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Australiano (L') - Shout (The)


Regia:Skolimowski Jerzy

Cast e credits:
Sceneggiatura: Jerzy Skolimowski, Michael Austin dall'omonimo racconto di Robert Graves; fotografia: Mike Molloy; montaggio: Barrie Vince; musica: Anthony Banks & Mike Rutherford, Ru ert Hine; suono: Tony Jackson, Alan Bell; scenografia: Simon Holland; costumi: David Paddon; interpreti: Alan Bates (Charles Crossley), John Hurt (Anthony Fielding), Susannah York (Rachel Fielding), Robert Stephens (il dottore), Tim Curry (Robert Graves), Julian Hough (il pastore), Carol Drinkwater (la moglie del calzolaio), Nick Stringer (il calzolaio); produzione: Jeremy Thomas per National Film Finance/ Rank Corporation; distribuzione: Collettivo dell'Immagine; origine: Gran Bretagna, 1978; durata: 86'.

Trama:Nel villaggio di Lampton (Gran Bretagna), la squadra di cricket locale sfida quella del manicomio. Il ricoverato Charles Crossley funge da giudice con la collaborazione di Robert, un ragazzo sano di mente. Mentre la partita si svolge con alterne vicende, Charles racconta all'occasionale amico la sua storia. Dopo avere passato 18 anni presso aborigeni, da uno stregone ha appreso l'arte di concentrare la propria forza in un urlo distruttore e assassino insieme. Pervenuto a Lampton, si è infilato di prepotenza nella casa e nella vita dei giovani coniugi Anthony e Raquel. Su richiesta di Anthony, si è esibito nel famoso urlo, provocando la morte di un pastore e delle sue pecore. In seguito, approfittando di altre arti magiche, ha indotto Raquel all'adulterio. Il giovane marito, ora cosciente dei poteri dell'avversario, ne frantuma l'anima spezzando un sasso. La lotta diretta tra Anthony e Charies Crossley è inevitabile; ma intervengono i poliziotti che lo ricoverano a causa di un delitto compiuto in precedenza. Finito il racconto, mentre è scoppiato un forte temporale, Charles urla e muore.

