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Donna del ritratto (La) - Woman in the Window (The)


Regia:Lang Fritz

Cast e credits:
Soggetto: tratto dal romanzo "Once Off Guard" di J. H. Wallis; sceneggiatura: Nunnally Johnson; fotografia: Milton Kranser; musiche: Arthur Lang;
montaggio: Gene Fowler Jr.; scenografia: Duncan Cramer; arredamento: Julia Heron; costumi: Muriel King; effetti: Vernon L. Walzer; interpreti: Edward G. Robinson (Professor Richard Wanley), Joan Bennett (Alice Reed), Raymond Massey (Procuratore Frank Taylor), Edmond Breon (Dottor Michael Barkstone), Dan Duryea (Heidt), Frank Dawson (Collins), Thomas E. Jackson (Ispettore Jackson), Arthur Loft (Mazard), Dorothy Peterson (Sig.ra Wanley); produzione: Nunnally Johnson per Christie Corporation-International Pictures-Rko Radio; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Usa, 1945; durata: 99’.

Trama:Università di Gotham, Maine. Il criminologo professor Richard Wanley (Edward G. Robinson) tiene una lezione sull'omicidio, i cui gradi devono essere distinti in base alla diversità degli impulsi che l'hanno preceduto (per dovere di chiarezza sulla lavagna è scritto: Sigmund Freud). Inoltre «colui che uccide per legittima difesa non può essere considerato alla stregua dell'uomo che uccide per lucro». Alla stazione Wanley saluta la moglie e i due figli che vanno in vacanza, e mentre si incammina verso il Club la bellezza di un ritratto di donna esposto in vetrina attira la sua attenzione. Al Club, gli amici rivelano di conoscere il quadro: l'hanno denominato «La ragazza dei sogni».
Sono le 22.30.Wanley, fermatosi ancora davanti alla galleria, improvvisamente scorge, proprio accanto alla pittura, riflesso nella vetrina, l'originale in carne e ossa. Lei dice di chiamarsi Alice Reed (Joan Bennett), propone di bere qualcosa e lo invita a casa sua, dove gli mostra alcune prove del ritratto. Ambiente elegante, champagne nei bicchieri. Entra un uomo maturo, robusto, che schiaffeggia la ragazza e aggredisce Richard. La donna passa un paio di forbici al professore e lui pugnala l'energumeno. Il morto era un amante di Alice. Wanley telefona alla polizia, ma riaggancia: in fondo è stata legittima difesa. Per lui comincia una serie di vicissitudini nel corso delle quali dovrà liberarsi di un cadavere e sarà coinvolto in un ricatto e in un altro tentato omicidio; alla fine, disperato, dopo essersi versato del veleno in un bicchiere, si addormenta – per risvegliarsi esattamente alle 22.30, sulla poltrona del Club: è stato tutto un sogno. Uscendo, una donna lo avvicina davanti alla galleria, si specchia nella vetrina, accanto al ritratto, chiede
un fiammifero. Questa volta il professore se la dà a gambe.

Critica (1):Lang ormai è cittadino americano e vive in una bella casa di Santa Monica, con la sua collezione di oggetti d'arte primitiva e una biblioteca di oltre cinquemila volumi. L’Europa è lontana, ma la presenza di Brecht probabilmente rievoca la stagione convulsa di Weimar, l'espressionismo, le ragazze dei bistrot e dei cabaret. «Ora, cos'altro è il finale di Caligari – in cui incontriamo persone che abbiamo visto nel "sogno" – se non il finale di The Woman in the Window? E lo feci inconsciamente. Quando mi venne l'idea del film non pensai affatto che stavo copiando me stesso». L’ispirazione nasce da un romanzo di J.H. Wallis, Once Off Guard, che passa allo sceneggiatore Nunnally Johnson, anche produttore del film per la RKO.
Quando hai abbassato la guardia può succedere di tutto, se la moglie è in vacanza e sei solo in città, garbatamente insoddisfatto dei tuoi cinquantanni (per Lang sono cinquantaquattro), ecco, può succedere di tutto. Sembra una song di Kurt Weill, e accade a un criminologo in pantofole, un prepensionato a vita come Richard Wanley. Pertanto la ragazza dei desideri si concretizza, anche se – abbiamo detto – è proprio un sogno, non la realtà. Sfogliando il
Cantico dei cantici (ricordate Der müde Tod?) sulla comoda poltrona del Club, il protagonista si addormenta con quella frase in testa («l'amore è più forte della morte») e vive il suo rimpianto.
