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Ulidi piccola mia


Regia:Zoni Mateo

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo "Fuga dalla follia. Viaggio attraverso la legge Basaglia" di Maria Zirilli; sceneggiatura: Mateo Zoni; fotografia: Alessandro Chiodo; musiche: Piernicola Di Muro; montaggio: Sara Pazienti; scenografia: Andrea Gualandri; arredamento: Andrea Gualandri; interpreti: Paola Pugnetti, Giada Meraglia, Marcella Diena, Eleonora Deidda, Marco Romeo, Laura Polito, Stefano Bardi, Eleonora Rizzi, Giancarlo Pugnetti, Mina Bettache, Mirko Salati, Dante Pugnetti, Fousia Beattache, Fabio Vanni, Alessandro Nidi, Sara Vida, Alessandro Delle Fratte; produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Andrea Gambetta, Mateo Zoni- Solares Fondazione Delle Arti-Indigo Film-Cineteca di Bologna; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia, 2011; durata: 66’.

Trama:Paola sorride, seduta al tavolo di un pub, mentre spegne le candeline del suo diciottesimo compleanno. Esprime il suo desiderio: "Giuro che io salverò la delicatezza mia..." Attorno a lei, le ragazze della comunità dove vive da quattro anni, in cui ha imparato a tenere a bada i pensieri che a volte le stringono la gola e la fanno esplodere di rabbia.
Ora è pronta a conciliarsi con il padre, un anziano contadino e con la madre che stringendola a sé la chiama sempre "Ulidi". Ulidi, una parola dal suono dolce che nella sua lingua vuol dire piccola mia. E sarà inoltre costretta ad affrontare, dopo un lungo periodo di sofferenza, tutte le difficoltà legate alla fine dell’adolescenza e all’ingresso nell’età adulta.

Critica (1):L’idea del film è nata da uno spettacolo teatrale che non ho visto, ma che mi è stato raccontato.
Nella pièce, Paola, la giovane protagonista del mio film, canta una poesia di Mariangela Gualtieri: “Giuro che io salverò la delicatezza mia”. Quando me l’hanno presentata, mi ha coinvolto subito quel suo sguardo attraente nel quale è bello perdersi. Ulidi piccola mia è un film sulla delicatezza, che penso sia in assoluto il sentimento più trasgressivo. Il più scandaloso e forse il più rivoluzionario. Per questo vorrei che le immagini avessero sul pubblico un effetto quasi fisico: come una stretta confortante, un’energia sprigionata che fosse coraggio.
Mateo Zoni, dal pressbook dl film

Critica (2):La prima, vera scommessa del concorso torinese è per un film italiano, Ulidi piccola mia di Mateo Zoni, specie di anomalo documentario su una comunità famiglia del parmense e sulle sue tre ospiti. Su una soprattutto, la diciottenne Paola, che ha tentato due volte il suicidio e quando è depressa cerca di ferirsi con quello che trova. Anche se scopriremo che molto è conseguenza di una violenza infantile oltre che di una famiglia non facile (una madre marocchina iperprotettiva, un padre italiano, anziano e debitore di una cultura contadina arcaica), il film di Zoni non vuole essere un documento sociologico o un’inchiesta sui disturbi adolescenziali: cerca piuttosto di registrare la vitalità spesso debordante di Paola (e delle sue coinquiline Giada e Marcella) per restituirci un ritratto umano e non patologico.
Nonostante l'ambiguità del punto di partenza (le ragazze sanno di essere riprese ma sembrano non aver perso né spontaneità né sincerità), il film non dà mai l'impressione di voler raccontare una storia «dal buco della serratura», piuttosto a volte sembra che la regia non sappia controllare fino in fondo la materia e finisca per farsi «guidare» dagli accadimenti invece del contrario. Troppo programmati invece i due film di genere visti finora, l'inglese Attack the Block di Joe Cornisch e l'indonesiano The Raid del gallese emigrato Gareth Huw Evans. Il primo si inventa l'invasione di un gruppo di alieni dalle fauci fosforescenti in un quartiere periferico di Londra, il secondo racconta il tentativo di un gruppo di poliziotti di liberare dalla malavita un condominio. Fantascienza più un po’ di autoironia per il primo, sangue e interminabili scontri di arti marziali per il secondo. La differenza è che col primo ci si diverte, col secondo ci si annoia.
Paolo Mereghetti, corriere della sera.it, 29/11/2011

