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My Generation - My Generation


Regia:Kopple Barbara

Cast e credits:

Fotografia: Tom Hurwitz; montaggio: Tom Haneke; interpreti: Michael Lang, John Scher, Ossie Kilkenny, Joe Cocker, Michael Lang, Ossiz Kilkenny, Allman Brothers, Blind Melon, Blues Traveller, Crosby, Stills & Nash, Cypress Hill, Dave Matthews Band, Green Day, Jimy Hendrix, Limp Bizkit, Melissa Etheridge, Metallica, Nine Inch Nails, Primus, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers, Rollins Band, Sheryl Crow, The Who, Violent Femmes, John Schzr, Janis Joplin, Country Joe McDonald, Joni Mitchell, Carlos Santana, Dmx, Youssou N'Dour; produzione: Barbara Kopple; distribuzione: Mikado; origine: USA, 2000; durata:103'.


Trama:Documentario sulle tre edizioni del festival di Woodstock, nel 1969, 1994 e 1999, che vengono messe a confronto fra loro, esaminando i vari punti di vista e le motivazioni dei revival.

Critica (1):Lo dice la parola stessa: Woodstock. Un suono che ormai vale uno stereotipo quasi insopportabile. Basta radunarsi in più di cento, per qualsiasi ragione, e viene puntualmente evocato (la Woodstock del Papa, quella degli ortofrutticoli, dei ragazzi che giocano a Pokémon e così via dicendo). Il film approdato a Venezia ha almeno due pregi: non si chiama Woodstock e parla della vera Woodstock. Anzi, tentando un audace crossover generazionale, riunisce in un unico documento le tre edizioni del festival, quella ormai abusata del 1969 (che ricordiamolo fu allo stesso tempo il climax e il grande sipario chiuso dell'utopia giovanile) e le altre due organizzate in tempi più recenti. La prima volta, ad opera degli stessi organizzatori dell'originale, fu organizzata nel 1994 a Saugerties, per celebrare in pompa magna il venticinquennale dell'icona sempiterna. In realtà in tutti gli anni passati tra l'una e l'altra delle due edizioni, c'era sempre stato un manipolo di nostalgici, di hippies un po' incanutiti e intristiti dall'insorgere di nuove chiassose tribù giovanili, che puntualmente ad ogni agosto andavano a riunirsi nel luogo esatto del miracolo, nel bel mezzo della fattoria di Max Yasgur, dove nel frattempo una stele era stata eretta a futura memoria. Qualche canna, due schitarrate e poco più. Il festival di Saugerties fu invece un trionfo mediatico. Poca nostalgia, e tanti nuovi ragazzini, decisi casomai a vivere la "loro " Woodstock. Arrivarono in trecentomila, e si creò una situazione paradossale, ingovernabile, soprattutto perché i ragazzi, per quanto poco nostalgici, dovettero pagare anche non volendo un tributo alla memoria. Arrivò una pioggia torrenziale e produsse un pantano che ricordava molto da vicino quello immortalato nel 1969 dal celebre film. Poi, con clamore appena minore, nel 1999, per cercare nel trentennale esatto, la quadratura del cerchio. La parola a Michael Lang, 'papà' di Woodstock. "Quel concerto del 1969 fu un grande evento e non una scelta premeditata per fare carriera".
Gino Castaldo