The Woman in the Window (La donna del ritratto, 1944), un altro bel film e un meccanismo perfetto, mostra che Lang ha imparato bene la lezione di Hays. Infatti, Joan Bennett, che manifestamente interpreta una prostituta, si chiama con accortezza Alice, contraddicendo il ruolo che sostiene nell'opera. Come nel celebre testo di Lewis Carroll, tutto si svolge oltre lo specchio, che in questo caso è la vetrina di una galleria d'arte. Tema abituale in Lang, lo specchio/schermo/accesso assume qui un valore iniziatico. Quanti spettatori sono disposti a entrare nel Club di Wanley? In quel confortevole rifugio per uomini soli aleggia sentore di eternità: chi ne oltrepassa la soglia sperimenta la morte. (…)
«Sono il primo a odiare questo senso di torpore, questa grassa tranquillità da cui mi sento invadere. Per me qui si smorza il gusto della vita e finisce ogni avventura dello spirito», medita Richard seduto con i due amici. (…) La selva oscura è, come sempre, l'inconscio. E l'inconscio colpisce in ogni luogo. «I guai nascono spesso da cose insignificanti, create da inclinazioni naturali sconosciute a noi stessi», sottolinea Frank. Come dargli torto? Il tema dell'impulso che provoca il male, spezzando l'Io a metà, caratterizza Wanley come Mabuse e il patetico mostro di M. Questa è l'America del Codice Hays: anche se il professore è un assassino, meglio pensare che l'abbia sognato. Il regista comunque non resiste alla tentazione di fornirci una piccola chiave simbolica attraverso il nome del finanziere. Mazard: mistery più hazard, cioè mistero e azzardo, ovvero il mistero è fonte di pericolo.
L’esca dell'avventura e del gioco rischioso si trova giustamente per strada, di notte. Lei indossa un abito scuro con lustrini e fuma da un lungo bocchino, mentre l'ala nera che decora il cappello scende a coprirle il lato destro del viso. La bruna signora scaturita dalle tenebre – disponibile, accogliente – è soltanto uno dei mascheramenti dell'eterno giardiniere di pietra, la morte. La femme fatale, o
dark lady nella tradizione anglosassone, si rivela infatti remota, quasi asessuata, e Richard non riesce ad averla, difficile persino toccarla. Dopo l'omicidio si dicono addio, ma lei ritorna, gentile, comprensiva, rassicurante com'era in Hilde Warren und der Tod. Si propone discretamente, senza forzare i tempi, ma non vince, perché una breve immersione nel maelstrom è abbastanza per Wanley e per altri nel pubblico.
Con
La donna del ritratto Lang dimostra che si può fare cinema brechtiano e didattico con l'ironia e la leggerezza del noir. L'odore di zolfo resta, tuttavia, e con esso il sollievo/amarezza del risveglio. Wanley non è un personaggio romantico, bensì la versione appena più colta di Joe Doe. In lui è d'obbligo identificarsi: perciò è grassottello, pavido, un po' stanco, miope, debole di cuore. Niente paura, anche Wanley è stato un brutto sogno.
Stefano Socci,
Fritz Lang, Il Castoro Cinema, 1995

Critica (2):Fin dall'epoca dei monumentali set per i suoi film UFA, le composizioni di Lang hanno sempre avuto carattere spaziale e luminoso. Anche se Lotte Eisner afferma che «Lang punta tutto sulla struttura, sulla composizione in uno spazio tridimensionale» non bisogna dimenticare che la concezione langhiana dello spazio filmico è simbolica e illustrativa. Egli si limita a suggerire o a proiettare lo spazio sull'occhio della macchina da presa. La disposizione topografica di The Woman in the Window rivela una certa lucidità e fluidità spaziali (interfluidium) in una dimensione allusiva e allucinatoria quasi sonnambolica. Ambienti onirici, privi di sostanza compaiono e si evolvono/dissolvono gli uni negli altri, si dilatano all'infinito mediante specchi e altri espedienti, in modo molto simile a quello in cui agiscono i nostri sogni, quando veniamo trasportati in spazi immaginari e in dimensioni visionarie. Le stanze rivestite di legno del circolo si intrecciano e si fondono in modo uniforme, grazie alla magia della macchina da presa, con l'atrio, con la sala di lettura, con la galleria e con le vie, quasi fossero un unico ambiente di sogno, privo di muri e di delimitazioni. Analogamente, Lang dirige lo sviluppo dell'azione senza bruschi stacchi, con ellissi di immagini in dissolvenza, senza ricorrere alle soggettive e/o al monologo interiore (così abusato dai registi di scarso talento). Lang ci permette di condividere il punto di vista del sognatore, e nella prospettiva di chi sogna gli ambienti devono ovviamente apparire meno concreti.
