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Moglie del capostazione (La) - Bolwieser


Regia:Fassbinder Rainer Werner

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Rainer Werner Fassbinder, dal romanzo di Oskar Maria Graf; fotografia: (16 mm.) Michael Balhaus; scenografia: Kurt Raab, Nico Kehrhan; musica: Peer Raben; suono: Reinhard Gloge; montaggio: Ila Von Hasperg, Juliane Lorenz; interpreti: Kurt Raab (Xaver Ferdinand Maria Bolwieser), Elisabeth Trissenaar (Hanni), Bernhard Helfrich (Frank Merkl), Udo Kier (Schafftaler), Volker Spengler (Mangst), Armin Maier (Scherber), Karl-Heinz von Hassel (Windegger), Gusti Maryhammer (Neidhart), Maria Singer (Frau Neidhart) Willi Harlander; produzione: Bavaria Atelier, per Zdf radiotelevisione tedesca (Repubblica Federale tedesca 1977); distribuzione: Goethe Institut; durata: 112'

Trama:
Innamoratissimo della moglie, bella e più ricca di lui, il capostazione sospetta che lo tradisca, ma è deciso a rifiutare l'evidenza e i pettegolezzi sempre più espliciti. Lo fa al prezzo dell'autodistruzione, disprezzato da tutti, escluso dalla comunità.