Critica (3):«L'idea del film», spiega il trentatreenne regista «è nata da uno spettacolo teatrale che non ho visto, ma che mi è stato raccontato. Nella pièce Paola, la gio­vane protagonista del mio film, canta una poesia di Mariangela Gualtieri, Giuro che io salverò la delica­tezza mia. Quando me l'hanno presentata, mi ha coinvolto subito quel suo sguardo attraente nel quale è bello perdersi. Ulidi piccola mia è un film sulla delicatezza, che penso sia in assoluto il senti­mento più trasgressivo. Il più scandaloso e forse il più rivoluzionario...».
Così Mateo Zoni, che ha già fatto una interessante esperienza con documentari e corti, parla del suo primo lungometraggio; la poesia da cui ha preso un brano, Giuro per i miei denti di latte, è stata pubblicata in volume nel 2006. Il valore che il regista rivendica, pensando alla sua eroina e a tante creature come lei, è appunto la delicatezza; di qui l'uso dei versi, rubati dalla pagina e messi in musica.
Con la canzone, o meglio, con il tentativo di metterla insieme, il film comincia. Un prologo molto breve e intenso, concepito direi come premessa estetica, di stile. C'è il volto di Paola in un primo piano nitido, scolpito, e quello del maestro di musica, che l'accompagna al pianoforte, in secondo sfocato. Poi l'inquadratura cambia, si invertono le posizioni ma non le località e, per due volte, viene ripresa la tastiera. Stacco per il testo della poesia scritto su fondo nero, poi ancora Paola in treno, poi il marciapiede della stazione in campo lungo con la ragazza ripresa di spalle che cammina verso l'uscita. Per la conclusione del prologo il regista sceglie un ralenti leggerissimo, un effetto di sfumatura.
Ho indugiato sui dettagli per dare esempio di quelle che mi sembrano le costanti a cui la regia si affida: pulizia dei primi piani, variazione del ralen­ti – con tempo affine, non a caso, si noterà più avanti una ripresa acquatica, in piscina – equilibrata alternanza dei campi. Nello svolgimento si aggiun­gerà l'impiego della macchina a mano, ma ancora lieve, senza la gestualità esibita a cui certo nevrotico protagonismo ci ha abituati. La cura plastica di Zoni, insomma, ubbidisce alla necessità di restituire al meglio i volti, in particolare quello di Paola, cioè di inciderli nella sensibilità di uno spettatore chiamato a condividere le scoperte compiute nel corso del lavoro.
Paola invita a perdersi nel suo sguardo – dice il regista – e, dopo, a interrogarsi su caratteri che fanno la sua e altre storie di fusione etnica. Ma il regista non si ferma a lei; anzi sceglie per la chiusa il primo piano, meno "bello" e tuttavia sacrale (direbbe Pasolini) di Giada. Assieme al resto, l'attento e partecipe studio di Zoni conferma – proprio sul piano della scrittura, del metodo e della regia – i presupposti di delicatezza. Che non richiede un approccio dolce soltanto, né morbido soltanto, ma uno e l'altro secondo un equilibrio che non smussa le asprezze né indulge a generose semplificazioni.
La festa di compleanno di Paola con cui il film finisce mi pare, nel senso appena detto, esemplare e toccante. Si tratta di una replica, essendo quella in famiglia stata anticipata per rispettare il Ramadam, e si celebra in città, con alcuni ragazzi della comunità e un paio di operatori; altri regali, la torta gelato, i palloncini colorati, poi una camminata che si conclude in centro dove c'è il caffè concerto (una giovane donna con la testa rasata canta, benissimo, Rimmel di Francesco De Gregori) e la macchina dell'oroscopo. Spettacolo "in minore" e magia – una teca con le marionette che ballano evoca meraviglie forse sconosciute ai ragazzi di oggi – rappresentano, in souplesse, l'unica apoteosi possibile: povera, e faticosamente costruita. Ciò che accadrà dopo, quale sarà il destino delle creature appena sedotte dalla "macchina della verità" e dai suoi lusinghieri responsi, non è dato sapere né immaginare. I ragazzi sono arrivati in centro con un po' di affanno e si divertono con il poco (un luna park in miniatura) che la piazza offre. Il regista non vuole e non può andare oltre.