Le scenografie delle vie di Manhattan in
The Woman in the Window sono astratte e disadorne come quelle dell'immaginaria Düsseldorf (o Berlino? o qualsiasi moderna Metropolis?, se è per questo). Trasfigurando l'invenzione del sogno in una realtà ottica quale essa davvero appare a chi guarda, Lang può convincere gli spettatori che stanno solo sognando, ma che al tempo stesso sono ancora svegli. Quella che Henry Langlois ha definito métaphysique du décor nel cinema muto tedesco vale anche per i film americani di Lang. Le scenografie mentali di Lang ricordano gli ambienti altrettanto angosciosi e metafisici, le architetture scarne e inquietanti dei quadri di Edward Hopper degli anni '30. L'affinità delle immagini notturne di Lang con quelle della «superrealista» Ash Can School di New York, un gruppo di artisti cui apparteneva anche Hopper, è forse a prima vista sorprendente, ma non è casuale come potrebbe sembrare. Le scenografie di Lang hanno un aspetto puramente pittorico grazie alla semioscurità dell'illuminazione, e dal loro disegno e dai loro contorni emana la stessa atmosfera di malinconia e di fatale attrazione per la morte suscitata dai quadri di Hopper. Come scrive Peter Bogdanovich, «quale creatore di incubi Lang ha pochi rivali; il suo mondo – sia che si tratti dell'Inghilterra del XVIII secolo di Moonfleet, sia della società medio-borghese in cui vivono i ferrovieri di Human Desire – è un mondo di ombre e di notte – sinistro, tormentato – impregnato di funesti presagi e di violenza, di angoscia e di morte» ". (…)
The Woman in the Window, come si potrebbe già dedurre dal titolo, è un compendio di superfici vitree e rivelatrici, di labirinti ad hoc e di riflessi ingannevoli, che mostrano la natura delle metafore langhiane di «aperto» e «chiuso», «visibile» e «invisibile», «essere» e «apparire», «vero» e «falso» ecc. Per i conoscitori l'immagine allo specchio svolge un ruolo chiave fin dai tempi di Der Student von Prag (1914); ma per Lang la metafora dello specchio non è un ulteriore variazione contemporanea sul tema del doppio, bensì l'ossatura di un caso più specificamente freudiano e di un sottile gioco letterario. Il sogno stesso è soltanto un mezzo che permette a Lang nuove elaborazioni del suo concetto di identità. L'io onirico del professor Wanley (o, di fatto, noi stessi) è perfettamente d'accordo con il corpo cui appartiene, sul fatto che questa drammatica inversione speculare del mondo reale sia uno spaventoso errore. Anche Lang ritiene che il livello più appropriato dove affrontare questo tema di diversione, manipolazione e irritazione erotica sia soltanto quello onirico: «Perché un buon padre di famiglia, un cittadino rispettabile, dovrebbe suicidarsi per colpa di una fantasia?» ". Di fronte al finale tragico del romanzo Once Off Guard, da cui è tratta la sceneggiatura, Lang era contrario all'idea di condannare un galantuomo solo perché, per un momento, aveva abbassato la guardia. Intenzionato a non ripetere la formula tedesca di colpa e autodistruzione (come in molti classici tedeschi dell'epoca, anche del livello di Der blaue Engel), egli pensò l'episodio dell'incubo come una favola sulla natura illusoria del cinema stesso e la sua controversa costruzione della realtà con l'aiuto di una macchina da presa.
