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Paura mangia l'anima (La) - Angst essen Seele auf


Regia:Fassbinder Rainer Werner

Cast e credits:
Soggetto, sceneggiatura
: Rainer Werner Fassbinder; fotografia: Jürgen Jürges; musiche: Motivi africani (brani d'archivio); montaggio: Thea Eymèsz; scenografia: Rainer Werner Fassbinder; interpreti: Brigitte Mira (Emmi), El Hedi Ben Salem (Alì), Barbara Valentin (Barbara, la barista), Irm Hermann (Krista), Rainer Werner Fassbinder (Eugen, il suo uomo), Karl Scheydt (Albert), Elma Karlowa (Frau Karges), Anita Bucher (Frau Ellis), Gusti Kreissl (Paula), Marquard Bohm (Gruber), Margit Symo (Hedwig), Rudolf Waldemar (Brem), Peter Gauhe (Bruno); produzione: Tango Film Production - Filmverlag Der Autoren; origine: Germania, 1973; durata: 93'.

Trama:Emmi, una sessantenne vedova e con figli sposati, incontra una sera in un bar Alì, un marocchino immigrato per lavoro in Germania. L'uomo, dopo un po' di chiacchiere, l'accompagna a casa, dove la donna vive sola: essa apprende che egli abita lontano con altri cinque compatrioti in una sola stanza e gli offre un letto per la notte. Nasce così un bizzarro "ménage"inviso a figli, nuore, fornitori, condomini e compagne di lavoro.

