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Pianeta azzurro (Il) - Pianeta azzurro (Il)


Regia:Piavoli Franco

Cast e credits:
Soggetto: Franco Piavoli, Neria Poli; sceneggiatura, fotografia, montaggio: Franco Piavoli; musiche: Bruno Maderna, Josquin des Pres; produzione: XI Marzo Cinematografica (Silvano Agosti);origine: Italia, 1981; durata: 91'.

Trama:Il film parte da alcuni versi di Lucrezio, dal De rerum natura, che proiettati all'inizio sullo schermo sembrano offrirci una prima chiave di lettura delle immagini che seguiranno: "Il nascere si ripete/di cosa in cosa/e la vita/a nessuno è data in proprietà/ma a tutti in uso". Si tratta dunque di un documentario attento di fenomeni e meraviglie della natura, offerto al nostro sguardo distratto di abitanti un mondo di plastica, che non sa più vedere né contemplare, e al nostro orecchio frastornato dai fragori, che non sa più ascoltare? Oppure si tratta di una "Weltanschaung" struggente e amara? Il cosmo è contemplato nel film nei suoi contrasti di tenera bellezza da una parte: lo sgelo, il fluire delle acque, la pioggia, la luce, il germogliare della vita, i colori, i fiori, le musiche raccolte e misteriose, le voci umane sommesse e senza parole, l'iridescenza dei riverberi, la dolcezza degli esseri che si cercano ... e dall'altra l'affannarsi, la fatica, l'avidità, le risse; l'aggressività dei moderni macchinari agricoli, che violentano le zolle e ingoiano i prodotti, la crudeltà della vita - animale e umana indistintamente - con la sopraffazione che sembra dominarla ... E poi le illusioni, il pianto, la solitudine dell'adolescenza e della vecchiaia il dissolversi di ogni cosa. E infine la morte, rappresentata dalle sequenze finali nella staticità del paesaggio irrigidito dal gelo e immerso nel grigio funereo della nebbia. Un arco di 24 ore? di quattro stagioni? di un'intera vita? o di secoli e millenni, con eventi, fatti, voci, gesti, passioni che si ripetono per generazioni e di cui non si coglie il perché?