Il comune carattere artificiale della dimensione onirica e dell'elemento del doppio è messo in risalto dagli ambienti coperti di specchi della camera da letto della donna, cosa che costringe a chiedersi quale spazio sia reale e quale illusorio. Gli specchi, inoltre, danno una buona descrizione dei personaggi che occupano lo spazio, e la scenografia funge da commento alla complessa situazione in cui si trovano coinvolti. La risposta, naturalmente, non è semplice. Entrambi gli spazi sono illusori; lo specchio si può considerare riflettente non in una, ma in due direzioni. Creando due lati speculari interdipendenti, lo specchio «bifronte» confonde le distinzioni tra due scene ugualmente ingannevoli, in un modo molto simile a quello con cui il mezzo stesso raffigura la realtà tramite un procedimento meccanico di specchi riflettenti. Non solo esso suggerisce l'incipiente inversione e la concomitante realtà ingannevole che sono l'elemento tipico della riflessività di qualsiasi specchio (o macchina da presa), ma anche ritrae e inscrive la sua azione sulla superficie della parete (della pellicola). La parete costituisce quindi un'immagine in sé, ma contemporaneamente incorpora il riflesso di quell'immagine; di conseguenza la superficie della parete sembra piegarsi o raddoppiarsi, serrando lo specchio fra due mondi, quello della realtà apparente e quello dell'illusione riflessa. Questa idea viene espressa di frequente, per esempio quando Wanley/Robinson (egli stesso un'immagine sdoppiata!) entra nella camera da letto della donna, con l'immagine rovesciata allo specchio di se stesso (il suo io onirico) nascosta dietro di lui, come qualcuno che condivida un segreto. Come affermano Place e Peterson, «è normale che un personaggio formi costantemente doppie immagini bilanciate, formate da se stesso e dal suo riflesso in uno specchio o dalla sua ombra. Queste composizioni, per quanto superficialmente equilibrate, iniziano a perdere stabilità nel corso del film, allorché il simbolico doppio o perde la propria apparente sostanzialità oppure si rivela un alter ego dominante e distruttivo».
Come abbiamo appena visto, i molti specchi sulle pareti dell'elegante appartamento di Joan Bennett sono il mezzo dell'illusione, della diversione e della seduzione; essi suggeriscono un perimetro dell'ambiente che non può esistere secondo lo spazio architettonico. Essi alludono inoltre allo spazio al di là della camera, uno spazio che in realtà non esiste affatto. Stabilendo un legame fra la realtà e l'illusione degli spazi architettonici, gli specchi suggeriscono rapporti invisibili fra parti dell'immagine che gli spettatori possono anche non vedere, e che perciò devono essere spiegati. L'uccisione dell'ex-amante della donna, Howard, è riflessa in uno specchio, e i personaggi sono disposti nello spazio in modo tale da far palpitare tra loro una sorta di vuoto fatalistico e senza nome. Il gioco di specchi è indizio di una certa distanza, letteralmente di una separazione tra gli attori Bennett e Robinson prima che nasca qualunque flirt. I due sconosciuti sono raffigurati da due separate immagini allo specchio, che raddoppiano la tensione spaziale nella stanza e accentuano la distanza fisica tra questi due estranei. Quando l'uomo domanda alla donna quando si incontreranno di nuovo, lei gli risponde «Mai», distruggendo la sua infondata speranza di soddisfare le proprie fantasie erotiche. Le immagini multiple, spezzate all'infinito, dei due complici disorientati definiscono la natura del delitto, la sua serie infinita di conseguenze. Nella sua funzione di coordinatore di parti della caotica storia, esso mette anche in contatto le immagini sconnesse del film tramite persuasori e mezzi occulti.
