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Grandmaster (The) - Yut doi jung si


Regia:Kar-Wai Wong

Cast e credits:
Soggetto: Wong Kar-wai; sceneggiatura: Wong Kar-wai, Zou Jingzhi, Xu Haofeng; montaggio: William Chang; musica: Nathaniel Méchaly, Shigeru Umebayashi, Stefano Lentini; scenografia: William Chang; interpreti: Tony Leung Chiu Wai (Ip Man), Zhang Ziyi (Gong Er), Cung Le (Tiexieqi), Song Hye-kyo (Cheung Wing-sing), Chang Chen (The Razor Yixiantian), Zhao Benshan (Ding Lianshan), Wang Qingxiang (Gong Yutian); Zhang Jin (Ma San); Shang Tielong (Jiang), Julian Cheung, Leung Siu-lung; produttore: Ng See-yuen, Wong Kar-wai; origine: Hong Kong, 2013; durata 123’.

Trama:Ip Man, colui che diventerà il maestro di Bruce Lee, vive a Fo Shan, nel sud della Cina dove pratica le arti marziali come personale passione. In seguito alla guerra cino-giapponese che sconvolge le province del nordest del Paese, il Grande Maestro Gong Baosen è costretto a trasferirsi a Fo Shan dove tiene la cerimonia del proprio addio alle arti marziali. Viene raggiunto da Gong Er, figlia a cui ha insegnato una tecnica letale. Ip Man e Gong Er si conoscono in questa occasione. La domanda che percorre il mondo del kung fu è: chi diverrà il successore di Gong Baosen?

Critica (1):Si fa presto a dire maestro, eppure qui ce ne sono due. Il protagonista Ip Man, che fu il maestro di Bruce Lee, e il regista Wong Kar-wai, che con The Grandmaster fa delle arti marziali arte cinematografica. Nulla più, ma è tantissirno, è tutto. E lo scarto dai due Ip Man di Wilson Yip (2008 e 2010) e altri progetti analoghi sulla leggenda del kung-fu: The Grandmaster è arte, la marzialità si scambia col balletto, la forma è ideale. l'immagine va verso l'infinito, a cogliere non solo un'epoca e un mondo scomparsi, ma le sensazioni, emozioni e atmosfere che rimangono.
Mai l'azione è stata così riflessiva, così sinuosamente colma di non detti, pause, mezze misure, schermaglie amorose, acquarelli geopolitici e acquitrini esistenziali. Sebbene Ip Man avesse la propria scuola di kung-fu - il Wing Chun - sebbene le sue celeberrime tre mosse trovino residenza nel film, la tecnica non ha la meglio sulla poetica, l'evento storico non sopprime l'anelito individuaIe. Perché è Wong Kar-wai all'ennesima potenza: dimenticate l'americano My Blueberry Nights (2007), ormai liquidabile quale incidente di percorso; qui le immagini si fanno memoria, e viceversa, senza frizioni e con un perché, riportandoci alla radicalità di 2046, alla cifra orgiastica e casta insieme di In the Mood for Love, a quell'aspettarsi, perdersi e (invano) ritrovarsi che racchiude il terzo tempo del suo cinema. Ma con un'inedita, sostanziale modifica. L’approdo al filone gongfu, per una metamorfosi nel segno di Sergio Leone: genere d'autore, e qui si spiegano le citazioni da C'era una volta in America, a partire dal pezzo di Morricone Deborah’s Teme. Wong Kar-wai è cambiato, rimanendo se stesse: l'attore fericcio Tony Leung per dirci che non ci siamo sbagliati, la metafisica che danza con l'azione, il melodramma che fa la spola tra ricordo e oblio, corpo e cuore.
The Grandmaster è un action-mélo con un unico attributo: umano. Ovvero nostalgico, dolente, parziale e frammentario. Cime leggere Frammenti di un discorso amoroso di Barthes e, al tempo stesso, fare kung-fu: di due uno, sulla «via di un grande maestro. Essere, Sapere, Fare». E dice bene Wong Kar-wai: non la vita, ma la via del maestro, perché il biopic affida a (didascalie e cartelli la cronistoria 1936-53 che non interessa, il dove e quando che non tengono. Comunque, per la cronaca, Ip Man (Leung, un Humphrey Bogart bello) nasce a Foshan, sud della Cina: moglie altolocata, il Wing Chun e un bordello, il Padiglione d'Oro, per coltivarlo. Poi, la guerra: i giapponesi invadono la Manciuria, il maestro del nord Gong Baosen (Wang Qingxiang) va a sud per celebrare il suo ritiro, accompagnato dal discepolo Ma San (Zhang Jin) e sua figlia Gong Er (Zhang Ziyi), depositaria dello stile di casa Baosen e della tecnica dei 64 palmi. Passa la Storia, s'incrociano le storie, i corsie ricorsi personali. con Ip Man e Gong Er così lontani e vicini. E noi uguali: macché fascino esotico, qui è solo fascino, desiderio e (im)potenza, il destino e «il kung-fu: tra orizzontale e verticale, disonore e gloria». In mezzo ancora noi, portati per aria da mosse, mani e piedi che fanno arte due volte: muovendosi sul set e rimuovendosi nei quadri di Wong Kar-wai. Non tutto collima, anzi, ma delizioso è perdersi nella visione, stilisticamente dibattuti tra l'architettura classica e l'innovativo design d'interni, la narrazioni e quell'attimo rivelatore in cui si dischiude e cristallizza la possibilità stessa dell'arte. Estetico ed estatico, riflessivo e mobillisimo, inafferrabile e contemplativo. generico e autoriale: prendere o lasciare, ma le mosse di Wong Kar-wai sono di un condottiero della settima arte. Come si traduce in mandarino veni, vidi, vici?
Federico Pontiggia, Rolling Stone, 1/09/2013

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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