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Daunbailò - Down by Law


Regia:Jarmusch Jim

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura:
Jim Jarmusch; fotografia: Robby Müller; musica: John Lurie; montaggio: Franck Kern; scenografia: Roger Knight; suono: Mark Goodermote; interpreti: Tom Waits (Zack), John Lurie (Jack), Roberto Benigni (Roberto), Nicoletta Braschi (Nicoletta), Ellen Barkin (Laurette); produzione: Jim Jarmusch e Rudd Simmons, per Black Snake-Grokenberger Films production; distribuzione: Academy; origine: Usa, 1986; durata: 106’.

Trama:In una città della Louisiana vivono Zack e Jack. Il primo è un ex-disc-jockey che si è dato al bere, incapace di conservare abbastanza a lungo un impiego; il secondo un affermato protettore . Jack viene «incastrato» da dei rivali che lo fanno cogliere sul fatto dalla polizia mentre cerca di istigare alla prostituzione una minorenne. Zack, ubriaco, viene cacciato di casa dalla donna con cui vive e si abbandona a canticchiare in un bidone della spazzatura. Qui incontra prima un giovane italiano (Roberto-Bob) che legge su un taccuino le frasi con cui fare conversazione, poi un «amico» che gli propone un affare: si tratta di guidare una Jaguar di dubbia provenienza da un posto a un altro per mille dollari. Zack accetta, ma viene fermato dalla polizia: il guaio è che nel baule dell’auto c’è un cadavere.

