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Berlinguer ti voglio bene


Regia:Bertolucci Giuseppe

Cast e credits:
Soggetto: Giuseppe Bertolucci, basato sul personaggio creato da Roberto Benigni; sceneggiatura: Giuseppe Bertolucci; fotografia: Renato Tafuri; montaggio: Gabriella Cristiani con la supervisione di Kim Arcalli; suono in presa diretta: Raul Montesanti; musica: Pier Farri, Luigi Coletta; scenografia: Maria Paola Maino; interpreti: Alida Valli (la madre), Roberto Benigni (Mario Cioni), Carlo Monni (l'amico Bozzone), Mario Pachi, Maresco Fratin, Annalisa Foà, Chiara Moretti; produzione: Gianni Minervini, Antonio Avati per AMA Film; origine: Italia, 1977; durata: 90’. VM 18

Trama:Mario Cioni vive con la madre in un casolare nei dintorni di Prato. Mario le è molto affezionato nonostante lei lo maltratti e gli faccia pesare i suoi problemi fisici e psico­logici. Mario, infatti, ha difficoltà con le donne ed è spesso preso in giro dagli amici. La sua speranza per un mondo migliore è affidata ad una rivoluzione ipotetica, gui­data dal segretario del partito comunista italiano, Enrico Berlinguer. Un giorno, durante una festa da ballo, gli amici gli fanno annunciare per scherzo che la madre è morta. Sua madre invece sta benissimo e tenta di convincerlo a sposare una ragazza zoppa. A causa di un debito di gioco, Mario deve convincere la madre ed accettare la corte dell'amico Buzzone; nasce così un'imprevista storia d'amore che renderà Mario ancor più spaesato.

Critica (1):AI suo terzo film dopo Andare e venire e Abicinema Giuseppe Bertolucci (fratello minore di Bernardo) fa centro. Lasciamo perdere se il merito sia più suo o di Roberto Benigni. Sta di fatto che Berlinguer ti vo­glio bene è nel genere bassocosto, un'operina notevole, che traccia il ritratto di un uomo nella sua esatta cornice, col piglio magro e rozzo da esso richiesto, ma in trasparenza ne porge un'immagine surreale che gli sottrae ogni linea volgare. Si dice questo perchè il Cioni Mario non parla come il Petrarca. E' un bifolco tosca­no, un po' grullo e molto infantile, che si esprime col lessico naturale a chi, impedito di crescere e di avere una carta d'identità, ha un rapporto col reale soltanto attraverso gli organi genitali e le funzioni del corpo e vede tutto il mondo sotto specie vulvare. Sia chiaro: il film è controindicato per gli spettatori d'indole leopoldina che si sono fatti un'idea della Toscana sul Fucini e il Collodi. Qui si risale più indietro, alle radici d'un popolo empio e sboccato, per spregio della pochezza umana che non ha la nozione di osceno e si difende dalle disgrazie calandosi nell'immondizia. Se un becero è un toscano allo stato di grazia, il turpiloquio dei Cioni si snocciola come una giaculatoria, il suo onanismo è il miserere della carne.(...)
Tutto girato sui luoghi (una Toscana nè carne nè pesce), tra borghi e figure iperreali. Il film è povero perchè autentico e autentico perchè povero. Vi si respira il rifiuto dell'affatturato e la smorfia del gof­fo ma anche vi si riconosce una divertita trasfigurazione, svariante dal tenero al bef­fardo, dei diversi elementi psicologici e
sociali che compongono l'ambiente. Mentre il monologo escatologico in cui il Cioni credendosi privato della madre, sfo­ga il dolore è di un grottesco biblico, il suo duetto con la zoppa è cantato nei modi sadici della comica chapliniana: mentre nell'incontro in auto con le due femministe serpeggia il sorriso dei timidi, il dibattito nella casa del popolo è una satira che scuoia, e la fiaba invereconda raccontata dalla mamma ha l'arguzia di una caricatura ba­rocca. Nel mezzo figurine appena sgorbiate ma tutte ben dentro l'umore toscano: la nana dispettosa, il prete manesco, il grassone malato di cancro, e quel Bozzone tracondo che quando s'innamora abbandona il parla­re da trivio e si affida al prezioso ridicolo. Insieme all'essenzialità dell'immagine tra­sandata, il contrappunto verbale è d'altron­de un elemento basilare del film. Oltreché di barocco, si dovrebbe parlare talvolta di marinismo: il Cioni Mario, ma più spesso sua madre, per fingersi senti­menti eleganti usano una lingua che sposa il rustico e il laido al lezioso secentesco, con gli effetti surreali che si diceva (...)
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 1/11/1977