Critica (1):(...) Skolimowski sostiene che Robert Graves è il più grande scrittore di lingua inglese dopo Shakespeare. Forse esagera un tantino, ma quando Jeremy Thomas (proprio lui, quello dell'Ultimo Imperatore, del Piccolo Buddha e del Pasto nudo) lo è andato a trovare "in jeans sporchi" proponendogli un soggetto tratto dal racconto breve di Graves The Shout (1926), deve davvero essere stata una specie di folgorazione. L'idea dell'urlo era seducente, e nel giro di poco tempo le dieci pagine di partenza erano diventate, con l'aiuto di Michael Austin, uno script di settanta. Skolimowski pone come condizione la possibilità di lavorare sul sonoro con grande accuratezza, e dietro assicurazione di economie su altre voci del budget riesce a ottenere l'utilizzo nientemeno che del Dolby Optical Sound System di Guerre stellari e Incontri ravvicinati. Se si tien conto di questo, si spiega anche come la fisionomia complessiva di The Shout colpisca per l'estremo controllo al quale Skolimowski sottopone i materiali della mise en scène, e non solo quelli sonori. Tecnicamente, infatti, il film è di una pulizia "cristallina", e ogno sospetto di manierismo viene infatti scongiurato dal fatto che una così rigorosa organizzazione formale non appare mai fine a se stessa, bensì come necessaruio contrappunto dell'assoluto dominio che l'irrazionale esercita sulla narrazione (...). Il racconto di Graves contiene già, originariamente, le tre suggestioni magiche su cui si sviluppa la vicenda di Crossley e dei coniugi Fielding: L'urlo che uccide, la trasmigrazione dell'anima e l'incantesimo a sfondo sessuale gettato su qualcuno attraverso il possesso di oggetti personali, anche insignificanti (con un processo che potremmo definire "metonimico"). Ora Graves, oltre che per la sua attività di autore di romanzi storici (Io, Claudio ), è noto per essersi occupato di antropologia mitologico-religiosa, come nelle ponderose 724 pagine de I miti greci (1954; ed. it. Longanesi, 1983). Era quindi uno che come minimo si era letto e studiato almeno tutto Frazer, e The Shout non fa che riprendere in forma narrativa il tema del conflitto primario fra magia e razionalità, sottolineando le conseguenze dirompenti che una scheggia di questo potere connesso all'occulto e all'indeterminato può scatenare nella società "civilizzata".
L'aggancio con un pattern al tempo stesso così elementare e così profondo assicura alla pagina gravesiana, e di conseguenza al film, la legittimazione di tutta una serie di codifiche parallele. È evidente che la follia di Crossley, per esempio, innesca automaticamente l'antinomia con la cosiddetta "normalità": detentore di un sapere arcaico, non appena accenna a servirsene provoca l'autodifesa di una società che lo esclude e lo emargina, facendone anzi una sorta di diverso al quadrato (anche dentro l'ospedale psichiatrico egli si trova in un certo senso a essere, date le speciali caratteristiche della sua "malattia", elemento estraneo e non omologabile). Inoltre, come giustamente rileva Ferzetti, sotto la superficie del racconto si può individuare una struttura "funzionale" imperniata sul classico schema del confronto tra due antagonisti - Anthony e l'intruso" Crossley - che fanno ricorso alle rispettive armi e contromisure per assicurarsi il possesso di un "oggetto di valore" (Rachel). E ci sono, ancora, i riferimenti all'Australia come "ventre oscuro" dal quale emergono le minacce e i fantasmi di morte evocati da Crossley (l'infrazione del tabù dell'uccisione dei figli, la storia dello stregone che si incide il petto per provocare la pioggia, ...): metaforica allusione, possiamo supporre, al mai sopito complesso di colpa che la società britannica conserva sotto le spoglie del tardo colonialismo (non dimentichiamo che il racconto di Graves risale agli anni '20).
Fermiamoci qui: la molteplicità dei codici messi in gioco è tale da autorizzare, in modo tutto sommato convincente, questi ed altri attraversamenti del testo. Ma non basta certo questo a esaurire il fascino "perturbante" di The Shout: il film infatti rappresenta un'ennesima, ma assai pregnante, validazione della celebre definizione del fantastico elaborata da Todorov, che ne fa risalire la natura all'indecidibilità, all'esitazione che si prova di fronte a eventi impossibili da collocare in un orine logico-razionale. A questo proposito l'osservazione che Crossley rivolge a Anthony, e cioè più o meno: "... lei non è in grado di comprendere fatti che vanno al di là della sua normale esperienza" suona come una sorta di interpellazione rivolta agli spettatori, affannati a riannodare i fili, rinvenire i segnali, seguire le tracce che il film dissemina alla ricerca del rassicurante alibi dell'interpretazione.
Il gioco skolimowskiano si scopre quindi come capzioso trattato in progress sull'ambiguità, gigantesca macchina celibe che dispone gesti, oggetti, situazioni in modo che sia virtualmente inspiegabile se essi siano il frutto della fantasia malata di un pazzo o se al contrario non procedano da un'inafferrabile volontà ordinatrice (e allora quale? di chi?) che il racconto di Crossley si limita a materializzare.
