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Ho sparato a Andy Warhol - I Shot Andy Warhol


Regia:Harron Mary

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Mary Harron, Daniel Minahan; fotografia: Ellen Kuras; montaggio: Keith Reamer; musica: John Cale; scenografia: Therese Deprez; costumi: David Robinson; interpreti: Lili Taylor (Valerie Solanas), Jared Harris (Andy Warhol), Lothaire Bluteau (Maurice Girodias), Martha Plimpton (Stevie), Stephen Dorff (Candy Darling), Anna Thompson (Iris), Peteer Friedman (Alan Berg), Tahnee Welch (Viva), Jill Hennessey (Laura), Donovan Leitch (Gerard Malanga), Michael Imperioli (Ondine), Reg Rogers (Paul Morrissey); produzione: Tom Kalin, Christine Vachon per Playhouse Intl. Pictures; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA/Gran Bretagna, 1996; durata: 106’.

Trama:Giugno 1968. Valerie Solanas, lesbica, femminista separatista e fondatrice di una società per la castrazione del maschio, attentò alla vita di Andy Warhol, maestro della pop art. Passò tre anni in un manicomio criminale, ebbe poi un'esistenza randagia, morì nel 1989

Critica (1):È la storia vera di Valerie Solanas, che ebbe il suo quarto d’ora di celebrità per aver attentato alla vita di Andy Warhol. Nel 1966 Valerie tira a campare a New York, tra la stesura del suo libro The SCUM Manifesto e la militanza femminista. Riesce a far avere un suo volantino a Andy Warhol, fa la conoscenza di un boss dell’editoria che le promette un contratto per un romanzo e, grazie alla sua morbosa insistenza, viene infine ammessa nella Factory. Sembra finalmente andare tutto bene. Ma non passa molto che il suo temperamento aggressivo le aliena il favore della Factory e di conseguenza ne viene allontanata. Da qui il tentativo di vendetta su Warhol. La prima sensazione che dà il film della giovane cineasta (esordiente) Mary Harron è quella di una rappresentazione estremamente banale, leggera, superficiale del contesto in cui Valerie Solanas, nel 1968, sparò al “guru” della pop-art americana. Poi rispunta fuori chissà da dove una dichiarazione proprio di Warhol, che diceva: «Se volete sapere tutto di Andy Warhol, basta che guardiate la superficie: quella delle mie pitture, dei miei film, e la mia sono io. Non c’è niente dietro». Con Warhol siamo evidentemente dentro ad un mito che ha in sé già la capacità di distruzione e, appunto, smitizzazione. Perciò, alla fine, la rappresentazione che il film di Mary Harron ne riesce a dare, nella sua assoluta vuotezza, nel suo apparente spregio per quella comunità, per quel modo di vivere, se non addirittura per tutti quegli anni in assoluto, in realtà non fa che confermare il fatto che proprio Andy Warhol è stato il primo distruttore, consapevole, del proprio mito. Ma qui il personaggio centrale è la giovane rivoluzionaria ultrafemminista Valerie Solanas autrice di quel manifesto, SCUM (Society for Cutting Up Men), che proclamava la teoria dell’eliminazione fisica del maschio. Membro di un gruppo di rivoluzionarie (stufe del potere degli uomini e pronte a castrarli), di cui era l’unica adepta, la Solanas è un personaggio strambo, sfaccettato, metà artista (scriveva e provò a vendere le proprie storie anche a Warhol) metà clochard, che viveva in camere d’albergo se non alle volte per strada. E la pellicola cerca di raccontare la sua furia, la sua follia, il suo tentativo di imporre le sue idee, di emergere, farsi notare, fino a farsi cacciare via dalla Factory e farsi fregare i diritti da un editore smaliziato. Distrutta e depressa divenne eroina “d’un solo giorno” il giorno in cui tutte le televisioni la mostrarono dopo che aveva sparato al celebre regista della Pop Art. Ma Ho sparato a Andy Warhol, visto a Cannes nel ‘96, non si appassiona più di tanto al personaggio di Valerie, e sembra più interessato a denigrare che non a celebrare, esaltare o rivalutare. Ancora meno sembra interessato a comprendere, né la poco lucida follia della Solanas, né tantomeno l’ambiente intellettuale newyorchese, forse succube delle mode ma certo più fertile culturalmente e umanamente di quanto la pellicola non lasci intravedere. Ma se il film si fa comunque vedere è perché Lily Taylor ha la forza schermica che tutti conosciamo e riesce a conferire al personaggio di Valerie uno spessore in più, che il film invece non possiede. Ho sparato a Andy Warhol non si sofferma soltanto sul personaggio della Solanas, ma si addentra in una rappresentazione piatta e decadente dell’universo della Factory di Warhol, del quale per un periodo la Solanas era stata frequentatrice. Ed è qui che trasforma il movimento Pop e Underground newyorchese in una sorta di luogo di ritrovo per effeminati, travestiti, ricchi snob e perdigiorno, ignorando completamente che con Warhol cineasta collaborarono personaggi come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso e altri personaggi della Beat Generation. Che poi fu probabilmente proprio quel tentato omicidio a trasformare la Factory, a farne fuoriuscire “drogati”, travestiti, ragazzi di strada e le signorine ricche e annoiate (sostituiti da Warhol con dei veri e propri professionisti) non può far dimenticare che da quell’ambiente vennero fuori personaggi come Nico e gruppi come i Velvet Underground. Alla fine, il ritratto risulta assolutamente “distaccato” e il film non si identifica con nessuno, ignorando passioni, scelte morali, estetiche, politiche. Per descrivere un panorama decadente e mortifero investito dalla follia di una paranoica femminista solitaria. Forse Valerie Solanas (e soprattutto Andy Warhol, mostrato qui scialbo e assolutamente non carismatico, tutto il contrario di quel che ne fece Bowie in Basquiat, film che in questo senso è agli antipodi di questo per passione, sentimenti, umanità) meritavano miglior trattamento.
Federico Chiacchiari, Cineforum n. 365, giugno 1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Mary Harron
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