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Sugarbaby - Zuckerbaby


Regia:Adlon Percy

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Percy Adlon; fotografia: Johanna Heer; musica: Dreierer orchestra; suono: Rainer Wiehr; montaggio: Jean-Claude Piroué; scenografia: Matthias Heller; interpreti: Marianne Sägebrecht (Marianne), Eisi Gulp (Eugen Huber), Manuela Denz (moglie di Huber), Toni Berger (Toni), Will Spindler (conducente del treno) Hans Stadlbauer (conducente del treno); produzione: Pelemele München; distribuzione: Mikado Film; origine: RFT, 1985; durata: 86'.

Trama:Marianne vive a Monaco di Baviera: ha 25 anni, è una sciatta grassona che lavora presso una impresa di pompe funebri, lavando e vestendo i cadaveri. Donna sola e golosissima, divora cioccolato e paste, quasi a compensare la propria vita grigia e deludente. Nel vagone della metropolitana la colpisce un giorno il timbro di voce del conducente (in Germania il conducente annuncia a voce il nome della stazione ed avvisi per salire e scendere dalle carrozze) e a lei viene la curiosità di conoscerlo. Si apre per Marianne un capitolo inatteso: studia le tabelle dei turni di lavoro, segue le mosse del conducente al capolinea e apprende molti dettagli sulle sue abitudini. Quello ha una moto e, quando rincasa, trova una moglie stanca del proprio lavoro, sgradevole e senza affetto. Marianne, che per fare le sue ricerche si è messa in ferie, alla fine lo blocca in una stazione, gli offre un dolcetto acquistato a un distributore automatico, lo porta a casa, lo colma di premure e di tenerezze, si abbiglia e si fa bella per lui.

Critica (1):L'antefatto di Sugarbaby è l'incontro tra il regista e l'interprete femminile, Marianne Sägebrecht, un personaggio molto noto negli ambienti artistici di Monaco quale animatrice nel quartiere di Schwabing di una singolare compagnia, l'Opera Curiosa, formata da cantanti, saltimbanchi, attori teatrali, travestiti, mimi. Adlon la vide una prima volta nella totale immobilità dentro una piscina di un albergo di Deggendorf, dove s'era recato a girare una scena per un film televisivo (questo del rapporto solitario con l'acqua, con le relative implicazioni psicoanalitiche, torna anche in Sugarbaby).
Ebbe poi modo di notarla di nuovo in una sfrenata performance di rock and roll su un palcoscenico. È dalle sovrapposte e solo in apparenza contrastanti immagini dell'attrice che deriva l'idea del film (tuttavia coadiuvato da un racconto di un'amica su una signora divenuta all'istante bellissima pronubo l'amore per un tramviere). L'altro tassello determinante dell'operazione è il contributo dato dalla direttrice della fotografia, Johanna Heer, un'austriaca trasmigrata a New York, studiosa e teorica del colore, rivelatasi al pubblico della cinefilia d'oltreoceano con Subway riders di Amos Poe. Una videoartista che ha inquadrato le revulsioni di un quotidiano privo d'amore nella rete metallica delle tonalità fredde: rossi, viola, verdi, blu, quando virati duramente verso un'evidenza iperrealistica, quando invece compressi su una misura asettica ed omogeneizzante. Facile pensare al post-moderno, che al cinema, quanto al colore, si è venuto ad es. impaginando nella contagiosa tavolozza lavorata da Housselot per Diva di Jean-Jacques Beineix. Più scoperto (nel caso di Adlon) il richiamo a Fassbinder, ma anche più appropriato: giacché è proprio nel suo cinema che la violenza del moderno ha incontrato il bric-à-brac di oggetti e cromie tra loro in contrasto, spinti sino al limite del kitsch. Un po' come tutto quello che si ritrova in Sugarbaby: la metropolitana, le scale mobili, gli interni spenti, i casermoni delle enclavi periferiche, tutto reso con quei modi forti come la stessa vicenda e che danno forza al racconto filmico. Anche la storia della grassona cinquantenne che si abbandona a una passione romantica ed adolescenziale per un tizio che ha la metà dei suoi anni ma che la ricambia, sembra ritagliarsi pari pari negli scampoli di un universo irridente e ossessivo, quale fu quello di Fassbinder. Si potrebbe ricordare Angst essen Seele auf, con l'incontro tra il turco e la matura signora tedesca.
Il punto di maggior contatto non è tuttavia tematico, nel sensoo stretto del plot. In comune con Fassbinder, ma in generale in comune con il cinema tedesco dell'ultimo ventennio, lo sguardo di Adlon – con diverse varianti e alcune licenze - ordina anch'esso l'assetto della realtà nei termini di una opprimente normalità. Anche nel caso di questo ispirato "film d'autore" (così Cosulich in una recensione per Rai tre), la lezione della cinepresa imprime indelebile il marchio dello squallore quotidiano, per
suasivamente prospettandocelo nella somma degli atti sempre uguali: la routine del lavoro, il percorso, la bulimia, l'isolamento, ecc..
L'irrealtà del presente si angola quasi fenomenologicamente sull'analisi di una persona comune la cui durezza, crudamente meccanizzata sul proscenio metropolitano ed emblematizzata nel corpo pesante e sgraziato, viene appena corretta all'inizio dalla pietà che a tratti lei prova per le salme che pulisce e che veste. Ma come in tante afre opere di questa ultima stagione del cinema e della cultura tedesca, i racconti in persona dei diversi personaggi (qui la teutonica cinquantenne; in Herzog i visionari; nella von Trotta l'ipersensibilità femminile) possiedono la valenza e lo spessore di un destino che è sovraindividuale.
Ciò accade anche in Sugarbaby, nella prima parte e in generale nello sfondo che lo stile del film ora inquadra espressionisticamente ora ritaglia iperrealisticamente. Se questo è il livello della realtà, alienante e per ciò stesso deformata; e se a tale situazione un Fassbinder reagisce con una provocante e sarcastica disperazione, Percy Adlon si abbandona alla tenerezza e alle risorse di una fantasia umanizzata e solidale.
La sua Marianne non si lascia distruggere da quelli che sono i canoni della cultura corrente. Al modello vitalista ella oppone, sia pure involontariamente, la frequentazione della morte; al cliché giovanilistico e dietetico l'età rimarchevole e una stazza fisica alquanto voluminosa. Il muro della solitudine non s'infrange da solo con l'inattesa apparizione di Huber, ma è pur sempre il caso a determinare l'insorgere del processo. Adlon è molto convincente allorquando delinea i cambiamenti della donna: cambiamenti prima psicologici e poi fisici; del pari è icastico se traduce la fermezza del carattere tedesco nel progetto d'amore, che tiene in conto anche le debolezze del giovane, in primo luogo quella mancanza d'affetto confermata dal suo amore per i dolci.
Gli anelli narrativi al cui interno possono spiegarsi il carattere e il senso di una così straordinaria passione ci sono tutti, mostrati nel racconto e non invece sovrammessi. Per incredibile che sia, Marianne è leggerissima nella sua opulenza (c'è a riprova la sequenza del rock), delicata negli affetti e nel sesso, spiritosa e imprevedibile. Scopre l'amore e il rispetto di sé attraverso l'amore per un altro. Ma infine, lo chassis sul quale si distende il corpo centrale della narrazione - il rapporto tra i due - diventa un po' il livello della favola che s'oppone al livello della realtà. Meglio, il risarcimento che il cinema e l'immaginazione riescono a produrre rispetto alle standardizzazioni del quotidiano.
Gualtiero De Santi, Cineforum, n. 272 marzo 1988

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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