Nel suo pur pregevole articolo, Emmanuel Carrère contesta a Skolimowski l'affermazione secondo cui The Shout sarebbe una variazione sui temi dell'ambiguità, appunto, e dell'assurdo. Sono due nozioni contraddittorie, dice Carrère, e comunque dal momento che ciò che Crossley narra viene reso "oggettivo" dalla m.d.p. non ha più senso chiedersi se sia vero oppure no. In realtà, l'operazione di Skolimowski mi sembra molto più sottile, mirando apertamente a disorientare lo spettatore prima confondendo i piani temporali (il film "inizia" almeno tre volte nel giro di pochi minuti; solo molto più avanti riusciamo a motivare le immagini sgranate dell'aborigeno, e dobbiamo aspettare addirittura la fine per comprendere il senso dell'arrivo di Rachel al refettorio), e poi soprattutto con la frase-chiave di Crossley: "Ogni parola di ciò che sto per dirle è vera... solo che io la potrei dire diversamente. E sempre la medesima storia... ma io vario la sequenza degli eventi, vario il momento culminante... di quel tanto che basta a far sì che sia viva... capisce, a renderla viva!". Non siamo ancora entrati nello spazio-tempo principale della vicenda, e già Skolimowski ci ha ricordato che quello che vedremo "oggettivato" è suscettibile di falsificazione (che è poi il rovescio, della medaglia di qualsiasi forma di linguaggio). E su questa specie di elastico tra la tendenza dello spettatore a prendere per buono ciò che vede (pur todorovianamente "esitano", beninteso) e la consapevolezza che Crossley potrebbe anche mentire che il regista può giocare al gatto col topo e fondare l'avvincente doppiezza del film. Senza dimenticare che il rapporto con Crossley/Skolimowski è complicato dalla presenza di quello che Chatman chiamerebbe il "narratario", vale a dire il personaggio di Robert Graves (interpretato da Tim Curry, quello di Rocky Horror Picture Show), che come sappiamo è l'autore della novella che fa da soggetto al film. E qui siamo in piena vertigine da raddoppiamenti...
Tuttavia, non si tratta semplicemente di artifici narrativi. Bisogna rifarsi a certi spiazzamenti buflueliani (e forse anche allo Scorsese di Fuori Orario ) per vedere una messa in scena così esasperatamente realistica trasformarsi nel suo contrario attraverso le scelte linguistiche e profilmiche messe in atto. Un esempio: Anthony, sconvolto dalle rivelazioni di Crossley sull'urlo omicida, tenta di salire in bicicletta facendola cadere, con involontario effetto comico. Quindi afferra un'ascia e, per scaricare la tensione, si appresta a spezzare un ciocco di legno. Risultato: quest'ultimo parte come un proiettile e frantuma un vetro tra le imprecazioni del maldestro Anthony. Tutta l'azione è perfettamente logica nel suo svolgimento, ma le sue conseguenze si caricano, nel contesto del film, di misteriose valenze simboliche: esse però, come in molti casi analoghi, rimangono allo stato potenziale, non ricevendo precise attribuzioni di senso ma contribuendo all'impenetrabilità che caratterizza The Shout.
Il metodo di Skolimowski è appunto quello di creare costantemente condizioni di questo tipo: il paesaggio del North Devon lo aiuta non poco, è chiaro, ma il campo di cricket della clinica è un autentico colpo di genio. Al Nostro, l'abbiamo detto, piace lo sport, ma i gesti dei giocatori di cricket sono quanto di più incomprensibile si possa immaginare per uno che non sia nato tra la Cornovaglia e l'East glia. E perché un pavone scorazza su e giù per il green ? Cosa significherà mai? E perché non dovrebbe farlo, risponderebbe Don Luis, come quando gli fecero una domanda simile a proposito delle pecore dell'Angelo sterminatore. Skolimowski sottoscrive, riempiendo letteralmente il film di indizi, anticipazioni, parallelismi; e scommetto che chiunque, istintivamente, non può fare a meno di chiedersi quale arcano senso nascondano. Certo, c'è sempre la psicanalisi, che verrebbe tanto comoda per spiegare in termini di atti mancati ecc. ecc. episodi come quello dell'ascia: ma il polacco fa marameo facendo dire a Crossley che, per compiacere il dottore, si inventa dei sogni in cui caccia tutti i simboli possibili: padri, rettili, torte di mele,... ". No, la scappatoia sarebbe troppo facile, e la teoria dei rebus resta tutta lì, fortunatamente irrisolta: a parte gli atteggiamenti di Crossley e gli elementi propriamente magico-animistici (l'osso, la fibbia, il sasso), ci sono specchi sparsi un po' dappertutto, c'è la vespa che Crossley schiaccia sul vetro e quella, finta e enorme, che penzola dal soffitto, le tre riproduzioni di quadri di Bacon che anticipano altrettante posture di Rachel, lo scheletro del gallo impagliato che Anthony tiene nello studio, il cane che rovescia il latte, e così via. Tutto questo Skolimowski riesce a impaginarlo esibendo una straordinaria abilità nel variare continuamente tecniche di ripresa e di montaggio. Piani ravvicinati e dettagli si alternano a campi lunghi e a totali in maniera imprevedibile, e vengono utilizzati frequentemente punti di vista eccentrici, panoramiche violente e velocissime (la presentazione di Crossley a Rachel), stacchi improvvisi (i "ritorni" della partita di cricket intercalati sul flashback principale, il risveglio dall'incubo sulle dune), lenti carrelli avanti e indietro, inusuali raccordi sull'asse (specie nei corridoi della casa), frequenti ralenti.
Un accenno particolare merita il sonoro, che come si è detto ha goduto già in fase preliminare di una cura tutta speciale. Facendo di Anthony un musicista elettronico, Skolimowski (con la supervisione di Rupert Hine) può proficuamente investire di intriganti connotazioni e apparecchiature di studio e gli esperimenti "rumoristi" con l'acqua e le biglie, la scatola di sardine suonata con l'archetto, il fumo della sigaretta, ecc. La storia dell'urlo poi è piuttosto curiosa: Skolimowski racconta che, dopo l'ennesimo e inutile tentativo di far gridare qualcuno abbastanza a lungo per coprire il montato, in preda alla disperazione ha lui stesso, in piena notte, gettato un grido tanto lacerante da provocare l'intervento dell'allarmata polizia londinese (successivamente, in sede di editing, la frequenza è stata "corretta" con la sovraincisione di rumori vari, dalle casca
te del Niagara al lancio di un razzo spaziale). E, infine non si può mancare di segnalare l'efficacia del solenne e suggestivo incidental theme, composto da Anthony Banks e Mike Rutherford dei Genesis. (...)
Marco Borroni, Cineforum n. 331, 1-2/1994

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Jerzy Skolimowski
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