Solo all'interno dell'appartamento della donna l'illuminazione è forte e vivida; quando Wanley/Robinson entra nell'appartamento, la camera è ancora al buio. Alice/Bennett accende prima una piccola luce sopra la porta, poi la lampada a stelo vicino al divano e infine illumina progressivamente tutta la stanza con diverse altre luci, finché tutto appare luminoso e bene in vista, dando l'impressione che gli oggetti sorgano misteriosamente da un abisso di ombra. Poi la macchina da presa segue Wanley nell'antro di Circe, che è piuttosto un appartamento ostentatamente «moderno» degli anni '40, pieno di oggetti decorativi e lussuosi. L'arredamento art déco elegante e molto lineare, composto da vasi bianchi, statue di nudi, soprammobili di porcellana, tende di raso e superfici lucenti di vetri e specchi, non è solo un indizio della ricchezza e del gusto della donna, ma definisce anche il suo personaggio (a giudicare dall'eleganza del suo abbigliamento e dell'arredamento, deve trattarsi di una cacciatrice di uomini facoltosi, della donna di un gangster o di una prostituta di alto bordo). Il suo stile di vita piuttosto misterioso e dubbio è costantemente richiamato nel corso del film per mezzo di immagini doppie. Siamo sul punto di riconoscere gli innumerevoli riflessi della donna allo specchio che adornano le pareti del suo appartamento come uno dei molti modi in cui si manifesta l'inganno. Il doppio implica una qualche forma di inganno, ma di solito evoca anche un contrasto fra giusto e sbagliato, fra bene e male; in questo film, invece, i doppi creati da Lang non stabiliscono distinzioni così nette fra vero e falso. Anzi, Joan Bennett non ha un equivalente nella «vita reale», e la sua natura illusoria viene trasmessa letteralmente dagli specchi o dai vetri delle finestre, che smentiscono così le loro funzioni ottiche quotidiane.
Come le immagini degli specchi riflettono il dilemma personale dei due protagonisti (e viceversa), così altre coppie di immagini nel film sono reciprocamente ambigue. L'esempio più ovvio di doppia immagine è naturalmente nella scena iniziale e in quella finale, quelle in cui compare nuovamente la chimera di Wanley. La verità visiva è minata dagli altri doppi messaggi del film: quest'idea di un doppio codice è esibita (di nuovo) nell'ultima immagine del sogno stesso, quando l'alter ego di Wanley si trasforma gradualmente da illusione autocostruita in apparente realtà. Veniamo ingannati una volta di più, anche se in un modo diverso, quando l'intero dramma si rivela essere frutto della sua immaginazione, un sogno collettivo. Con questo genere di falso sdoppiamento in veste manieristica, Lang costringe lo spettatore a rendersi conto della futilità del tentativo di stabilire la «verità» visiva. L'unione degli opposti è inoltre suggerita dalla struttura insistentemente ellittica del film, che presenta quasi la stessa scena all'inizio e alla fine. Facendo coincidere l'inizio e la fine del film, Lang mette in evidenza il processo in base al quale le proposizioni visive o verbali vengono prima o poi rovesciate. Quest'idea è mostrata dalla separazione fra azione e spettatore per certi versi tipica del principio brechtiano: ciò significa che Lang vuole che lo spettatore pensi, piuttosto che identificarsi con quello che sta succedendo.
Questo principio ha, naturalmente, importanti conseguenze per le scenografie langhiane: lo stile visivo dei film di Lang si può considerare un'introduzione a una poetica radicalmente diversa, fondata sulle trasformazioni, sia metaforiche sia corporee, che si realizzano sullo schermo.
Fritz Lang-la messa in scena, a cura di P. Bertetto e B. Eisenschitz, Lindau-Museo Nazionale del Cinema, 1993

Critica (3):(…) Sin dal suo arrivo negli USA, Fritz Lang (1890-1976) ha dimostrato che il suo talento non aveva sofferto dell’esilio né delle costrizioni hollywoodiane: al contrario, fiorirà ancora, se possibile, in meccanismi perfettamente oliati – e dai quali non è però assente una grande carica di umanità. La donna del ritratto si presenta dapprima come un brillante esercizio di stile, che ricama attorno a temi cari all’autore di M e di Furia: la colpa, l’autopunizione, l’ironia dei destino ecc. Checché se ne dica, il rovesciamento finale non ha niente di arbitrario. Lang ha anzi costruito tutto il film sulle nozioni di proiezione dei demoni nascosti, del desiderio soggiacente, e del passaggio all’azione. Il vecchio clichè del demone meridiano trova in quest’ingranaggio notturno la sua illustrazione più convincente. La lentezza voluta del ritmo, il rifiuto della suspense tradizionale a vantaggio di una certa fluidità onirica, certe astuzie di regia (il passaggio dal sogno alla realtà avviene senza stacco), fanno di questo film una gioia per gli occhi e per lo spirito. (…)
Claude Beylie,
I capolavori del cinema, Vallardi, Milano, 1990

Critica (4):
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