Critica (2):Il mito di Woodstock è sbarcato a Venezia. Per un giorno il Lido ha riscoperto le atmosfere hippy e la cultura dei figli dei fiori con My Generation il film di Barbara Kopple, dedicato a quello storico evento che, attraverso le due ultime edizioni degli anni Novanta, si è trasformato in uno dei business più incredibili dei nostri giorni. E a parlarne è arrivato al festival lo stesso Michael Lang, fortunato "inventore" del raduno più celebre della storia della musica. Quel giorno del '69 a Woodstock è cambiata la sua vita. Che ricordi ha? Da allora personalmente è davvero cambiato molto. Però ci tengo a sottolinearlo, Woodstock è stato un grande evento e non una scelta premedita per far carriera. Anche se tuttora lavoro nel mondo della musica. Di quei giorni non posso dimenticare il clima straordinario delle persone, il loro modo di comunicare attraverso una sorta di scambio basico di tutte le loro energie. Questa è stata la forza straordinaria di quel raduno che è diventato mito per tante generazioni. Nel film di Michael Waldleigh, "Woodstock", del 70, ci è stata raccontata la cronaca di quei tre giorni di pace, amore e musica che hanno segnato un'epoca. Oggi, "My generation" di Barbara Kopple riprende l'argomento raccontando i Woodstock successivi, quelli del '94 e del '99. Raccontandoli dal punto di vista del business che gli eventi anni Novanta hanno rappresentato. Lo sente come una critica? Non credo che la sua lettura sia stata critica. Anche perché negare il business in questo caso sarebbe ridicolo. L'aspetto commerciale in questi ultimi raduni è stato grandissimo. Ma è stato uno tra i tanti aspetti. Eventi del genere, infatti, sono fatti di tante cose, tra cui la forza della musica e lo straordinario modo di stare insieme del pubblico e di vivere in comune le emozioni. E che differenze ha trovato tra il popolo degli hippy di ieri e i giovani della generazione anni Novanta? Esteriormente non molte. Quello che è cambiato, invece, tra ieri e oggi è soprattutto la cultura di riferimento. Allora credevamo in valori molto definiti, nella pace, nelle battaglie per i diritti civili, nella libertà sessuale. L'universo giovanile appariva come un mondo unificato e tutti sapevano in quale direzione andare. Per le nuove generazioni tutto questo non c'è più. Tutto è più frammentario e di conseguenza più confuso e inafferabile. La musica, infatti, non sembra più in grado di aggregare le folle dei giovani. Mentre, invece, c'è riuscito il Papa con quella Woodstock gigantesca che si è svolta in agosto a Roma per la giornata mondiale della gioventù. Cosa ne pensa? Mi sembra un'ottima definizione. Ed anche un ottimo segnale. Credo, infatti, che questo Papa sia un uomo progressista e sia stato capace di infrangere molti tabù: è andato in Israele, a Cuba. Insomma, ha dimostrato veramente di saper stare sopra le parti. Santana quest'estate ha raggiunto le vette delle classifiche. E in molti hanno parlato in modo critico del ritorno dei "reduci"… Sono abituato a questo genere di polemiche. Il mondo della musica è così conformista: quando i grandi di ieri vendono molti dischi c'è sempre qualcuno pronto ad accusarli di essere patetici. Ma perché? Santana poi è sempre stato coerente, non ha mai tradito le sue origini. Se vende è perché piace. Lei ha organizzato anche il celebre concerto sul muro di Berlino nell'89, che ricordi ha? E' stato un giorno da pazzi, incredibile. Un evento storico straordinario. In quel momento, davanti al crollo del muro, tutti erano uniti, non c'erano vinti né vincitori ed è stato come assistere alla nascità della libertà. Ma oggi ha ancora un senso promuovere questo genere di raduni? Il desiderio di stare insieme non potrà mai passare di moda. E questi incontri serviranno sempre per esprimere il bisogno di libertà che è vivo in tutti noi.
Gabriella Gallozzi, 6 /09/2000

Critica (3):Come sono cambiati, signora mia, Joe Cocker e Santana! My Generation di Barbara Kopple ce li fa vedere montando in parallelo sequenze girate a distanza di venticinque anni: durante la grande Woodstock del '69 e nel corso concerto-revival realizzato nel '94 dallo stesso organizzatore dell'"originale", Michael Lang. Però Barbara è troppo brava per limitarsi a fare il gioco del come eravamo e della nostalgia. My Generation, in realtà, mette in scena il confronto tra due generazioni: quella della Woodstock storica e quella delle due Woodstock del '94 e del '99. Se la prima fu il più grande evento collettivo della controcultura americana, le altre due sono rappresentative di tempi diversi, tempi in cui anche la controcultura è organizzata dalle multinazionali e serve a produrre quattrini. Sponsorizzato da discografici, bibite e gelati, l'evento musicale diventa un grande bazar di merci, i biglietti hanno costi proibitivi (135 dollari) per i suoi naturali destinatari, l'amore libero di ieri produce, oggi, preservativi col logo della manifestazione. Abbandonandosi al rimpiato di tempi forse migliori, di certo più entusiasmanti e vitali, e alla nostalgia per chi non c'è più (Jimi Hendrix, Janis Joplin) sarebbe molto facile sentenziare che la nuova è una generazione di atoni, demotivati individualisti: lo sostengono, del resto, i residenti della zona (che pure lucrano assai sul concerto), alcuni reduci della generazione "love & peace" e perfino qualche giovane intervistato. Eppure, dalle inquadrature rubate dal mare dei partecipanti e alternate con le esibizioni sul palco di Metallica, Red Hot Chili Pepper, Nine Inch Nails e degli altri, esce un messaggio che non sfugge alla Kopple (e che sottolinea bene Allen Ginzberg, partecipante-osservatore al concerto). Una gran voglia di aggregarsi, di sentirsi parte di un tutto, di riconoscersi celebrando un grande rito collettivo: motivazioni non diverse da quelle espresse nel documentario del 1970 Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica. E magari di tirare fuori la propria rabbia contro la logica della merce, come mostra il rogo finale dei simboli degli sponsor.
Roberto Nepoti

Critica (4):
Barbara Kopple
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