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Dolly's restaurant - Heavy


Regia:Mangold James

Cast e credits:
Sceneggiatura: James Mangold; montaggio: Meg Reticker; fotografia: Michael F. Barrow; scenografia: Michael Shaw; musica: Thurston Moore; interpreti: Pruitt Taylor Vince (Victor Modino), Shelley Winters (Dolly Modino), Liv Tyler (Callie), Deborah Harry (Delores), Evan Dando (Jeff), Marian Quinn (Darlene), Meg Hartig (Donna), Zandy Hartig (Jean) Peter Ortel (Tony), Allan D'Arcangelo (Sonny), Cordis Heard (Infermiera); produzione: Available Light; distribuzione: Academy; origine: USA, 1995; durata: 99'.

Trama:Dolly, è una vedova non più giovane, proprietaria del ristorante "Pete and Dolly's". Il figlio Victor lavora come cuoco, il ragazzo, obeso e introverso, odia le pizze che impasta ogni giorno, ma è succube della madre che non si accorge di quanto lui soffra. A spezzare l'equilibrio, arriva Callie, scapestrata studentessa che viene assunta da Dolly come cameriera. Victor se ne innamora perdutamente senza speranza.

Critica (1):Con il passaporto, ormai ambitissimo, della buona accoglienza ricevuta al Sundance Festival degli indipendenti, il piccolo film di Mangold si mette alla prova di pubblici più vasti, forse anche più esigenti. Come fosse ormai un sotto-genere, la storia è ambientata in una di quelle tavole calde di provincia che la letteratura prima e il cinema dopo, negli Stati Uniti, hanno contribuito a rendere protagoniste di vicende noir, comiche, drammatiche, tragiche o grottesche. È forse nell'America periferica, sembra dirci Mangold, che "inevitabilmente" si può fare ancora cinema di piccole narrazioni, da camera, minimale ma non minimalista, pieno di idee. Per tale regione, senza per altro programmatiche battaglie anti-kolossal, Mangold (e con lui tanti altri ) sentono questo come un luogo-cinema per eccellenza, e sembrano, con piccoli budget, capaci di costruire con facilità personaggi molto sfaccettati. Il titolo originale Heavy (il pesante), si riferisce al peso del protagonista, il complessatissimo Victor, che insieme alla madre Dolly porta avanti l'omonimo ristorante. L'arrivo di Callie (Liv Tyler, la cui sensibilità schematica è ormai fuori di dubbio) è uno squarcio che si apre sul desiderio, una tensione verso la bellezza che Victor non conosce, abituato com'è ad aggirarsi tra donne mal invecchiate e beoni stancamente sovrappeso. La morte della madre, i micro-traumi che ogni convivenza lavorativa porta con sé, l'addio di Callie possono essere la sabbia che scivola via da sotto i piedi, o, più probabilmente, la miccia tanto attesa per una nuova vita. Come si diceva, la maniera pare più che nota, con i suoi ritmi sfiatati, il paesaggio monotono o semplicemente assente, i ruderi di un pionierismo per sempre tramontato (come testimonia il camion semidistrutto del padre di Victor, fermo in giardino), i colori quasi "pop" su cui già tanta arte contemporanea ha messo le mani. Eppure, Dolly's Restaurant è un film a suo modo sereno, che bilancia l'irrequietezza e l'inquietudine e il malessere psicofisico del protagonista con l'amore viscerale per i propri personaggi, con un calore dei toni che sembra adeguarsi placidamente nella pace circostante. O forse, più sensatamente, è un film che si riconosce adesivamente nel proprio mini-eroe, incupito ma affettuoso, malinconico e insicuro alle volte allucinato (vedi i sogni vagamente horror) ma pur sempre umano. E Mangold, regista che seguiremo volentieri, non ha vergogna di far spazio, come ogni grande "Kammerspiel", a grandi attori come la Winters, carismatica anche avvolta da grigiastri golfini di lana come Debbie Harry, ironica nel mostrare il corpo ingrassato del "sex-symbol" del passato, e come Pruitt T. Vince, che colma l'inquadratura con una recitazione sobria ed efficace.
Roy Menarini

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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