Critica (1):[...] Nell'intento di abbandonare lo strumentalismo delle occasioni narrative e la predeterminazione della messa in scena, Fassbinder è aiutato dalla rilettura di alcuni film di Douglas Sirk, grande costruttore di melodrammi immigrato a Hollywood dalla Germania. A lui il regista dedica un saggio dal titolo significativo Imitation of Life, che si richiama a un'opera di Sirk del '59 (in Italia: Lo specchio della vita). Lo stesso La paura mangia l'anima è un dichiarato "omaggio a...", rifacendosi per il contenuto a All That Heaven Allows (Secondo amore, 1956). Fassbinder pare imporsi in questo caso soprattutto la filosofia di un motto sirkiano: "Non si può far dei film sulle cose. Si possono soltanto fare film con delle cose, delle persone, della luce, dei fiori, degli specchi, del sangue...". Come dire che l'attenzione deve spostarsi da un approccio "esterno" alla messa in scena, resa funzionale rispetto a un certo "dire" (questo l'effetto prodotto dai raggelati kammerspiel del primo Fassbinder) a un lavoro dentro di essa, teso a sviluppare tutte le possibilità dell'"esprimere", a creare certi diapason che risuonano da un episodio all'altro, certe focalizzazioni del personaggio, che debordano rispetto all'intenzionalità narrativa: la messa in scena è strutturata dalle connessioni interne, è luogo di interazioni più che di azioni.
Tale acquisizione diventerà definitiva per Fassbinder; verrà anzi estremizzata al punto che i suoi ultimi film si possono ritenere di pura messa in scena, costruiti a partire da stereotipi d'epoca con un'ironia che si esercita sul gioco, reso consapevole, dell' orchestrazione. Ne La paura mangia l'anima siamo ancora nel territorio di mezzo del melodramma, fra accentuazioni di struttura e modi di rappresentazione naturalistici. Il dato nuovo è comunque l'eliminazione di ogni esteriorità drammatica o gesto esemplare - al limite brechtiano - e un turgore diffuso in tutto il racconto, quasi che la morte di Emmi, che già era stata esclusa come atto concluso nel progetto del film, si riverberasse ora, echeggiata e struggente, in tanti scorci del quotidiano e del sociale: nell'arredamento kitch della casa di lei che vorrebbe simulare un decoro borghese, nella sua adesione ingenua e atrocemente incosciente agli stereotipi di una sottocultura ("In questo ristorante ci veniva Hitler. Sai chi è Hitler?", chiede ad Alì con una punta di orgoglio), nel suo sforzo di darsi un piglio giovanile, subito raggelato dallo sguardo di compatimento di qualcuno, nel breve gesto di ribellione all'accerchiamento della gente, soffocato nel pianto della vittima impotente.
L'intensità di Brigitte Mira, che Fassbinder reimpiegherà nel ruolo principale di Mamma Küster e, per una breve apparizione, ne Il diritto del più forte, sta tutta nella sua impossibilità fisica di figurare come protagonista di una storia romantica; ciò che le fa incarnare la poesia della goffaggine nei timorosi abbandoni ai sentimento e negli slanci sempre a metà fra il disarmato e il protettivo-materno.
Il regista, come altre volte, gioca sulla spudoratezza della passione per spingere il personaggio a brancolare alla cieca, oltre la definizione voluta dall'habitus sociale (cfr.: la ricca e sofisticata disegnatrice di moda de Le lacrime amare di Petra Von Kant che si consuma e si degrada nel legame tormentato per una donna; l'omosessuale proletario de Il diritto del più forte che, per compiacere all'amico elegante, tenta di contrarre abitudini che non sono le sue; la cantante Lili Marleen, portavoce del Reich, che si presta per amore di un uomo ad aiutare la Resistenza). Il momento più forte de La paura mangia l'anima è forse quello in cui Emmi, momentaneamente abbandonata da Alì, si lascia andare a un'accorata dichiarazione d'amore al giovane marocchino nello sporco di un'autorimessa davanti ai suoi compagni di lavoro tedeschi. In questo caso però la "scopertura" riguarda entrambi i personaggi, ritagliati nella loro duplice emarginazione su uno sfondo che vieta qualsiasi intimità. La situazione non è più quella dello sbilanciamento nel vuoto del singolo, di un andar sopra le righe che è spesso sottolineato grottescamente da Fassbinder; siamo qui nel pieno di uno svolgimento melodrammatico, che sottrae i personaggi al mondo e li isola nel viluppo della loro vicenda privata. L'episodio insomma rientra in un'articolata tessitura narrativa: il punto di partenza è che i due protagonisti "abbiano un'occasione di vivere insieme", il che vieta al regista la scorciatoia del finale dimostrativo o la comodità dell'apologo, e lo costringe a misurarsi con una storia fatta di risonanze interne e di continui sfalsamenti rispetto a una possibile conclusione. Il melodramma si regge appunto su uno scarto rispetto alla normalità e al mondo e sulla seduzione del pubblico attraverso ripetuti accenni, regolarmente frustrati, a una ristabilizzazione nella norma e nella società. (...)
"I film di Douglas Sirk - scrive Fassbinder nel suo saggio - sono descrittivi. Molto pochi primi piani. Perfino nei campi-controcampi l'interlocutore non appare per intero nell'inquadratura. Il sentimento profondo dello spettatore non è il risultato di un'identificazione, ma viene dal montaggio e dalla musica. È per questo che noi proviamo alla fine di questi film un senso d'insoddisfazione. Ciò che abbiamo visto è capitato ad altre persone. E se qualcosa là dentro vi riguarda personalmente, vi resta la piena facoltà di ammetterne il significato o di riderne".
Fassbinder coglie qui, nella disponibilità a opposte reazioni, il senso della simulazione del melodramma, la marginalità in esso del racconto rispetto ai meccanismi di captazione dell'emotività dello spettatore. Il voyeurismo del quale è premiato dalla sicurezza che il fatto "è capitato ad altre persone", in modo che l'immedesimazione avviene sugli effetti (musica, montaggio), non sul narrato.
La paura mangia l'anima, pur con le sue riprese geometriche e funzionali, rovescia in qualche punto questo procedimento: gli attori guardano in macchina, incorniciati da stipiti di porte o di finestre che rimarcano il loro ruolo di osservatori/giudici verso il pubblico. Gli episodi in cui ciò accade (la scena al ristorante; quella di Emmi colpevolizzata dalle compagne di lavoro) segnano il punto di massima vittimizzazione dei personaggi e quindi di maggior voyeurismo dello spettatore, ed è appunto lì che il regista rovescia il rapporto guardante/guardato.
Il melodramma fassbinderiano non vuole riconciliare nessuno; serve, in quanto struttura artificiale, a far risaltare un'implosione, a stimolare attese per frustrarle secondo un'arbitraria legge del contrappasso: Emmi si innamora di Alì, tutti gli altri sono contro; la gente accetta il matrimonio dei due, Emmi ed Alì si distaccano; la coppia ritrova un'intesa, un'improvvisa malattia (che, sebbene di origine sociale, funziona come colpo del destino) rende impossibile la risoluzione del rapporto.
La struttura del melodramma non viene però irrisa da Fassbinder in una banale parodia. il regista anzi la assume col massimo rispetto per renderla funzionale alla propria "cattiveria"; esalta così il feticismo di un'organizzazione a porte chiuse, fatta di continui echeggiamenti, con elementi di dettaglio che ritornano ossessivi a condannare i personaggi a una situazione claustrofobica. Facciamo un esempio: nel primo incontro tra i due, Emmi consiglia ad Alì di "indossare vestiti chiari". La frase sarebbe gratuita se non si inserisse in una catena di associazioni: il bianco è opposto al nero della pelle, è simbolo di reintegrazione sociale; candido, ma inesorabilmente ridicolo, è l'accappatoio indossato dal marocchino una volta stabilitosi nella casa di lei; dello stesso colore è il camice bianco che lo soffoca in un letto d'ospedale. Le buone intenzioni producono esiti perversi. Rispetto al progetto del film e al suo larvato ottimismo c'è un ulteriore cambiamento: niente liberazione.
Ludovico Stefanoni, Cineforum n. 211, 1982

