistenza del concreto; rimane all’esterno, distaccato, respirando l’atmosfera, lasciando che le cose persistano per il tempo che possono e debbono essere mostrate. Non c’è immedesimazione nella totalità del l’essere; la rappresentazione della realtà non è la realtà e non corrisponde a tutta la realtà; lo strumento utilizzato ordina il costituirsi delle forme, della materialità espressiva. L’ultimo métro è un film in penombra; l’oscurità è predominante, l’arte è una congiura nei confronti della vita. Truffaut conosce i rischi della ricostruzione: possiede la coscienza della, distanza, conosce l’attrazione della somiglianza; produce il teatro delle corrispondenze, riproduce l’artificialità del cinema.
Angelo Signorelli, Cineforum n. 205, giugno-luglio 1981

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
François Truffaut
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