Le esperienze di comunità sono state spesso affrontate dal cinema indipendente; festival come quello di Torino e di Bellaria prima versione, solo per fare due esempi noti, hanno nel tempo mostrato un prezioso e purtroppo poco conosciuto campiona­rio. Ulidi piccola mia rientrerebbe con merito in esso e, sul piano del linguaggio, regala qualche insegnamento. Mi riferisco al mélange di fiction e documentario che "naturalmente" si crea, tale che il film può valere in un modo o nell'altro. Per dirla con parole diverse, il grado di verità che raggiunge – e il limite che ammette – basta a cancellare la linea di confine fra i generi; il film, cioè, offre una "costruita" naturalezza e induce a liberarsi dal pregiudizio. Una piccola cosa, certo, ma utile a pensare in grande, un'opera di discrezione che, già lo accennavo, aiuta ad adottare, con la delicatezza, un alto valore individuale e di socialità.
Quando un cineasta si propone di affrontare il disturbo mentale-esistenziale con tutto ciò che implica sul piano dell'analisi, del contesto oggettivo, della denuncia se occorre e delle risposte, ha davanti a sé, credo, due scelte: calarsi nell'esperienza in modo totale, ossia diventarne parte, strumento anche drammaturgico e, dopo essere in ciò maturato dare testimonianza; oppure abbandonarsi a una partecipazione autentica ma visibilmente esterna. Nel primo caso il lavoro può raggiungere esiti eccezionali anche sul piano squisitamente artistico, poiché la forma, sottoposta a una severa verifica di prassi, è rivoluzionata; nondimeno i rischi sono notevoli e si traducono spesso in confusione o cattiva ideologia. Nel secondo agisce fin dall'inizio la cognizione del limite; se il rischio è di freddezza o superficialità, l'eventuale buon esito attiene a un'osservazione umile e perciò aperta alle sorprese.
Con Ulidi il regista sembra aver scelto la seconda strada, usando per sé lo stesso atteggiamento che la drammaturgia assegna alle figure dei tecnici e degli assistenti: puntualità, partecipazione asciutta (anche se amichevole e talvolta divertita), uso del senso comune nell'emergenza e, al tempo stesso, con funzione di sollievo. In altri termini, cercando di attenersi a una qualificata parzialità, nella quale la tensione serve a correggere e guadagnare autorevolezza, ma offre al tempo stesso prossimità, confidenza controllata, cognizione di un mondo che è difficile da vivere per tutti.
Se in questo c'è qualcosa di vero, il film di Zoni dà il suo contributo attraverso una selezione di sguardo (e con la ricerca di una bellezza assai lontana dalla calligrafia) che permette di attribuire ai "sospesi" una facoltà dialettica; una domanda, cioè, che riguarda l'autore e i suoi personaggi quanto lo spettatore. La storia di Paola, dei suoi compagni, dei suoi famigliari e degli operatori termina fra le incognite, non regala alcuna riposante certezza. Esprime però intenti rigorosi proprio attraverso il limite, e soprattutto riesce a elaborare, mi sia perdonato l'azzardo, un'amorosa fenomenologia.
Tullio Masoni, Cineforum n. 513, 4/2012

Critica (4):
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