Critica (2): (...) Berlinguer ti voglio bene è un cumulo di contraddizioni. Il Cioni di Benigni può piacere o no, ma per capirlo, per tentare di capire da dove viene, che senso ha, che cosa rappresenta, la difficoltà sta nel fatto che, da una parte, è un tipo dei nostri giorni ("un film sull'oggi" dice Bertolucci), ma, dall'altra, è una figura arcaica che appartiene a un'Italia, una Toscana, preindustriale. Le idee, le ossessioni, il turpiloquio, la stessa fissazione materna, perchè l'Edipo è un'ombra che s'estende su tutto il film, sono di oggi, ma il personaggio, un matto, uno scimunito, un "innocente", è di un'altra epoca, di un'altra società. Segnato da una torrentizia scurrilità genitale, quella che indusse un con­servatore schizzignoso di testa fina a definire Benigni " un Woody Allen da letamaio" e a quali­ficarlo, non senza rispetto, "il film più sconcio di tutti i tempi", Berlinguer è così casto nelle immagini da poter essere proiettato in parrocchia se gli si togliesse la colonna sonora. All'enormità delle proposizioni, all'accanimento provocatorio sull'oscenità verbale, al grottesco spinto delle situazioni si accompagna una tenerezza delicata del linguaggio figurativo, non priva di risvolti lirici, che sfiora persino il culto incantato della bella immagine. Implicita, quasi nascosta, contraddetta con furia nella prima parte del film, questa tenerezza diventa esplicita nel pathos della conclusione dove il nocciolo della storia viene portato alla luce: il contorto rapporto del Cioni con la madre, chiave della sua fissazione infantile. L'ultima contraddizione di questo anomalo film è la coabitazione stridente,di comico e drammatico. I momenti buffi sono parecchi, dovuti non solo al dialogo, alla comicità cruda (tattile, umorale, poliurica) di Benigni, al suo miscuglio di intelligenza campagnola e di estri surrealistici, ma alle situazioni: la sequenza iniziale nel cinema durante proiezione di un pornofilmaccio, la scena della balera, il dibattito culturale alla Casa del Popolo. Ma è insieme un film grave, drammatico che contamina empietà e patetismo, scurrilità e delicatezza, buffoneria e sgradevolezza ribalda. E lo è, di volta in volta, in modo eccessivo sebbene questa scelta dell'eccesso sembri istintiva e viscerale nell'interprete, calcolata e intellettuale nel regista. Non è escluso che le cadute, le sconnessioni, gli sfocamenti derivino da quest'ultimo che non diventa dialettico, anche perchè, come scrive Tullio Kezich, "nel nuovo film trapela irresistibilmente la natura lirica di Bertolucci Secondo, con i paesaggi sfumati, la campagna all'al­ba, il violino e gli interni da "Veglie di Neri": tutto un mondo crepuscolare che i monologhi di Cioni si sforzano di sfregiare e nascondere. Dentro queste immagini c'è uno strano contrasto solo par­zialmente espresso (...)
Morando Morandini, in Occasioni di Cinema - Bernardo Bertolucci, Biblioteca Comunale di S. Ilario d’Enza, 1989

Critica (3):La rivolta di Cioni, ereditata da una tradi­zione culturale che trova numerosissime testimonianze nella letteratura e nella poe­sia non soltanto toscane, si esprime attra­verso la parola, nella bestemmia e nel­l'oscenità. E' un torrente di imprecazioni, parolacce, battute fulminanti, vomitate in assoluta libertà inventiva ed istintuale, che si trasformano spesso in farfuglio, biascichio, gorgoglio, esplosione, invetti­va, sussurro, masticamento nonsensico di suoni incomprensibili. Per Cioni Mario non c'è spazio in questa realtà; è un emarginato costretto all'onanismo fisico e sociale. Una minu­scola isola dimenticata che sfoga la sua rabbia e la sua impotenza nella provocazio­ne verbale. Ma chi provoca se nessuno l'ascolta? Anche la mamma, vedova, tro­vato un drudo aitante, lo priva dell'unica ala protettrice e rassicurante. E' l'ultimo colpo per il giovanotto, prima della parola "fine".
Giuseppe Bertolucci si rivela regista con buoni mezzi a disposizione: riesce a ricondurre il magma denso e difficilmente
disciplinabile degli exploit di Benigni nell'omogeneità di un linguaggio cinema­tografico che varia tra i toni comici, farseschi, beffardi, grotteschi, in una sottile tensione surreale. L'uso del piano-sequen­za in appoggio al monologo funziona, e il protagonista ha spazio per muoversi in una dimensione scenica che gli è più congeniale. Roberto Benigni, le sue "tirate", il suo turpiloquio, così come la trasmissione tele­visiva e questo film non consentono posi­zioni di gradimento intermedio: odio vio­lento, o amore totale. Per chi lo accetta in blocco, abbiamo già cercato di trovare motivazioni espressive e ragioni culturali; con chi lo rifiuta, riconosciamo una certa difficoltà uditiva nel seguire alcune cascate verbali, l'atteggiamento, intellettualistica­mente becero e scostante, il gusto calcolato dell' "eccesso", pesanti cadute nella noia di fronte alla monotonale esibizione del pro­tagonista. Una Alida Valli sorprendente e irriconoscibile è mamma Cioni.
Sandro Casazza, La Stampa, 15/11/1977

Critica (4):
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