Critica (1):Il pianeta azzurro è il film meno raccontabile che esista (ed anche il meno “criticabile”). Assolutamente anomalo. Questo è dunque più un dossier informativo che una analisi di giudizio.
In esso una persona che ha coltivato per hobby, prima che diventasse una professione, il cinema (oltre la fotografia e la pittura), ha voluto portare sullo schermo il microcosmo che ben conosceva, ossia il suo angolo di terra, gli alberi, i fiori, gli animali, la gente della Val Bruna (situata tra San Martino e Solferino, luoghi famosi della seconda guerra d'indipendenza, al sud del Lago di Garda, tra la provincia di Brescia e quella di Mantova). Per l'operazione ha trovato un produttore amico (Silvano Agosti, autore in proprio di film come Il giardino delle delizie, N.P. il segreto, Nel più alto dei cieli, e collaboratore di Bellocchio per prodotti cinetelevisivi che lo fanno incontrare con Piavoli) e si è cimentato col 35 mm. Ne è venuto un film lungometraggio, “opera prima” come tale, che descrive soltanto ed esclusivamente alberi, fiori, animali e paesaggi (l'uomo è un elemento del paesaggio; tra gli uomini e gli altri esseri viventi c'è una piena analogia). Senza un filo di trama, senza dialoghi (se non in pura funzione sonora, volutamente non intelleggibili).
Un film-scommessa, dunque, che il suo autore non vuole definire “documentario”. Il fatto è che sfugge ad ogni definizione, ma nella sua apparente semplicità è tutto fuorché opera di un “naïf”. Nella durata classica di 90 minuti (anche il formato è quello “classico” 3 x 4) si guarda alla campagna, a distanze diverse (dalla macrofotografia di un insetto ai campi lunghissimi) e seguendo il trascorrere dei tempo per un giorno e mezzo (una giornata, la notte successiva e il mattino dopo). Ma quel giorno e mezzo corrisponde anche ad un anno con il trascorrere delle stagioni, ed allo stesso tempo all'evoluzione del mondo nei millenni.
L'autore parla di tre piani. Sul fondo, appena accennata, l'evoluzione biologica. Su un piano più ravvicinato, l'avvicendarsi dei giorni e delle stagioni. Su un altro ancora la vita quotidiana nei momenti più elementari: l'amore, il lavoro, il riposo, la violenza. “Tutti insieme formano una tessitura composta che segue un flusso interiore di pensieri e di emozioni più che una linea narrativa di tipo tradizionale”. Il piano portante, avverte ancora Piavoli, è quello determinato dal trascorrere delle ore, dei giorni, delle stagioni, ad esaltazione dei pianeta (azzurro, come lo vedono gli astronauti) sempre diverso e sempre uguale. E sempre bello.
Nella natura, soprattutto (“bella d'erbe famiglia e d'animali”, diceva il poeta). Basta saper vedere. Noi siamo circondati dalla magnificenza della natura, che inscena continuamente spettacoli straordinari, e non ci facciamo caso. Il grano maturo, il vento tra l'erba, il gioco dell'acqua fra i ciottoli, gli insetti pattinatori sulla superficie dello stagno, la luna fra gli alberi, la pioggia tiepida sulle foglie, e i suoni di questi elementi dì vita, sono cose viste e sentite tante volte al cinema, ma qui sono come prosciugate da ogni alone romantico, presentate - come dire? - nella loro autonomia, come cose “in sé”, senza il filtro antropomorfico dell'occhio che osserva, sentenzia e moraleggia. “Ecco, proprio questo volevo fare - ha dichiarato Piavoli in una intervista a Stefano Agosti, compartecipe della produzione - guardare con occhio vergine le cose che ci circondano e che vediamo tutti i giorni. Guardare in certo senso da lontano per non disturbare la loro vita. Guardare con l'occhio di uno che viene da lontano. Vederle in modo nuovo, superando quel logoramento che ci viene dall'abitudine”.
Piavoli usa per questa sua nuova maniera di vedere una “scala” diversa da quella solita. Non gli basta la pazienza degli appostamenti per sorprendere il microcosmo in un metro quadrato di stagno o di bosco, come facevano gli operatori di Walt Disney (per Deserto che vive, Un acro di terra e simili), ma si avvicina alle cose con la lente dell'entomologo. Non è solo per descrivere da scienziato la vita degli animali (il suo è un film lirico, semmai) ma soprattutto per esaltare ciò che osserva. Nessuna preoccupazione “realistica”, quindi: quando Piavoli filma la chiocciola a distanza ravvicinatissima, facendoci vedere un mostro semovente dalla grande armatura screziata e i tentacoli scintillanti, non indulge al pittoresco e alla “meraviglia” della natura disneyana, ma riscopre le cose nella loro vera dimensione alterando, per cosi dire, la loro prima dimensione. Questa chiocciola è “reale” ma come inserita in una nuova lunghezza d'onda (si sente anche, nel sonoro, il “rumore” della sua marcia).
Non mancano ambizioni “alte”. Quella di definire, in certo modo, il senso dell'esistenza. “Questo piccolo cosmo, questo orticello in cui sono cresciuto - ha detto Piavoli - l'ho osservato come uno specchio capace di rivelare fenomeni più ampi, addirittura il mistero della vita”. Lucrezio, che fornisce i versi dal “De Rerum Natura” che fanno da epigrafe, è nume tutelare del film insieme a Darwin, a Leopardi, a Pascoli, a Virgilio e ad altri ancora. L'interpretazione della realtà è laica, non mistica, in una prospettiva evoluzionista; ma allo stesso tempo è patente una sostanziale “religione” delle cose, nel significato etimologico della parola (cristiani o laici, dice Piavoli, son definizioni del tutto superate): in fondo definirlo panteista, questo cantore della natura, non sarebbe errato.
