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Manuel


Regia:Albertini Dario

Cast e credits:
Sceneggiatura: Simone Ranucci, Dario Albertini; fotografia: Giuseppe Maio; musiche: Ivo Parlati, Dario Albertini, Sarah McTeigue, Michael Brunnock; montaggio: Sarah McTeigue; scenografia: Alessandra Ricci; costumi: Virginia Barone; suono: Biagio Gurrieri, Francesco Vallocchia; interpreti: Andrea Lattanzi (Manuel), Francesca Antonelli (Veronica, la madre), Giulia Elettra Gorietti (Francesca), Renato Scarpa( Attilio), Giulio Beranek (Erol), Raffaella Rea (Marzia), Alessandra Scirdi (Nunzia), Monica Carpanese(assistente sociale), Luciano Miele (avvocato), Alessandro Di Carlo (Elpidio), Frankino Murgia (Frankino), Alessandro Sardelli (Robertino), Manuel Rulli (Giordano), Loretta Rossi Stuart (moglie di Elpidio), Manuela Ruiu (prostituta), Giuseppe Leone (Don Marcello), Loredana Carrera (suora); produzione: Angelo E Matilde Barbagallo per Bibi Film, con Timvision; distribuzione: Tucker Film; origine: Italia, 2017; durata: 98'.

Trama:Manuel ha appena compiuto 18 anni ed è giunto il momento per lui di lasciare la casa della famiglia adottiva in cui ha vissuto negli ultimi anni, dopo che sua madre è stata incarcerata. La libertà conquistata ha però un sapore dolceamaro. Mentre cammina per le vie del desolato quartiere, solo con le sue speranze e paure, Manuel cerca di lasciarsi alle spalle l'adolescenza per diventare un adulto responsabile. Deve dimostrare alle autorità che può prendersi cura di sua madre, se le verranno concessi gli arresti domiciliari. Ma sarà in grado di ridare alla madre la sua libertà, senza perdere la propria?

Critica (1):Si fa presto a parlare di “documentarismo”, di “realismo” sempre un po' “neo”, forse perfino di “verismo”, con l'immancabile “pedinamento”, rimarcando l'imprescindibile piano sequenza. Quanti ne abbiamo visti di film del genere, che finiscono impantanati nelle loro nobili intenzioni, imbalsamati dall'idea, l'etica estetica che soffoca la realtà?
E invece a Manuel questo non succede. Nel film di Dario Albertini – esordio nella fiction, dopo vari documentari, e la musica, e la fotografia, e i videoclip – le case popolari non sembrano solo scenografia (a parte un paio di inquadrature ad effetto, da cui scivola subito via con pudore), i ragazzi non si sforzano di essere naturali(stici), il protagonista “pedinato” non è una vittima della società da esporre all'indignazione o alla considerazione commossa dello spettatore colto (possibilmente amante del minimalismo). Manuel-Andrea Lattanzi - diciottenne in uscita da una casa famiglia, finalmente (?) libero dalle regole, la protezione, le raccomandazioni di educatori, preti, psicologi, alle prese con una madre in carcere da salvare, una casa da ripulire, una vita (anzi due) da ricostruire – porta con sé e su di sé una verità che emoziona, una vita interiore che ribolle in superficie, una ruvida autentica eroica fragilità, che di fronte alle difficoltà diventa una forza umanissima e appassionante.
C'entrano anche i piani sequenza, certamente, l'ostinazione con cui Albertini rifiuta la dialettica campo-controcampo, perché grazie al suo protagonista in stato di grazia, ai dialoghi che suonano veri, alla tensione creata dalla mancanza di stacchi e sospiri, ogni incontro diventa una piccola rivelazione. C'entra la capacità di creare “ambienti musicali”, suoni e campionamenti che forniscono alle immagini un doppio fondo misterioso. C'entra la consapevolezza con cui tira in ballo le proprie fonti di ispirazioni, come quando i Baci rubati aiutano il protagonista a percepire la propria unicità. Anche se poi, a ben guardare, l'incontro con l'attrice-volontaria che recita Truffaut ha qualcosa di posticcio; la musica, quando vuole "fare la scena", ci sveglia dall'incantesimo della “realtà più vera del vero”; gli incontri in cui la mdp si muove, come un pendolo, dentro il dialogo, risultano fin troppo costruiti e consapevoli.
E allora la bellezza e la forza di questo film forse stanno da un'altra parte. Nel vuoto delle scene più eteree, in cui si respira la verità e la complessità di Manuel, fuori da qualsiasi urgenza narrativa (la trama è minima, il figlio deve convincere "la società" di poter accogliere e aiutare sua madre agli arresti domiciliari, invece che lasciarla in galera). Nel pieno di quelle sequenze potenti in cui collassa la banalità del reale, la mdp sta semplicemente e intensamente a guardare e le emozioni implodono, emergendo dentro uno sguardo, mani che si toccano, una frase che esce più giusta e più onesta delle altre (nel dialogo iniziale con l'educatore o quello con l'assistente sociale, nell'addio alla casa famiglia o nell'incontro con la madre...).
Il film è nato quando Albertini ha deciso di rinunciare al Manuel vero, a cui si è ispirato, che aveva incontrato girando un documentario, La repubblica dei ragazzi, dedicato a una comunità di minori in difficoltà, privi di un sostegno famigliare. Ne ha dovuto creare uno "nuovo", forse anche più “vero”, insieme ad Andrea Lattanzi, con cui ha fatto un lavoro straordinario. Col suo viso affilato e lo sguardo intenso, l'orgoglio e la paura, timido e autentico, gentile e ribelle, Manuel-Andrea-Dario riesce a raccontare tutto un mondo (che a dirlo si scadrebbe nella retorica della decadenza urbana, nel folklore del disagio sociale) in pochi gesti e parole. Accompagnandoci per mano – ma senza darci eccessiva importanza, sopportando appena la nostra invasiva presenza – verso una qualche forma di poesia, grazia, bellezza, che troviamo lungo il desolato litorale ostiense, o in un abbraccio silenzioso dietro le sbarre, o nell'attacco di panico che libera la paura soffocata, o dentro il mutismo di uno di quegli ultimi che si incontrano nelle periferie del mondo, quando non ci si volta dall'altra parte.
Fabrizio Tassi, cineforum.it, 25/4/2018