Critica (1):Due anni fa, Stranger than Paradise, subito diventato un cult-movie, aveva rivelato in Jim Jarmusch un talento del tutto libero, indipendente, che metteva in campo eroi ordinari, scrutandoli con uno sguardo a metà tra l’indulgente e il severo, uno sguardo amichevole ma non compassionevole, e comunicava con vena felice il sentimento dell’America come “mondo triste e meraviglioso”, un po’ alieno. Ora anche in Down by Law (è un termine preso dalla strada, e significa, più o meno, “sottocontrollo”) veniamo immersi in questo mondo triste e bello, una Louisiana invernale depurata del suo folklore, con le sue umide paludi del “bayou” infestate da grossi alligatori disneyani, sulle piste di un terzetto di eroi vagabondi perseguitati dalla malasorte. Nulla di epico, beninteso. Jarmusch dipinge ancora un’America insolita, sconosciuta, ma che immediatamente ha il sapore dell’autenticità: una periferia del mondo popolata di estranei (e di stranieri: ungheresi, italiani…), marginali che inseguono sogni sradicati, non dei disperati però. L’inizio è straordinario: un geniale travelling scorre da destra a sinistra sui sobborghi industriali, i capanni da caccia, le ringhiere, le palafitte, le officine abbandonate, le case in costruzione di una New Orleans lugubre collegando con logica simmetria tra loro due dei tre balordi protagonisti, mentre sullo sfondo si ode la chitarra di Hernando’s Hideaway e Tom Waits sussurra con voce roca “16 men on a deadmen’s chest… I’m full of bourbon; I can’t stand up”. Autentiche riedizioni beat dei “poveri bianchi” alla Sherwood Anderson e alla Erskine Caldwell, Jack e Zack, il mediocre magnaccia e il dee-jay senza lavoro, sono due scarti del Sogno americano, in più hanno problemi con le loro donne (le donne, autentiche creature del demonio qui all’inizio del film) e vengono incastrati da loro supposti amici: memorabile il grassone da film noir che offre a Jack una ragazza di diciannove anni, “una dea cajun” e gli dice per convincerlo “Sono serio come il cancro”; due eroi vagabondi, in particolare il kerouachiano Zack che erra la notte per strada, si cava e rimette le scarpe mentre sullo sfondo si arrampicano le note di un sax, e improvvisa un blues dopo aver incontrato il lunare Roberto che gli ripete, appunto, “è un mondo triste e bello”. Dopo mezz’ora di film, i due si ritrovano a condividere lo spazio angusto della stessa cella, in mezzo a tanti negri. Diversi come sono, non vanno molto d’accordo: litigano, si azzuffano anche. È l’arrivo del surreale Roberto, col suo libriccino per parlare inglese (“Se uno sguardo può uccidere, sono un uomo morto”) a gettare un ponte tra i personaggi, a dar loro uno scopo comune. Roberto è il più gentile, ma è anche il solo ad aver ucciso. Si tratta di un personaggio positivo, che tenta continuamente di comunicare: disegna una finestra immaginaria sul muro, spinge gli altri a cantare tutti insieme “I scream, you scream, we scream for ice cream”. È Roberto “il buono”, che crede fermamente nei sogni, a trovare il tunnel per la fuga nelle paludi del “bayou” infestate di serpenti a sonagli e alligatori. Inseguiti dai cani, i tre capitano dapprima in una baracca che è la copia conforme della loro cella, dove Roberto parla di poesia; e significativamente spunta fuori il nome di Robert Frost, il cantore dello stoicismo, della solitudine, dell’immersione nella natura, della fisicità delle stagioni. Subito dopo, con una canoa, girano in tondo alla palude fino ad affondare: “Go in the land immediately”, strepita Roberto, che non sa nuotare. Dopo altri litigi ed abbandoni, i tre, proprio come nelle fiabe, arrivano alla fine in una piccola capanna in mezzo alla foresta, dove una Biancaneve venuta dall’Italia fa cuocere delle fettuccine propiziatorie, recuperando così in extremis alla donna il suo ruolo salvifico. Roberto finirà per fermarsi lì con lei, mentre gli latri due, ripartiti, si separeranno la primo bivio che incontrano per un destino incerto. Aldilà dell’humour che pervade il film, dovuto soprattutto alle gags di un Benigni in grande forma, becero e surreale nel suo inglese maccheronico e nella sua eleganza da comico del muto, la bellezza di Down by Law risiede ancora una volte nello straordinario garbo con cui vengono tratteggiati questi eroi senza qualità. Viene in mente, irresistibilmente, il cinema di Buster Keaton, il suo rifiuto di ogni patetismo, la dignità un po’ buffa con cui l’ometto subisce i colpi della sorte da lui stesso provocati, l’atmosfera beckettiana in cui è immerso. Anche gli eroi di Down by Law sono buffi ma non patetici: alle prese, come Keaton, con un mondo di oggetti incomprensibile e ostile che non lascia loro spazi vitali, conservano una dignità nelle continue avversità e nella ostinata volontà di “farcela”, un ottimismo che rievoca anche quello di Totò, Ninetto o della Mangano nell’episodio pasoliniano di La terra vista dalla Luna de Le streghe. L’effetto di spaesamento di Down by Law deriva però dal fatto che è come se avessimo Keaton a spasso in un film nero americano di serie B, poniamo un Ulmer (Detour), un Lewis (Undercover Man), un Ray (They Live by Night) – o, perché no, un Huston con le sue atmosfere di scacco. I tre risultano così personaggi di umiliati e offesi presi in un ingranaggio da cui cercano di sfuggire con un pellegrinaggi alle sorgenti del sogno; la felicità, per chi sa riconoscerla, può essere rappresentata dall’incontro con una ragazza ed un piatto di pastasciutta – due cuori e una capanna, appunto. Per i due yankees, invece, essa, probabilmente e appropriatamente, è in nessun luogo e dappertutto, “on the road”: sui titoli di coda Waits canta «Let me fall out of the window with confetti in my hair… And send me off to bed forever more». Geniale amalgama di molteplici mitologie popolari, Down by Law è un lungo blues del Sud che invece di distillare la solita tristezza appiccicosa, dispensa una strana allegria appena venata di malinconia. Comincia all’inferno, ma si conclude non lontano dal paradiso per i suoi piccoli eroi senza casa. E, nello splendido bianco e nero della fotografia di Robby Müller, l’operatore di Wenders, questo mondo “triste e bello” viene coniugato in tutte le possibili variazioni di luminosità, che “doppiano” gli alti e bassi della sorte: il grigiore dell’alba nella città, le oscurità degli alberghi e dei vicoli, la solarità del carcere, il crepuscolo nella palude e infine il calore che emana dalla capanna della fatina e dal finale sulla strada questo sì un po’ chapliniano: la simmetria delle fiabe e l’implacabilità dei sogni si sposano in quello che dovrebbe diventare un piccolo classico.
Alberto Morsiani, Segnocinema n. 26, gennaio 1987

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Jim Jarmusch
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