Critica (2):"Essere felici non è sempre un piacere... c'era ad Amburgo una donna delle pulizie che si chiamava Emmi e che era sulla sessantina. Una sera, rientrando, fu colta dalla pioggia. Allora entrò in un caffè, normalmente frequentato da immigrati si siede e ordina una Coca. D'improvviso un uomo la invita a ballare. Lui è grande e forte e ha due spalle robuste. Lei lo trova bello e danza insieme a lui. Poi si siedono al tavolo e parlano.
E lui le dice che non ha un posto dove andare. Così lei gli dice di venire a dormire a casa sua. Sì, e a casa dormono insieme e qualche giorno più tardi lui le dice che dovrebbero sposarsi. Allora si sposano e di colpo Emmi si ritrova giovane. Vista di spalle le si sarebbero dati trent'anni. E per sei mesi furono pazzamente felici". Fin qui la "parte" che Margarethe von Trotta recitava in Der amerikanische Soldat coincide con la storia di Angst essen Seele auf. Ma il seguito differisce profondamente. Margarethe von Trotta raccontava ancora del ritrovamento del cadavere di Emmi, assassinata. Segni sul suo collo indicavano che l'uccisore portava un anello-sigillo con incisa una "A". Il marito, che si chiamava Ali, fu arrestato. Ma la polizia scoprì che egli aveva un infinito numero di amici che si chiamavano Ali e che tutti portavano un anello uguale. Allora furono interrogati tutti i turchi di Amburgo, ma loro non capivano una parola di tedesco. Così la polizia non sapeva che pesci pigliare. La storia di La paura mangia l'anima prosegue invece descrivendo le difficoltà che Emmi e Ali trovano nel farsi accettare dalla società: tre figli di Emmi la rinnegano schifati (citazione: in questo film che è un vago remake di Secondo amore un film di Douglas Sirk del 1955, uno dei figli, folgorato dall'apparizione di Ali, distrugge a calci il televisore di Emmi; nel film di Sirk un televisore è il regalo ipocrita che i figli fanno a Jane Wymanper consolarla degli ostacoli che frappongono al suo amore per il bel giardiniere Rock Hudson); il droghiere le vieta l'ingresso nel suo negozio; le colleghe di lavoro la ignorano disgustate. Ma, dopo un viaggio all'estero, tutto cambia: i figli hanno bisogno della madre perchè tenga i nipoti; il droghiere pensa che i supermercati gli fanno una dura concorrenza; colleghe e vicine cominciano a invidiare a Emmi un marito così giovane e gentile. Nel momento in cui vengono ufficialmente riconosciuti, Emmi diventa però possessiva nei confronti di Ali, che cerca rifugio presso la proprietaria del bar, una valchiria attirata dal sexappeal del "negro". Emmi riconquista Ali con umiltà, ma Ali finisce in ospedale, colpito da un'ulcera inguaribile che il dottore diagnostica come tipica conseguenza dello stress a cui vengono sottoposti i gastarbeiteren. Niente morti, quindi, ma un mesto riconoscimento del bisogno che Emmi ed Ali hanno l'uno dell'altra. Un riconoscimento che non li mette però del tutto al sicuro dai colpi del destino, anche se si tratta di un destino che potrebbe benissimo essere chiamato sfruttamento. L'assenza di un finale tragico è chiaramente dovuta all'esperienza di Acht Stunden sind kein Tag,alla volontà di non chiudere il film su un tono "pessimista" per renderlo "popolare". Infatti La paura mangia l'anima è certamente uno dei film più immediati di Fassbinder, ma non perchè troppo facile e scontato: la ragione è che espone con chiarezza e sensibilità delle verità semplici ed essenziali. Fassbinder sa sapientemente sfruttare il pathos della rivolta iniziale dei due emarginati attraverso l'inevitabile identificazione del pubblico con una "causa giusta". Ma il regista sa anche che la realtà non è fatta di buoni e di cattivi. L'ambiente sociale di Emmi si rivela abbastanza elastico: anche se solo per interesse, da integrare la loro diversità; ma Emmi sgretola l'af. fetto di Ali per lei non comprendendone la profonda dignità. E senza rispetto non si dà amore. Altri Ali ed altre Emmi compaiono un gradino sotto la loro condizione: un'affermazione, questa, da prendere alla lettera, se pensiamo alla sequenza in cui Emmi si ritrova a spettegolare sulle scale con le colleghe del licenziamento di una di loro, mentre il rimpiazzo, una giovane jugoslava, è ignorata e costretta a consumare la sua colazione al piano inferiore. La paura mangia l'anima è un buon esempio del modo obiettivo in cui Fassbinder tratta il personaggio del "diverso". Il suo approccio non è morboso nè "poetico" (si pensi a Herzog): è umano e sincero. Prendiamo la figura di Ali: Fassbinder evita con cura l'idealizzazione del buon selvaggio e la retorica dell'escluso. A ben vedere, Ali risulta credibile proprio perchè non viene "spiegato". Del suo retroterra non sappiamo nulla, se non le banalità che tira fuori ogni tanto sul suo paese d'origine o la sua voglia di cuscus. Proprio il cuscus è all'origine del diverbio dopo il quale Ali si separa da Emmi: ma osserviamo che, attraverso questo particolare quasi folcloristico, Ali non rivendica un suo orgoglio razziale. La forza di questo personaggio sta nel suo essere simbolico proprio per la sua rinuncia ad essere null'altro che un individuo con bisogni del tutto comprensibili.[...]
Davide Ferrario, Fassbinder, il castoro cinema

Critica (3):

Critica (4):
Rainer Werner Fassbinder
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