Critica (1):In Bolwieser (versione cinematografica di un film per la TV di Fassbinder: anno 1977), è ancora di scena il sesso, che è sempre usato dall'autore come un reagente per agglutinare altri discorsi e creare un centro intorno a cui questi possano assumere una forma traslata ma per ciò stesso più penetrante. Siamo negli anni immediatamente precedenti l'avvento del nazismo Bolwieser è capostazione in una cittadina di provincia ed è come ammalato di un'esuberanza sessuale che scarica sulla moglie Hanni, donna pragmatica e non poco equivoca. Quest'ultima, dopo aver prestato dei soldi a usura a Merkl, macellaio del paese, ne diviene la "calda amante" (folgorante è la battuta risentita di Hanni al marito che, cominciando a sospettare il tradimento , cerca di trattenerla in casa: "Esco. Vado a prendere la carne"; battuta che, carica di tutta la sua duplicità o doppiezza semantica, è a un tempo una giustificazione casalinga di massaia che va a far la spesa e una ribalda dichiarazione di sfida). Per tacitare i pettegolezzi, Bolwieser giura in tribunale che la moglie non ha commesso adulterio; ma si busca quattro anni di carcere per falso. Nel frattempo Hanni, abbandonato Merkl, è passata a un nuovo amante. In prigione, Bolwieser fuma senza fiatare e catatonico l'atto di divorzio sottopostogli dall'avvocato della moglie. In questa storia così eccessiva, ciò di cui si parla è il sesso nella sua nudità e irrimediabilità animalesca. Non per niente il denaro ha in Bolwisier un'incidenza relativa, relegato a ruolo gregario. Il punto infatti è che, per il regista tedesco, la piccola borghesia di Weimar è una classe che ha subito una regressione antropologica a uno stadio di decivilizzazione,in cui l'istituzionalizzarsi dello sbando e dell'insicurezza favorisce l'esplosione incontrollata degli istinti. Fassbinder non allegorizza dunque il sesso sottintendendo un ritratto storico che dal primo sarebbe "figurato", ma propriamente vuol fare trasparire la storia della registrazione di comportamenti sessuali determinati. La borghesia di Bolwieser è disgregata, impotente e inconsapevole di sè. Questo è rappresentato dal regista attraverso una selettiva tecnica dell'accumulo scenografico. Così gli specchi, moltiplicando l'immagine dei volti e dei corpi, ne parcellizzano il senso e impediscono la ricomposizione di un'identità unitaria. E più ancora, dal momento che il regista spesso gioca a non farci intendere (almeno di primo acchito) se ciò che vediamo è l'immagine vera o quella riflessa, ne deriva che gli stessi corpi sono destituiti della loro "pesantezza" e ridotti a meri simulacri. C'è poi una scena che ripropone (e riassume) il tema della frantumazione: è quella in cui un rapido montaggio mostra dettagli stretti (una mano, un ginocchio, una spalla ecc.) dei corpi di Bolwieser e Hanni allacciati nell'ennesimo amplesso. Dunque Bolwieser è immerso nel caos e cerca di difendersene prevalentemente in un modo: rintanandosi nella sua abitazione e innescando un processo di progressivo slittamento autistico che avrà il suo apice nella (auto)reclusione carceraria, tra pareti ormai "definitive" perchè interiori. Qui Fassbinder riesuma un "topos" fondamentale del cinema espressionista tedesco: quello dello sbandamento dell'uomo solo, naufrago del mare della folla metropolitana, che cerca disperatamente un ancoraggio domestico di sicurezza. Kracauer, in un saggio famoso, individua nell'infantilismo come condizione dello spirito una delle più gravi colpe della piccola borghesia di Weimar e una delle ragioni pregiudiziali dell'ascesa prima e del consolidarsi poi del nazismo. E certo Bolwieser è affetto dal virus dell'immaturità e la metastasi è così avanzata da contagiare qualsiasi comportamento del malato. Il principio del piacere ha vinto, e aperture insidiose sulla realtà sono diventate impossibili più che improbabili. La cecità dei tradimenti "pubblici" della moglie è quella di chi sceglie di non vedere per non mettere a repentaglio il proprio quietismo. Ma anche l'esasperazione sessuale; gli scatti isterici delle reprimende alla moglie e le repentine conversioni a un tono supplichevole da cane bastonato corrispondentemente l'alternarsi di atteggiamenti vessatori e filiali nei confronti della medesima; il culto dell'autorità e il feticismo della divisa (ai bambini piace molto travestirsi); perfino i lineamenti morbidi e femminei di Kurt Raab sono tutti segni di una caratterialità infantile. Inoltre Fassbinder impiega in maniera ossessiva un armamentario fatto di tende, tendine, porte a vetri. I personaggi sono quasi sempre ripresi dietro vetrate o vetrine, tendine leggere, ecc.; appaiono e scompaiono continuamente dietro porte che si aprono e si chiudono; sono travisati da inferriate o dagli stipiti delle finestre o dal vapore che esce da un bricco fischiettante. E tutto un equipaggiamento scenografico di corpi traslucidi che il regista mobilita con l'intenzione di rendere irriconoscibili i soggetti, attraverso una pratica alterna di occultamento - di svelamento. Questi ostacoli frapposti alla visibilità dello spettatore diventato, per traslazione dal guardante al guardato e dal fisico allo psichico, ostacoli alla comprensione tra i personaggi. Ciascuno vive separato dagli altri, privato della dimensione sociale dell'esistenza, e questa è ridotta a un iterante monologo che nessuno ascolta. Infatti non c'è dialettica, manca cioè la coscienza di esistere solo in relazione agli altri, solo in quanto si entra in un sistema sociale. Non per niente i personaggi, anche quando si parlano, evitano di guardarsi in faccia, respingono ogni tentativo di riconoscersi nell'altro. Così essi appaiono ciechi e il mondo attorno a loro buio e divengono gli esemplari rappresentanti di quella classe frustrata, colpita da una profonda crisi di identità culturale, che trovò il proprio "status" sociale e politico nel movimento nazista. Del resto, tutti questi sipari che rendono sfuggenti chi vi si nasconde dietro, assolvono anche una funzione di straniamento, danno profondità prospettica al discorso attraverso il distanziamento critico che l'espediente permette al regista, evitando a lui e a noi il ricatto della compassione giustificazionista a cui potrebbe spingere la considerazione dei tragici casi di un borghese piccolo piccolo.
V.P. Cinema Nuovo, febbraio 1992

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