Critica (2):Manuel è la storia di un educazione alla vita che diventa qualcosa cui il protagonista non era preparato: un’educazione alla responsabiità. È una storia semplice, come semplice (e insieme complicatissima) è la vita, quella che il protagonista deve imparare ad affrontare quando, diciottenne, lascia la casa-famiglia dove è vissuto fino ad allora. E che il film di Dario Albertini (un esordiente su cui vale la pena di scommettere) ci racconta con la medesima complessa semplicità.
Formatosi nel cinema non-fiction. Albertini ha scoperto così la «Repubblica dei ragazzi», un'organizzazione fondata nel 1945 da due sacerdoti che da allora accoglie giovani disagiati e su cui ha girato un film documentario. Da cui era rimasta esclusa una parte importante: l’incontro con la vita reale che avviene – inesorabilmente – quando i giovani devono lasciare quella struttura. Come appunto è il caso di Manuel (l'ottimo Andrea Latanzi) che scopriamo nel film il giorno prima della sua uscita. Lo seguiamo mentre segue per l'ultima volta le re-gola della vita in comune, mentre lava per l'ultima volta i piatti. mentre libera la stanzetta ma anche mentre cerea di convincere un'assistente a fargli salutare l'amica, in isolamento perché si è tagliata i polsi. Brevissima scena girata da lontano, così da non capire quello che i due si dicono e che però aiuta a intuire qual è l'animo del protagonista.
Quasi contemporaneamente scopriamo quello che lo aspetta fuori dalla casa di accoglienza: una madre in carcere da 5 anni (Francesca Antonelli) che spera di poter scontare i 2 anni che le mancano agli arresti domiciliari, sotto la tutela del figlio. E così l'esperienza della libertà di venta per Manuel la prima sfida che deve. affrontare. E non delle minori. Che però la sceneggiatura (dei regista e di Simone Ranucci) e la messa in scena cercano di raccontare nel modo meno oppressivo possibile, inanellando una serie di situazioni che possono sembrare delle deviazioni dalla «retta via» del racconto, ma che sono piuttosto la conseguenza della curiosità di Manuel per la vita e della sua casualità.
Tutto l'episodio con Frankino, il vecchio vagabondo che aiuta a mettere in moto il furgoncino, e il conseguente incontro con Francesca (Giulia Elettra Gorietti) l’aspirante attrice che lavora alla Caritas, non servono a far andare avanti la storia, non lasciano una qualche traccia nel percorso del protagonista, non aiutano a capire meglio la meraviglia e insieme la disponiblità con cui Manuel è pronto ad andare incontro alle cose. Così da rimanerne «stregato» come quando ascolta rapito la ragazza recitargli il pezzo (dai Quattrocento colpi di Truffaut) che deve portare a un provino e che per Manuel diventa una specie di magico incontro con l'idea dell’amore. Quell’amore che poi troverà la sua più squallida «replica» nell’incontro con la prostituta cui è trascinato controvoglia. Ecco la «complessa semplicità» di cui parlavo sopra. È quella che si dispiega e prende forma insieme allo svolgimento del film, davanti agli occhi di un ragazzo che si trova a dover affrontare sempre nuovi «esami», da quelli veri dell`avvocato (Luciano Miele) che lo istruisce e dell'assistente sociale (Monica Trapanese) che deve vagliare la sua idoneita a farsi carico della madre, fino a quelli indiretti ma più insidiosi dell'amico (Giulio Beranek) che gli prospetta una vita facile di soldi e donne se solo lo seguisse in Croazia o ancora quelli di Elpidio (Alessandro Di Carlo), un ex ospite della «Repubblica» con la sua doppia vita matrimoniale.
Tutti incontri e situazioni che Albertini filma senza mai cedere alle facili tentazioni di un'autorialita di facciata: la mobilita della macchina da presa sa fermarsi prima di diventare vezzo, l'ambientazione popolar-romanesca (il film è girato a Civitavecchia) non cade mai nel facile sociologismo e a emergere è la figura di un diciottenne che deve scegliere se farsi carico delle domande che gli pone la vita (e la madre) oppure inseguire il sogno di un futuro diverso e meno soffocante. Come invece è il colletto della camicia che indossa per l’udienza in tribunale.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 30/4/2018

