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Al piccolo Margherita - Au petit Marguery


Regia:Bénégui Laurent

Cast e credits:
Soggetto: tratto dal romanzo "Au petit Marguery" di Laurent Bénégui; sceneggiatura: Laurent Bénégui; fotografia: Luc Pagès; musiche: Angelique Nachon, Jean-Claude Nachon; montaggio: Jean-Luc Gaget; scenografia: Pierre Attrait; Stephane Audran (Josephine), Michel Aumont (Hippolyte), Alain Beigel (Daniel), Marie Bunel (Anne-Francoise), Thomas Chabrol (Thomas), Vincent Colombe (Paolo), Laurence Cote (Daniele), Antoine Cousin (Tatave), Marie-Laure Dougnac (Lydie), Mimi Felixine (Bimtou), Alain Fromager (Agamemnon), Claire Keim (Mylene), Gérald Laroche (Paul), Attica Guedj (Leila); produzione: Telema Productions - Magouric Productions - France 2 Cinema - Studiocanal; distribuzione: Ventana; origine: Francia, 1994; durata: 95'.

Trama:Dopo trent' anni di attività, un piccolo ristorante di Parigi chiude. Il padrone, sua moglie, i figli, gli amici e i vecchi clienti festeggiano l'ultima sera di attività fra i ricordi.

Critica (1):C'è chi, nelle cose della vita, cerca d'arrivare alla verità, di scendere il più possibile "in fondo" : la verità e il fondo d'un sentimento, per esempio, oppure d'un rapporto, che sia d'amicizia o d'amore. Per dirla con un grande esperto di naufragi dell'anima, Friedrich Nietzsche, cercando forsennatamente il fondo, costoro rischiano d'andare miseramente a fondo. Non così, per sua e nostra fortuna, capita a Laurent Bénégui. Al piccolo Margherita - traduzione fantasiosa e per così dire suggestiva di Au petit Marguery (Francia 1995) - è dichiaratamente, palesemente, felicemente superficiale. Ossia: delle cose della vita privilegia la leggerezza e il gusto, beandosene per quel che ne giunge immediato agli occhi, agli orecchi e, perché no?, al palato. Inutilmente si cercherebbero tra le sue immagini e i suoi dialoghi la verità e il fondo, appunto, dei singoli personaggi. Come in un piano ben cucinato, i diversi ingredienti - le cose della vita d'una ventina di persone - hanno perduto la loro specificità, essendosi invece trasfigurati in qualcosa d'autonomo, con un profumo e un gusto del tutto nuovi. Nello sforzo di ricondurre il film di Bénégui se non a un genere almeno a un modello noto, lo si è accostato a Il pranzo di Babette (Gabriel Axel, 1987) e a Big Night (Stanley Tucci e Cambell Scott, 1996). Di entrambi, certo, Al piccolo Margherita condivide la scelta di fare del cibo e dell'arte culinaria una specie di superiore, imprevedibile linguaggio dello spirito. In Big Night s'esprime così, attorno alla tavola imbandita e nel trionfo finale d'un timballo da re, la fine d'un sogno d'integrazione e successo d'un nucleo di italoamericani. Nel film di Axel, invece, il piacere per le cose buone e belle - nel caso specifico: i colori, le forme, i profumi, i sapori del cibo e del vino, e poi anche lo splendore raffinato delle posate, dei piat ti, dei bicchieri -, vince lo spirito luttuoso e bigotto d'una piccola comunità luterana di Danimarca. Nel film di Bénégui, d'altra parte, non c'è nulla che somigli alla volontà narrativa di Big Night: non ci son sogni, aspettative, personaggi di cui davvero si voglia raccontare la storia. E ancor meno c'è la grande questione posta da Il pranzo di Babette: il rapporto tra la chiusura ascetica nella prigione della cattiva coscienza e l'infelicità, tra l'apertura gioiosa alla buona coscienza e la felicità. Più semplicemente, la sceneggiatura di Al piccolo Margherita porta sullo schermo un'ora e mezza di vita, l'osservanza e la mostra nella sua precarietà, ne rammenta per pochi cenni il passato e ne suggerisce appena il futuro. In tutto questo, la macchina da presa sembra voler imitare l'arte di Hippolyte: non eccedere con i sapori, fermarsi al tempo giusto nella "cottura", badare alla forrna e all'apparenza del piatto, non solo alla sostanza. Una sostanza, d'altra parte, il film ce l'ha. La si coglie come sullo sfondo: i rapporti difficili tra Hippolyte e Bemabé, i loro sogni che non s'incontrano. Il padre avrebbe voluto il figlio accanto a sé, in cucina. Il figlio invece vuole scrivere. C'è qui, probabilmente, un nucleo autobiografico di Bénégui, scrittore e uomo di cinema egli stesso figlio d'uno chef. E c'è, anche, la sua voglia di comprendere e amare entrambi, Hippolyte e Barnabé. E forse addirittura di ritrovare nella scelta creativa del secondo il seme dell'arte del primo. In ogni caso, attorno a questa sostanza, il film costruisce con attenzione leggera la propria forma e apparenza. Passando incessantemente dalla sala da pranzo alla cucina e dalla cucina alla sala da pranzo, legando circolatmente volti e sentimenti, ritrovando nel presente frammenti e memorie del passato, come fosse appunto un grande cuoco Bénégui ci mette in tavola un piatto nel quale riconosciamo il gusto della vita. Si tratta certo d'un gusto precario. Meglio ancora: la precarietà è il suo gusto. Attorno al ristorante di Hippolyte, a poco a poco s'è formato un nodo d'esistenze, un intrecciarsi lieve di biografie. Ecco perché né la sceneggiatura né la regia si preoccupano d'arrivare alla verità e al fondo delle singole esistenze e delle singole biografie. Il loro interesse è tutto rivolto al nodo, al miracolo di rapporti umani - d'amicizia e d'amore, ma anche di conflitti e incomprensioni, di desideri e timori - che il gusto attento e raffinato di Hippolyte e di Josephine ha suscitato e retto per tanti anni. Ora, con la chiusura del ristorante, quel nodo si scioglie, e i venti personaggi di Bénégui ne fissano con un rito la fine, celebrandone allo stesso tempo la memoria. Forse, quel che si descrive in Al piccolo Margherita è una cerimonia funebre. Non a caso, come capita in ogni cerimonia funebre, al lutto si tenta di porre rimedio mangiando insieme. La fiducia che così s'esprime è che altra vita seguirà, solo che se ne abbia il gusto.
Roberto Escobar, Il Sole 24 Ore, 7/26/1998

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Laurent Bénégui
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