Ma, attenzione, non certo alla Fratello Sole, Sorella Luna. Anche Zeffirelli canta i prati in fiore e il “divino del pian silenzio verde”, ma nel suo film francescano sembra che i fiori siano dipinti, vibrano di una luce da teatro, tutto diventa palcoscenico. E tutto finto, da quadro pre-raffaellita, tutto estenuato in un estetismo decisamente kitsch. Piavoli invece è terragno, meno diafano, meno efebico. Anche lui “dipinge” con la luce, anche lui è molto attento ai valori figurativi, cromatici, delle sue inquadrature. Anche in Il pianeta azzurro la natura si fa quadro, pittura, ma corposa, grassa, da “realista” casalingo (quando invece, per contrasto, non richiama esplicitamente la pittura astratta, come nelle inquadrature iniziali dei ghiacci che si sciolgono o in certi “quadri dinamici” come le gocce luminose e “allungate” della pioggia o il movimento frenetico degli insetti che volando sullo stagno compongono ideogrammi danzanti, lettere di un alfabeto misterioso, voci di un discorso magico. Talvolta la cura figurativa dei regista - operatore diventa così “controllata” da cadere nell'estetismo, nella fotografia “troppo” bella, e - paradossalmente, trattandosi di materia contadina - raggiunge raffinatezze alla Franco Maria Ricci (la macchina agricola arrugginita e abbandonata vista come “bell'oggetto”; la colonna di numeri neri scritti sulla parete bianca, ecc.).
Il pericolo della retorica fa capolino qua e là. Ma occorre anche dire che Piavoli non chiude la sua visuale entro un universo idealizzato, non chiude fuori dalle porte del suo Eden l'uomo, la fatica, la crudeltà, il dolore. La lotta per la sopravvivenza, osservata nel regno animale, si ripercuote anche nella vita degli uomini: i contadini litigano per un palmo di terra, la ragazza piange, di notte, per un incontro mancato. Le presenze “umane” che punteggiano la vita della natura non soltanto non si oppongono ad essa, non la violentano, ma anzi ne emergono fatalmente e “naturalmente”, verrebbe da dire: il jet che solca il cielo, il trattore che lavora di sera con le luci accese e sembra un'apparizione da Incontri ravvicinati o da E.T., la radio che di primo mattino si combina con i gridi lontani e le campane (lo speaker dice, fra le notizie dei giornale - radio, che le banche hanno ridotto il “prime rate”: argomento lontanissimo da Lucrezio, sembra, eppure pertinente all'economia agricola); i tralicci dell'alta tensione che forano la nebbia. E l'uomo come assenza, in quella casa abbandonata che stilla pioggia e malinconia.
Non c'è nostalgia di un passato felice e irripetibile, nel film di Piavoli, il quale è ben consapevole che non si può tornare indietro (quella nostalgia che si avvertiva in L'albero degli zoccoli, di quell'Olmi che Il pianeta azzurro può richiamare; ed anche Olmi è un autodidatta fuori del grande giro). Questo lo distacca dalla mentalità cineamatoristica, anche se gli autori di film a formato ridotto lo riconoscono uno di loro. Non dobbiamo nasconderci il pericolo che il successo di Il pianeta azzurro incoraggi i film sulla vita delle farfalle e sui tramonti, soggetti troppo spesso trattati dal cinema non professionale; sta di fatto però che il risultato è di tipo amatoriale a livello alto, anche perché per una impresa del genere è impensabile una produzione di tipo industriale.
Risultato unico, quindi, da assumere nei suoi valori filmici con la convinzione che si tratta di oggetto delicatissimo, con su scritto “Fragile”, e difficilmente ripetibile.
L'interesse di Il pianeta azzurro sta soprattutto nell'accordo immagine - suono, che si verifica qui come se la compresenza di sensazioni visive e sensazioni audititive, nella percezione del mondo che ci circonda, fosse una novità. Ancora una volta, ecco l'impressione di scoprire fenomeni che ci sono stati sempre vicini e che non abbiamo mai avuto il buon senso di vedere e di ascoltare. Così come nella lunga “tenuta” delle immagini abbiamo tutto il tempo di contemplare ciò che viene mostrato sullo schermo (come nella bellissima e lunghissima inquadratura della cascina, di sera, vista dall'esterno, mentre al di là delle due porte illuminate si svolge la vita di due famiglie), così nella ricerca accanita delle esatte connotazioni sonore abbiamo modo di sentire nitidamente il dipanarsi degli eventi, il trascorrere dei tempo, in certo senso. Questo “tempo” che è davvero la sostanza dei film, basato su ritmi precisi.
Essi sono anche ritmi musicali, e anzi potrebbero comporsi in movimenti schiettamente musicali (l'Adagio iniziale, il Mosso del temporale, l'Allegro dei lavori estivi, l'Agitato della lite, l'Andante della pioggia, ecc.).
La colonna sonora ha anzi preteso l'uso di tecniche più sofisticate di quelle delle riprese. Piavoli ha voluto per queste ultime degli obiettivi luminosissimi ma poi ha sempre lavorato con inquadrature fisse, senza zoom e senza filtri particolari, usando la luce naturale (soltanto un paio di volte la macchina compie una lenta panoramica sul paesaggio, da destra verso sinistra, e un paio di volte carrella verticalmente, una verso l'alto all'esterno della cascina vuota, e una verso il basso per descrivere i numeri in colonna sulla parete). Per incidere il sonoro ha fatto ricorso ad un microfono direzionale d'alta sensibilità e poi ha compiuto delicate operazioni di montaggio sonoro e di missaggio, intervenendo così in modo massiccio. Dice giustamente Piavoli che anche i fonemi, oltreché indicare stati d'animo o di pensiero (il regista ha voluto che i discorsi umani diventassero puri suoni) rispondono ad esigenze di carattere compositivo. Film-concerto, quindi, partitura visiva e sonora.
All'inizio c'è un brano di Bruno Maderna (da “Continuum”) e nel finale uno di Josquin des Prés (da “Missa Hercules Dux Ferrariae”); ma sono solo bave sonore non più importanti di tutto ciò che c'è nel mezzo, lo sgocciolare, il vento, le grida, il gorgheggiare degli uccelli, il gracidare delle rane, l'impazzare dei grilli, i richiami delle cornacchie, le urla dei litiganti, il ronzio degli insetti, il pianto della ragazza, il picchiettare delle pioggia e così via. Maderna all'inizio, come figura dei primordi, della giovinezza dei mondo; Josquin des Prés nel finale, come tensione verso un mondo nuovo, come slancio verso il futuro. E i rumori “veri” (di una “verità” lontana dal banale della natura di tutti i giorni, dunque selezionata con cura; diventata cinema, appunto) chiamati ad esprimere il “piano sonoro” dell'oggi.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 223, aprile 1983

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