Critica (3):Se Manuel (...) fosse stato girato in bianco e nero si sarebbe detto, naturalmente nelle proporzioni dovute, di un film “pasoliniano” prima maniera. Il regista Dario Albertini gli ha invece dato un colore vivo e asciutto. Ma va bene lo stesso. E l’apprezzamento, per lui e per questa sua opera prima, è solido e ben motivato. Perché la storia che racconta è carica di una poesia speciale e aspra nella fonte neorealista che la ispira tra i palazzoni, i prati incolti e il disagio di un litorale laziale greggio e disordinato.
Dove il Manuel del titolo – Andrea Lattanzi lo recita con profondità acquosa e sensibile – è un diciottenne vissuto per anni in casa famiglia perché sua madre Veronica (Francesca Antonelli) è in carcere e suo padre chissà dove. E da quella cupola protettiva esce non solo per trovare la sua strada ma anche e soprattutto per ripristinare un appartamento mezzo devastato e assistere la mamma facendole ottenere gli arresti domiciliari.
Parte da qui la sua avventura della vita, il suo passo verso una maturazione veloce alla quale, forse, neppure è preparato: al confine tra un’esistenza precedente costruita su premure conservative altrui e una futura carica di precarietà, disorientamento e assunzione di pesanti responsabilità, sentimenti diffusi ed equilibrati anche in una felice tecnica di sceneggiatura (scritta con Albertini da Simone Ranucci), nella fotografia essenziale di Giuseppe Maio, nell’adiacenza narrativa di attori bene allineati con l’intero costrutto (tra gli altri Renato Scarpa, Giulia Elettra Gorietti, Raffaella Rea, Monica Carpanese, Luciano Miele).
A fronte di una piccola ma tosta battaglia legale che gli potrebbe restituire sua madre, Manuel è costretto a crescere in fretta, elaborando concetti sconosciuti, ritagliandosi un lavoro qualsiasi in una panetteria, dimenticando la sua stessa età e offrendo incerte garanzie agli assistenti sociali pur di ritrovare – su un orizzonte di grande tenerezza – quegli affetti che gli sono sempre mancati. Magari a costo di esser travolto da ansiogene trepidazioni.
La riuscita della sua intrapresa la si lascia ad un finale che vale la pena di godere in tutta la flessibilità e intensa delicatezza che spingono quel ragazzo imbottito di spaesamento e solitudine. Niente opportunismi, solo amore. Autentico, primitivo, senza confini e senza riserve. Da figlio vero che si prende cura della madre come fosse a sua volta una figlia. In un piccolo prezioso film italiano che nella sua indifesa semplicità riesce a commuovere e rivelarsi. Perfino in una intensa, imprevista digressione testuale su un frammento di Baci rubati di François Truffaut. E Antoine Doinel, non è così lontano, neppure in rima, da Manuel.
Claudio Trionfera, panorama.it, 7/5/2018

Critica (4):
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